Fiori e Teschi di…Georgia O’Keeffe

Georgia O’Keeffe Iris Bianco, N.7, 1957, olio su tela
Teschio di cavallo su blu, 1930, olio su tela

Mi sono sempre chiesta dove l’artista nasconda la sublimazione della propria opera, dove nell’opera stessa meglio riesce ad affiorare questo segreto.

Foto di Alfred Stieglitz

Mi sono addentrata proprio nella corolla di un fiore dipinto dalla pittrice statunitense Georgia O’Keeffe (1888 – 1986), in un blow-up spietato, a frugare là dove si nasconde il suo mistero più intimo. Fiori fatti di carne si potrebbe dire, anche se Georgia dissentiva fortemente quando glielo si faceva notare.

Riteneva che i suoi fiori non fossero “sessuati”, ma c’è un segreto tutto al femminile nei suoi stami, i pistilli.

La stessa artista riferendosi alla “donna” affermava: “Ho pensato che c’è qualcosa di inesplorato nella donna. Qualcosa che solo un’altra donna può esplorare”.

Particolare nella O’Keeffe questo odio nei confronti dei fiori, ella sosteneva che dipingesse fiori soltanto perché costassero di meno rispetto a una modella in carne ed ossa e che poi non si muovessero.

Allora perché spingersi fino nel deserto americano nel New Mexico, tra sabbia e roccia per dipingere un fiore?

Centinaia di foto scattate dall’amica Maria Chabot la ritraggono in cerca di ossa, accanto a un bucranio sbiancato appeso al cancello, perché Georgia dipingeva grandi bucranio di bestie morte nel deserto. Ossa che deformano il ricordo dell’animale vivo. Qui pure la sublimazione dell’opera, ergo del segreto, nella forma perfetta e quintessenziale di vita e morte, il grande tema barocco, il cranio e il fiore.

Potrei sostenere che la sublimazione di un’opera sta nell’enigma forse sconosciuto anche alla stessa autrice, in questo caso a Georgia O’Keeffe, questa non completa presa di consapevolezza di sé, come se ella cercasse  nel deserto il segreto del mondo intero e di sé stessa nel mondo.

Se per i poeti il senso della parola è il silenzio, credo si possa ritenere che per un pittore il senso di un soggetto impresso su tela sia il sottrarre significato al soggetto stesso rappresentato, amplificarne il senso fino ad annullarlo completamente.

Il deserto è il luogo dove intraprendere un cammino di studio e di ricerca, nel   caso di Georgia O’Keeffe, anima dolente, caparbia, sempre inquieta a isolare, a identificare e assolutizzare in una forma quel fiore e quel cranio, fino a sublimizzarne l’atto estetico e a cancellarne completamente il significato.

Georgia stessa affermerà in tal senso: “Ho pensato che se avessi dipinto un fiore in grande nessuno ne avrebbe potuto ignorare la Bellezza

Gloria Sannino

29 Note – Poesie di Antonella Vairano: nell’ampia periferia dell’amore

Amedeo Modigliani
Jeanne Hébuterne

Gli occhi cerulei di Jeanne Hébuterne, giovane pittrice parigina, (1898 – 1920) trafissero quelli di Amedeo Modigliani (1884 – 1920) quando, per la prima volta, s’incrociarono per le vie d’una vitalissima Montmartre in una Parigi di inizio Novecento, lì dove, tra caffè letterari illuminati dalle luci della Belle Époque, locande dell’ultima ora e laboratori d’arte, s’incontravano, per caso o per destino, pittori quali Marc Chagall (1887 – 1985), Maurice Utrillo (1883 – 1955) o scrittrici quali Geltrude Stein (1874 – 1974) con Alice B. Toklas (1877 – 1967)1

A. Vairano, 29 Note – Poesie, Youcanprint, 2018

Nella sua casa di Montmartre, Modigliani amò dipingere quegli occhi, tanto chiari da sembrare vuoti, sopra un viso variamente reclinato così come tante sono le declinazioni dell’amore. Ed è proprio la sfrenata passione tra Modì e Jeanne, terminata tragicamente, ad ispirare Antonella Vairano nell’opera d’esordio: 29 Note – Poesie. 

Abbiamo l’impressione di elevarci, di salire ad alta quota dove l’aria si fa rarefatta, il respiro corto e tremanti le ginocchia, perché l’autrice scrive d’amore.    

Ci chiediamo se sia possibile scrivere d’amore, oggi tra le macerie delle città martoriate o nei sotterranei affollati delle metropolitane. Ed in quale modo?

L’autrice raccoglie la sfida: scende in strada, percorre caliginosi vicoli, si spinge negli anfratti più bui dell’amore, città eternamente cinta da alte mura imbrattate di vita: “S’ingorda di bianche pareti / e s’affolla di rosso potente. (…) Sono i miei azzardi / che si sciolgono / nell’ordine / di due lune allineate.” (dalla lirica: Vita).

Max Jacob, Château des Brouillards, 1918, olio su tavola (collezione Le Vieux Montmartre)

Ella non esalta l’amore inteso come valore da preservare, ma lo osserva nella relazione amorosa tratteggiandone le emozioni. Per questo, esso non cede mai a vani sentimentalismi o inutili smancerie, è sostanza prima, sale della terra. Così ella scrive: “S’affaticano le parole / e d’essere ne vorrebbero dell’amore / pane carne e sangue. […] S’infiammano le parole / e d’essere sono la riga profonda / del pregevole marmo.” (da: Cos’è l’amore). L’amore dunque si fa sanguigno, essenziale ed il suo verso, carnale. Non una poesia imbellettata, sentimentale, ma del sentire d’amore nella quale il corpo, involucro dell’anima, diviene doloroso bersaglio: “Brucia. / E quanto brucia. / Lacrime ingravidano / nel ventre, / raccolte da voli stanchi.” (da: Brandelli)

Si scorge, dunque, nei versi d’amore della Vairano, la stessa impetuosa carnalità che rintracciamo in Marina Cvetaeva: “Vandalo in un’aureola / di vento! Riconosco / l’amore dallo strappo / delle più fedeli corde / vocali: ruggine, crudo sale / nella strettoia della gola.” (da: Scusate l’Amore. Poesie, 1915-1925)

L’amore dunque può essere bruciante: “Squarci invalidi / infettati / da lame arrugginite / Sotto la colonna di carne. / Sola. / Già trita.” (da: Brandelli) Ma, qui, gli strati di senso sembrano sovrapporsi, anzi, il significato letterale sembra scalzare quello metaforico poiché abbiamo l’impressione che l’autrice rappresenti il parto nel suo doloroso divenire: “Passione necessaria / che non vuole finire.” (da: brandelli)

     È un viaggio, l’amore, nel quale l’autrice perde sé stessa per divenire nell’altro: “Costruiamo corpo tuo e corpo mio. […] Fa’ che mi perda / come la partenza senza il viaggio. / Sei l’iscrizione marchiata / nel mio osso. (da: Fly high). Ma l’amore è anche contraddizione, moltitudine di pensieri ed emozioni: “La mia porta sarà la tua / fortezza alloggiata. / Non mi perdo, amore. / Alberi d’aranci intorno. (da: Alberi d’aranci) Sembra essere centrata sulla distanza, questa nota poetica, nella quale l’autrice, lontana dalle facce sfogliate velocemente, sperimenta il vuoto di giorni inutili in assenza dell’amato: “Non voglio il mondo di facce. / Misura colma. / Sbandati giorni / che non uso. / Appendo il solco. / Mastico vita e mangio amore.” (da: Alberi d’aranci)

Percorrendo le vie di quest’amore, ci imbattiamo in una lirica che è un’impetrazione, accorata supplica nella quale l’autrice chiede che si spengano le luci, si chiudano i rossi sipari, si ammainino le vele perché ella possa sentire il proprio dolore nel profondo di sé: “Ed ora per favore / per favore vi chiedo / spegnete le luci / serrate sicure le chiavi / nelle serrature. / Chiudete i sipari /dal pesante velluto di porpora.” (da: Preghiera). Risuonano, qui, lontani echi di un altro intenso dolore perché, nel cielo ultimo della Poesia, i versi possono stringersi contaminandosi: “Stop all the clocks, cut off the telephone, / Prevent the dog from barking with a juicy bone, / Silence the pianos and with muffled drum / Bring out the coffin, let the mourners come.” (W. H. Auden, Funeral Blues, 1938)2

L’amore è anche e soprattutto coraggio ed ecco che l’autrice invoca l’amato affinché la spinga fuori dalla sua tana: “Stanami dal sedimento. / Stanami dall’inerzia / Prendi l’acqua che sazia l’argine e il desiderio / brucia la tana che corre l’ombra al contrario”. (da: Sole obliquo) Solo l’amore, dunque, può risvegliarci dal lungo sonno, trarci dalle nostre nicchie interiori, dalle caverne buie nelle quali scorgiamo soltanto un barbaglio, una tremula ombra, non la piena luce. “I slept, say: a snake / Masked among black rocks as a black rock / In the white hiatus of winter – “(da: Love Letter, 1962)3

È questo il sonno di Sylvia Plath dal quale ella riesce a risvegliarsi grazie all’amore. Per la Vairano, invece, è l’inerzia, la stanchezza, l’ignavia, l’altra faccia dell’amore; così, illuminato il volto, l’autrice scrive: “E m’investe l’amore. / Ed io ubriaca / m’involgo / nella città prima. / Scalza d’amore, / sulla via dell’amore.” (da: Inside)

Come pagliuzza d’oro è, l’amore, e noi, cercatori di Jamestown, lo inseguiamo quasi disperatamente. Per questo, quando, per incanto, lo stringiamo tra le mani, anche solo per un attimo, non sappiamo più dimenticarlo. È questo il senso, la pagliuzza dorata che rinveniamo sul greto di “La ballata della poesia”: “Non credi / devi / tocchi e senti / ad antiche promesse / di non essere / pensiero e memoria. / Il tempo ti ha tradito / e la poesia ha perso”. Promettiamo, ci imponiamo di non ricordare quell’amore ormai finito ma, il tempo ci tradisce, sgambetta, rovesciando in terra il sacchetto dei ricordi.

Tra memoria e oblio, rabbia e gioia, nella grande periferia della città eterna, scorgiamo una bambinetta vestita di rosa, ha scarpe di pezza e bocca ancora sporca di latte.  È incerta sulle fragili caviglie ed inciampa in un foglio di giornale: è la lirica “Mani” che s’incammina, lenta, sulla via della tenerezza e del sogno: “M’importa del sogno. / Stordisci la mia sentenza / e la mia virtù / E facciamo questa scena: / tu abbracciami delicato.”

Sole obliquo

(di Antonella Vairano da: 29 note – Poesie, 2018)

Stanami amor mio

Stanami dal sedimento

Stanami dall’inerzia.

Prendi l’acqua che sazia l’argine e il desiderio

Brucia la tana che corre l’ombra al contrario.

Sei meraviglia

E danza semplice

E anche eco

E affanno forte.

Sei dimora

E confine notturno.

Moriamo dentro….

In questo sole obliquo

Di città e distanze.

Periferia urbana, Torino

Slanting Sun

(traduzione in inglese di Giulia Sonnante)

Drive me out my love

Drive me out of sediment

Drive me out of idleness

Take water that satisfies banks and desire.

Burn the den that edges shadows inside out  

You are a marvel

and mere dance.

Also an echo

and deep concern as well.

You are a dwelling place

and a night boundary.

We die deep inside….

Under this slanting sun

of cities and distance.

Giulia Sonnante

Antonella Vairano

  1. All’amore di Geltrude e Alice è ispirata la poesia di Antonella Vairano “Lettera di Stein”, disponibile per l’ascolto sul canale Youtube dell’autrice.
  2. [Fermate tutti gli orologi, isolate il telefono, / Fate tacere il cane con un osso succulento, chiudete i pianoforti e con un rullio smorzato / portate fuori il feretro, lasciate che giungano i dolenti] traduzione di Giulia Sonnante
  3. [Diciamo che ho dormito, un serpente/ Mascherato da sasso nero tra i sassi neri / nel bianco iato dell’inverno] traduzione di Anna Ravano.

MAREE di Graziella DE CILLIS, a cuore aperto: nota a margine

I luoghi dell’anima: Ripalta, Bisceglie (BAT) foto di Graziella De Cillis
nella raccolta “Bisceglie ed il Mare”

Una voce tenera e trepida si leva da questo libro

e si avvolge di echi interiori, si snoda d’incanti.

Elio Pecora1

La prima volta che lessi i versi di Graziella era una sera di mura silenti quando ancora lo schermo lampeggiava fitto. Sentii il salmastro della riva, l’aria azzurra accarezzarmi la pelle e subito mi parve chiaro il contrasto delle nostre vite: dentro / fuori, chiuso / aperto. Ma andiamo con ordine.

Maree di Graziella De Cillis, Le Pagine, Roma, 2021

In Maree, opera d’esordio di Graziella De Cillis, la natura è fonte prima d’ispirazione: l’autrice la osserva con sguardo ora nostalgico ora languido ed essa, prontamente, cede alla corrispondenza d’amorosi sensi. “Gli alberi spogli e fragili”, “la selva / rossa d’autunno fresca di pioggia / dolce d’odori2, rispecchiano il sentimento d’amore, anzi sono essi stessi quel sentimento che appieno la investe. Così, sbianca una mattina di settembre all’odore della malinconica vigna:

Profuma l’aria

col vento di settembre

che sa di vigna

e d’estate passata,

di dolci mattine

che sbiancano nel battito di un sogno3

Ma qui, non è soltanto la natura ad essere rappresentata come materna e benevola, oserei dire, “benigna”, inoltrandomi, tremante, in sentieri tutti leopardiani, non c’è soltanto l’amore per la natura che sfuma i contorni del sogno e dell’estasi pura; esiste anche un amore tenero che si cela sotto una coltre di muschio profumato. È Elisa, ovunque, indomita, “assoluta marea”. Ella non impersona o, almeno, non soltanto, il “fanciullino” interiore, quella sensibilità che è nello stupore per le piccole cose, ma “infinita assenza / stretta / in un palpito di cuore.”4

Ma è il mare il fremito più audace. L’autrice brama la vita che intorno ad esso si dispiega nel suo eterno movimento: “la risacca sulla sabbia / Gli schiaffi agli scogli / la pace e la tempesta” (da: Ode al mare) e sono proprio le maree con il loro ciclico innalzarsi ed abbassarsi, a segnare il primo, indomito contrasto, arcaico richiamo alle nostre esistenze nell’alternarsi di albe e tramonti, luci e ombre.

Ripalta “lo scoglio e il mare” amoroso abbraccio : Foto di Graziella De Cillis, contenuta nella raccolta: “Bisceglie ed il mare”

Così avvinti, resistiamo e come la Fenice, riusciamo ad emergere dalle ceneri ancora calde per tornare saldi agli invitti flutti. “Bruciata d’ali /da fiamme risorta / la fenice s’erge /fra tiepide ceneri, / vinta al destino. / Di liberi cosmi / d’azzurro velati /vibra indoma /di policrome falde /sferzata dal vento.” (da: Fenice).

Il contrasto, al centro dell’intera silloge, caratterizza anche la lirica Due anime in cui la Poetessa partecipa della lotta di intime forze che ‘rissano potere’:

Cigno bianco

cigno nero,

lottano l’essere

in egual stagno,

mi perdo in sfide impari per riavermi e vincere5

Ma la dicotomia non è soltanto nell’inquietudine di un’anima divisa o nei moti di marea che “mortalmente stancandoci ci esaltano / e ci umiliano6, ma anche in luoghi agli antipodi. Così, una nebbiosa Milano dove l’autrice trascorre la primissima infanzia, si contrappone ad un più arioso paese di mare che le appartiene nel profondo.

Vissi forgiata

ai navigli viola

strade affollate,

a binari di tram,

fumosi cieli.

(da: Milano d’infanzia)

Si perdono nella memoria, i navigli viola, per scoprire albe rosee, aliti di maestrale e fragorio d’onde nel silenzio.

Fragor d’onda riempie il silenzio,

e di barche l’ombra s’intravede

all’orizzonte.

S’alza il sole

e tutto è fermento,

alte le voci dal porto,

battito di paese che vive,

sorrisi e richiami gioiosi nel giorno già alto7

Sembra proprio di sentire quelle voci dal porto, il fermento in pieno giorno e per un ghiribizzo, una strana piroetta della mente, mi torna alla memoria il paesello di Aci Trezza, il Padron ‘Ntoni con le sue perle di saggezza: “senza pilota, barca non cammina”, il figlio Bastianazzo, Mena che deve sposarsi e la “Provvidenza” cui è affidato il destino dei Malavoglia8 tra bonaccia e burrasca.

Ma risaliamo la corrente della poesia sperando che un verso s’impigli nelle indolenti reti oltre a qualche luccio di mare.

“L’abbraccio materno / del tuo liquido ventre” (da: Ode al mare) avvolge di tepore, la poetessa la quale non sa trarsi dall’incantamento, non riesce a recidere il cordone ombelicale che la lega al mare perché il mare, la mer, è donna, la mère, e porta in grembo la vita.

Sensualissimi i versi della De Cillis, non soltanto nelle immagini d’una natura autentica, ma anche nel rendere una attrazione che trova nel mare il suo unico termine di paragone.

Amo il mare. E amo te.

I tuoi cavalloni

accesi dal maestrale

urtano folli le mie difese,

gli scogli delle mie paure alghe perse sulla spiaggia9

Vibra d’amore la Poetessa e dallo stesso audace virgulto germogliano i versi di Gabriele D’Annunzio ai quali la De Cillis sembra ispirarsi. Così, mentre nella lirica: La pioggia nel pineto10, il poeta cattura il rumore della pioggia attraverso onomatopee che ne ricordano il suono: “ma odo /parole più nuove /che parlano gocciole e foglie / lontane”  e gli amanti diventano creature del bosco, inebriandosi dei suoi profumi: “E immensi / noi siam nello spirito / silvestre, /d’arborea vita viventi; / e il tuo volto ebro / è molle di pioggia / come una foglia, / e le tue chiome / auliscono come / le chiare ginestre, / o creatura terrestre / che hai nome / Ermione.”11 , la De Cillis rapisce i sensi traendo ispirazione dall’ambiente marino:

La calma delle crespe

timide insediano dolci

le grinze della mia sabbia

calda al sole,

poi piano ti ritrai

pago e liquido.

La dolcezza delle tue onde

cullano soavi le mie derive, uniti a toccare i nostri lidi12

Anche la scelta delle parole, nella De Cillis, è accurata. Ella privilegia parole arcaiche di una lingua letteraria che altrimenti andrebbero perdute, parole nelle quali l’oro del tempo ne esalta la bellezza mentre, dolci, scivolano lungo il pendio della poesia.

Non soltanto dannunziana, Graziella De Cillis, perché sulla sponda opposta, si staglia, nitida, la poetessa dei Navigli che, tra cielo e terra, dona versi d’amore di segno alto.

Ho conosciuto in te le meraviglie
meraviglie d’amore sì scoperte
che parevano a me delle conchiglie
ove odoravo il mare e le deserte
spiagge corrive e lì dentro l’amore
mi son persa come alla bufera
sempre tenendo fermo questo cuore
che (ben sapevo) amava una chimera
13

In pochi versi, la Merini cattura il momento dell’innamoramento coinvolgendo i sensi quando ‘odora’ le meraviglie dell’amore racchiuse in una conchiglia, ma dice anche dello stupore per il sentimento nascente tenendo fermo il cuore, proteggendolo cioè dalla illusione. Così, tra D’Annunzio e Merini, la De Cillis,“amorosa Erato / cinta di mirti14, cerca e trova la sua nota fluttuando libera tra due soli.

Opera pittorica di Santiago Carbonell

Tra tenerezza e audacia, fatica e vigore, basse e alte maree, il nostro peschereccio giunge alla meta proprio come la Poesia di Graziella: “l’avido tarlo / che lento penetra / nel legno antico15 , ma anch’io torno alle care mura silenti, sebbene non le abbia mai abbandonate come il tenente Drogo che, sperduto nel deserto, protetto dalle mura della fortezza Bastiani, invano, attende i tartari. “Facendosi forza, Giovanni raddrizza un po’ il busto, si assesta con una mano il colletto dell’uniforme, dà ancora uno sguardo fuori della finestra, una brevissima occhiata, per l’ultima sua porzione di stelle. Poi nel buio, benché nessuno lo veda, sorride.”16

Torre Olivieri al tramonto, foto di Graziella De Cillis nella raccolta Bisceglie ed il mare

Alle silenti mura, faccio ritorno, sì, ma con iridi azzurre mentre la Poetessa scorgerà, di lontano, l’ombra libera di bianchi albatri, facile preda di inetti naviganti: “vastes oiseaux des mers, / Qui suivent, indolents compagnons de voyage, / Le navire glissant sur les gouffres amers.”17

Giulia Sonnante

Graziella De Cillis


1. Il dono di Elio Pecora a “Maree” in sede di stampa.

2. Da: “Il cancello” in Maree, Le pagine, Roma, 2021 p. 31

3. Da “settembre” in Op. cit. p. 36

4. G. De Cillis, da: E c’eri, in op. cit. 38

5. G. De Cillis “Due anime” in op. cit. p. 22

6. M. L. Spaziani, da “Luna d’inverno” in Tutte le poesie – a cura di P. Lagazzi, G. Pontiggia, Collana I Meridiani, Mondadori, 2012.

7. Da: Paese di mare in De Cillis, op. cit. p. 73.

8. Giovanni Verga, I Malavoglia, 1881.

9. Da: Amo il mare in: G. De Cillis, Maree, Le Pagine, Roma 2021. Pg. 49.

10. G. D’Annunzio, La Pioggia nel pineto, 1902 in Alcyone. – Mondadori, 1988 – I

11. G. D’Annunzio, op. cit.

12. G. De Cillis, Amo il mare, in Op. cit. pg. 49

13. Alda Merini, Ho conosciuto in te le meraviglie in Le rime petrose, 1983.

14. G. De Cillis, Al Poeta in Op. cit. p. 80.

Erato, figlia di Zeus e Mnemosine, dea del canto e della poesia amorosa.

15. G. De Cillis, La mia poesia, in op. cit. p. 42

16. Dino Buzzati, Il deserto dei tartari, Mondadori, Milano, 2018 p. 202.

17. L’albatros, in Charles Baudelaire (1821 – 1867), Les Fleurs du Mal, 1857 I Fiori del Male [grandi uccelli dei mari,
indolenti compagni di viaggio delle navi /in lieve corsa sugli abissi amari.] trad. di Giovanni Raboni per l’ed. Mondadori

Dipendenza e consapevolezza di sé

Il Ratto di Proserpina: gruppo scultoreo realizzato da Gian Lorenzo Bernini, 1621-22

Una ponderata puntualizzazione sulle strategie di consapevolezza e di indipendenza del proprio sé suggerite da Wayne W. Dyer nel suo saggio” Le vostre zone erronee”; riflessione dedicata a tutte le persone oggetto di discriminazione di genere e, in particolare, alle vittime di femminicidio e di bullismo.

Inizio il mio dire con una contaminazione artistica che facilmente associo a questo tema: Il ratto di Proserpina di Gian Lorenzo Bernini, dove la morbidezza del marmo contrasta con una forma di violenza, che è figlia della dipendenza dal senso del possesso dell’altro e dall’impossibilità a divincolarsene.

Proserpina era figlia di Cerere. Fu rapita da Plutone, mentre raccoglieva fiori sulle rive del lago Pergusa a Enna e, con la forza, trascinata sulla sua biga negli Inferi. Lì fu posseduta da Plutone, di cui divenne, senza possibilità di scelta, la sposa. Schiavo della sua bramosia, pur se invitato dal padre Giove a liberarla (in seguito al comportamento della di lei mamma Cerere), Plutone costrinse con uno stratagemma Proserpina a sentirsi “legata” a lui e a diventare regina degli Inferi. In questo mito domina il senso di dipendenza di Plutone dal suo sentirsi onnipotente: basta guardare l’espressione beffarda del suo volto, mentre possiede la giovane donna. Ma ciò che più mi colpisce sono le lacrime sul volto di Proserpina: segno dell’impotenza di chi si vede costretto a dipendere da un prepotente dominatore. Dyer ci aiuta ad analizzare queste modalità di vita e ci offre strumenti per affrontare e superare la dipendenza da un amore morboso, violento, assolutista.

Wayne W. Dyer è sociologo e psicoterapeuta assai noto in America. Con “Le vostre zone erronee” offre un’ottima “Guida all’indipendenza dello spirito”, come dichiara egli stesso nel sottotitolo.

Essere felici è una faccenda assai complessa e complicata. Eppure, questo saggio di Dyer delinea un modo gradevole di raggiungere questo stato di grazia.

Partendo da “zone erronee”, da comportamenti o atteggiamenti che nuocciono al benessere individuale, diventando molto spesso autodistruttivi, Dyer studia il sistema di meccanismi psicologici eretti da ciascuno di noi, per sostenere lo “status quo” e , aiutando a capire perché ci lasciamo intrappolare da atti e costruzioni relazionali che distruggono la nostra felicità, suggerisce alcune strategie utili.

Innanzitutto, l’Autore delinea l’essenziale ed indispensabile punto di partenza: la responsabilità verso se stessi e il desiderio consapevole di essere tutto ciò che si decide di essere, in un dato momento. Tutto questo, considerando che la propria vita va esaminata alla luce delle scelte fatte o non fatte e, ci dice a chiare lettere “Tu sei la somma delle tue scelte”.

“Tutta la teoria dell’universo si rivolge immancabilmente a un unico individuo – ossia a te”

Questo agile manuale è un invito a liberarsi dalle dipendenze a cui ciascuno di noi ha legato la propria vita: -il circolo vizioso dell’” io sono fatto così” – il senso di colpa – il passato – la trappola delle ragioni e dei torti – la trasgressione a tutti i costi… e tante altre forme di dipendenza psicologica che ci vincolano anche fisicamente in gabbie sociali di non- crescita.

C’è un film, che ben rappresenta quanto ho appena espresso: L’attimo fuggente, in cui “uno strepitoso Robin Williams interpreta il professor Keating, insegnante brillante e anticonformista, di grande umanità, che in un collegio severo e ossequiosamente tradizionale cerca di insegnare ai ragazzi a ragionare con la loro testa, a non credere negli stereotipi, e a cogliere l’attimo e la profondità di ogni secondo della loro esistenza, perché la vita è breve e ogni momento va vissuto fino alla fine https://www.youtube.com/watch?v=f7ZvROmGrKE

Dichiarare l’indipendenza, vivere il presente, cogliere l’attimo, sentire e sviluppare l’hic et nunc ci permette di assaporare la fiducia in un tempo e in uno spazio che danno spessore ad una persona padrona del proprio sé.

Mi viene facile contaminare il mio dire con un’altra forma d’arte assai profonda ed affine al pensiero del Dyer: la musica, attraverso la canzone di Baglioni: La vita è adesso https://www.youtube.com/watch?v=c780J3LlulI . In essa il cantautore romano ripetutamente ricorda “SEI TU”, quasi a voler gridare l’importanza dell’autodeterminazione, sottesa ad ogni percorso di vita che insegna a crescere.

“Sei tu che hai un vento nuovo tra le braccia (…)

Ed in qualunque sera ti troverai

Non ti buttare via

E non lasciare andare un giorno Per ritrovar te stesso

Perché la vita è adesso È adesso

È adesso”.

Giusy Carminucci

DANNATI CORPI!

ph. Kurt Cobain 

“E sedermi a fumare sulle scale finché il tuo vicino non torna a casa, e sedermi a fumare sulle scale finché tu non torni a casa”. Questa è la “E” frontale di Sarah Kane, drammaturga inglese, in “Crave”, un testo teatrale che va letto d’un fiato, compreso il monologo che ve ne fa parte, una “E” che incalza dentro un tempo asfissiante e compresso di attese, di “azioni” o per meglio dire, ” situazioni desiderate”, lungimiranti di chi non ha tempo e scrive testimone di sé. Ma il “vivere in azioni” in quell’agire che è “reagire” alla vita, resta sconfinato solo e soltanto nell’anima, fino a farsi logoro, esausto, annoiato e sconfitto.

Sedeva sulle scale anche Kurt Cobain, con la stessa “E” che non congiunge e si disperde nell’ animo, oltre i suoi maglioni slabbrati, a farsi trapassare proiettili e inquietudini di bimbo spaurito, a sottrarsi la mente sconfinata, la sua intelligenza emotiva, fino a punirla con un colpo di canna di fucile alla tempia. Lo sento sbattere come corrente forte che chiude l’uscio all’istante dietro le sue spalle, perché in un istante di Sarah e di Kurt è già stato detto tutto, in maniera violenta e sincera. Ascolto cantare Cobain nella sua” All apologies” con un sottile filo di voce come un lamento febbrile “Cos’altro potrei essere

Tutte le scuse

Cos’altro potrei dire

Ognuno è gay

Cos’altro potrei scrivere

Non ne ho il diritto

Cos’altro potrei essere

Tutte le scuse”

E Sarah? Sarah che non ha pace di un amore che le scoppia nell’anima, nelle tempie, che non giunge tra le sue braccia e così fino alla disperata ricerca di se stessa, sola nel corpo e smarrita, ella stessa scriverà, ” Mi mastico questa lingua con cui non posso mai parlarle. Sento la mancanza di una donna che non è mai nata. Sono anni che bacio una donna che mi dice non ci incontreremo mai. 

Tutto passa

Tutto muore

Tutto viene a noia […]

Ci sono tante “azioni desiderate”, tanti tempi da voler riempire, a passi, a gesti mancati verso un amore, l’amore verso se stessa e gli altri; per fare questo ci vuole un corpo sano, ma quello di Sarah resta circo\scritto come un piccolo feto, che non riesce a prendere forma e a veder la Luce. 

” Se potessi liberarmi di te senza doverti perdere” ancora scriverà in Crave e poi riprendendo dal suo monologo di A” […] e tenerti la mano e andare a cena fuori e non farci caso se mangi dal mio piatto e incontrarti da Rudy e parlare della giornata e battere a macchina le tue lettere e portare le tue scatole

[… ] svegliarmi per portarti caffè brioches e ciambella e andare da Florent e bere caffè a mezzanotte […] e portarti girasoli e andare alla tua festa e ballare fino a diventare nero e essere mortificato quando sbaglio e felice quando mi perdoni e guardare le tue foto e desiderare di averti sempre conosciuta e sentire la tua voce nell’orecchio e sentire la tua pelle sulla mia pelle e spaventarmi quando sei arrabbiata e hai un occhio che è diventato rosso e l’altro blu e i capelli tutti a sinistra e la faccia orientale e dirti che sei splendida e abbracciarti se sei angosciata e stringerti se stai male e aver voglia di te se sento il tuo odore e darti fastidio quando ti tocco e lamentarmi quando sono con te e lamentarmi quando non sono con te […]”.

Mi sovviene una risposta di Patrizia Cavalli a un giornalista che le domandava se l’anima fosse importante, e la Cavalli distrutta dal dolore “fisico” che la limitava da tempo rispose senza esitazione che per lei il corpo era più importante dell’anima, perché è con il corpo che si fanno esperienze, mica con l’anima, ribatteva categorica, anche ella scrive nei suoi versi, 

” È tutto così semplice,

sì, era così semplice,

è tale l’evidenza

che quasi non ci credo.

A questo serve il corpo:

mi tocchi o non mi tocchi,

mi abbracci o mi allontani.

Il resto è per i pazzi.”

Le anime pure sono ferite nel corpo, sono il movimento del pendolo appeso alla parete,  incessante, inquieto, ossessivo, sconvolto dall’abitudine del loro “cuore pensante” come amò definirsi la scrittrice Etty Hillesum deportata ad Auschwitz. 

Avrebbero desiderato un’anima leggera fatto di un gesto quotidiano definito, contro un’anima infinita. Un bacio, uno schiaffo, una carezza, un pensiero comune, tutto in un piccolo palmo del loro essere, chiara superficie del solo intelletto. 

Cobain e Sarah punirono i loro corpi inetti a stare nel mondo per sempre, convinti che la loro anima potesse finalmente vedere la Luce e finire. La leggerezza del vivere puro che fa dell’anima un tempo fermo come una pozza d’acqua dopo un’incessante pioggia a purificare i pensieri e a sconcertare il cuore. Nel testo teatrale di Sarah dal titolo “Purificati” per l’appunto scriverà,

“E se non sento male, è tutto inutile. Pensare di alzarsi è inutile.

Pensare di mangiare è inutile.

Pensare di vestirsi è inutile.

Pensare di parlare è inutile.

Anche pensare di morire è inutile cazzo completamente inutile.”

Buon Corpo Sano a tutti!

Gloria Sannino

“E se non puoi la vita che desideri”

Autoritratto n. 2 di Davide Disca

“E se non puoi la vita che desideri

cerca almeno questo

per quanto sta in te: non sciuparla

nel troppo commercio con la gente

con troppe parole in un viavai frenetico.

Non sciuparla portandola in giro

in balìa del quotidiano

gioco balordo degli incontri

e degli inviti,

fino a farne una stucchevole estranea.”

Una poesia che amo già dai miei 12 anni…è stato il mio manifesto di vita, durante la scoperta dell’evoluzione della consapevolezza del mio essere, nella complessità dell’esistere.

Di questa lirica di Kostantinos Kavafis, poeta greco del secolo scorso, ciò che mi ha, sempre, colpita è l’autorevolezza comunicativa con cui si impone, pur mantenendo sempre un tono pacato. Kavafis resta impresso con il suo dire, in quanto propone una scelta determinante per la propria vita: “per quanto sta in te, non sciuparla”. È, questo, un insegnamento fondamentale per tutti: trattare con delicatezza e attenzione la nostra esistenza, avendone cura. Il verbo “sciupare” e non “sprecare” segna il confine tra il considerare la vita un oggetto mercificabile e il valorizzarla, invece, quale caratteristica determinante di noi stessi: delicata come la pelle di un neonato, come i petali di una pansé, come uno sguardo d’amore, una precisa sfumatura dell’esserci da trattare con estrema delicatezza, per non sgualcirla, ma- soprattutto- per non perderne l’essenza.

E se non puoi la vita che desideri
cerca almeno questo per quanto sta in te:
non sciuparla nel troppo commercio con la gente
con troppe parole e in un viavai frenetico.
Non sciuparla portandola in giro
in balìa del quotidiano gioco balordo
degli incontri e degli inviti
fino a farne una stucchevole estranea.

Quello che, ovviamente, si oppone a questo imperativo è la cieca inerzia, la vuota inconcludenza che svilisce le nostre giornate, quando siamo avvezzi a lasciarle scorrere inutilmente in balia del “troppo commercio con la gente”, dove le “troppe parole”, e il “viavai frenetico” del nostro incedere, costruiscono il nostro mondo fatto di individui e di cose. Tutto, mentre il ruolo che si esprime nel “quotidiano gioco balordo/ degli incontri e degli inviti” ci trova, in realtà soli o isolati in un tempo e in uno spazio che, spesso, non ci appartengono o non sentiamo nostri. A tutto questo si aggiunge l’”assenza” di relazioni “in presenza”, di pensieri rigorosi ed esigenti, di interessi che vadano al di là dell’ovvio, del superficiale, dell’effimero mentre noi, dimentichi di noi stessi, ci ritroviamo, imbarcazioni solitarie, a navigare a vista in una mediocrità, spesso anche inconsapevole- se non pericolosa- che investe la nostra sfera sociale.

Leggevo da qualche parte che le parole di Kavafis ricordano quelle, immortali, di Seneca a Lucilio Iuniore, poeta e scrittore, governatore, all’epoca, della provincia romana di Sicilia: «Puoi indicarmi qualcuno che dia un giusto valore al suo tempo e alla sua giornata, che capisca di morire ogni giorno? Ecco il nostro errore: vediamo la morte davanti a noi e invece gran parte di essa è già alle nostre spalle. (…) Dunque, Lucilio caro, metti a frutto ogni minuto; sarai meno schiavo del futuro, se ti impadronirai del presente. Tra un rinvio e l’altro la vita se ne va. Niente ci appartiene, Lucilio, solo il tempo è nostro. E il monito dello stesso Seneca nel “De brevitate vitae”: «Nessuno ti restituirà i tuoi anni, nessuno ti restituirà te stesso».

Secondo Kavafis tutto questo vale anche “se non puoi la vita che desideri”. Quello che spesso consideriamo un limite o un vincolo per la nostra realizzazione:  le nostre origini, le ristrettezze economiche o culturali dell’ambiente in cui viviamo, il sentirci una risorsa o una nullità per il mondo in cui siamo, le scelte di studio che ci migliorano o che ci vincolano, i docenti più o meno capaci che hanno segnato il nostro percorso formativo, gli amici ,gli amori,  le perdite di persone care che possono colpire il nostro cuore… nulla di tutto ciò è un alibi per sprecare il tempo che ci è dato di utilizzare su questa Terra. Sopravvivere nella banalità e nel conformismo, anziché vivere con pienezza, dando spazio anche al silenzio, alla riflessione, a una solitudine che non è privazione, bensì abbondanza di significati; vivere alla continua e creativa ricerca di sé, indica con precisione la rotta di un’imbarcazione alla deriva, nel mare magnum del precario. Quindi, cosa ci suggerisce il Poeta? Ci dice: «Per quanto sta in te». Cosa significa? Proviamo a soffermarci a riflettere su questo inciso, che echeggia di consapevolezza ed è carico di senso di responsabilità personale. La sintassi della lingua italiana ci suggerisce essere una subordinata limitativa, ossia un tipo di proposizione che serve a limitare la validità di quanto viene affermato nella frase principale. In questo caso, a mio avviso, il verbo “Limitare” assume il significato di ampliare, definendoli- questo sì- gli estremi confini delle nostre azioni, del nostro pensiero, della nostra stessa ragion d’essere, fino a toccarne il limite con la volontà. In poche parole, Kavafis ci incita ad impegnarci a fare tutto ciò che è in nostro potere, perché la vita non cada nella mediocrità, spesso piatta e senza senso, e non diventi per noi, solamente, una «stucchevole estranea».

L’editore Donzelli ha dichiarato: “La pubblicazione in italiano di tutte le poesie di Kavafis ci restituisce l’immagine completa della sua opera, importante per capire la storia e l’evoluzione della sua poesia e per rintracciare in essa l’origine di modi e tematiche delle poesie maggiori. I testi più antichi e meno conosciuti dai suoi lettori costituiscono infatti la riserva di ispirazione cui lui tornerà negli anni maturi. La lettura di tutta la sua opera poetica ci permette di entrare nel suo laboratorio poetico, mettendo in luce il lavoro ossessivo su ogni testo, rielaborato per anni, se non per decenni, ma soprattutto dando un quadro ricchissimo della sua poesia e delle tematiche che l’attraversano”.

L’opera completa è stata pubblicata in Italia da Donzelli, a cura di Paola Maria Minucci, con testo greco a fronte, in un libro che s’intitola «Tutte le poesie». È lo stesso poeta a riconoscere a questi testi, apparentemente secondari, una grande importanza, affermando che, ciò che ha voluto serbare nel suo cuore e non cedere all’uso della scrittura, è stato il nucleo più vero e più profondo della sua ispirazione: “Molte le poesie scritte / nel mio cuore; e quei canti / sepolti sono a me molto cari”.

Facciamo nostro monito:

“E se non puoi la vita che desideri
cerca almeno questo per quanto sta in te:
non sciuparla”.

Giusy Carminucci

Sull’incomunicabilità

(un film, un quadro, un libro)

Hopper, Excursion into Philosophy 1959

“Le parole anche se scritte fanno bene…

una donna le aspetta, le aspetta sempre”

Dal dialogo tra Carmen (Ines Sastre) e Silvano (Kim Rossi Stuart)

Nel corto “Cronaca di un amore mai esistito” nel film “Al di là delle nuvole” di Michelangelo Antonioni 

Sembrerebbe un ossimoro parlare di incomunicabilità nell’era della comunicazione eppure ne siamo profondamente pervasi, più di quanto pensiamo.

Proprio come Carmen e Silvano, che si scoprono potenziali amanti ma incapaci di trasformare questo potenziale in realtà (lei parla, lui parla ma nessuno dei due sa ascoltare o rispondere all’altro), siamo anime erranti in un mondo che non ci comprende, incapaci di comunicare e di accogliere comunicazione.

E non è certo aumentando il flusso di informazioni (smartphone, social network, internet, mass media) che la parola altrui riuscirà a fecondarci.

Mediando dalla fisica siamo corpi colpiti da radiazione con un coefficiente di riflessione nettamente maggiore rispetto a quello di assorbimento.

Vorremmo comunicare il nostro trasporto per un film, per un libro, per un gruppo musicale. Vorremmo che il nostro partner ci capisse veramente, fino in fondo. E invece di trovare condivisione troviamo un atteggiamento speculare al nostro. E così ognuno ha il suo libro, il suo brano musicale, rimane custode del proprio mondo, perso in una dimensione hopperiana, solo eppure in mezzo a tanti, ospite estraneo ad una festa. Fulminante è il caso di Justine, sposa capace di sentirsi estranea al suo matrimonio, nel discusso film Melancholia di Lars Von Trier.

Hopper, Excursion into Philosophy 1959

Potrebbe essere considerata la radice dell’eterna insoddisfazione che da sempre muove l’uomo, l’incomunicabilità, di sicuro è causa o concausa del mistero della vita e l’arte, tutta, se n’è accorta da tempo costruendosi proprio sulla consapevolezza di non poter essere significante assoluto, lasciandosi volutamente indefinita fino ad essere, in taluni casi, caleidoscopio imprevedibile anche per l’autore stesso.

Gli esempi sono copiosi e risulterebbero troppo ingombranti per lo spazio di questa riflessione. Mi limito a citare per maggiore vicinanza culturale Van Gogh, Kirchner, Magritte, Hopper nella pittura, Antonioni con la trilogia dell’incomunicabilità (L’avventura, La notte, L’eclissi), tutta la produzione del compianto regista sud coreano Kim ki Duk, Lars von Trier, Steve Mcqueen nel controverso Shame nella cinematografia, Pirandello e Paul Bowles nella letteratura.

Proprio quest’ultimo nel romanzo cult The Sheltering Sky meglio noto in Italia con il titolo Il tè nel deserto cerca di dipanare la matassa dell’incomunicabilità attraverso la storia di una crisi di coppia, quella tra Port e Kit. I due coniugi, ormai estranei, partono verso l’Africa più ostile con la speranza di ritrovarsi. È un tentativo disperato di diluire la loro estraneità in una più grande come quella che può imporre l’Africa più arcaica a due americani a ridosso del secondo dopoguerra.

In realtà chi spera è solo Kit, Port è invece consapevole dell’irreversibilità del problema infatti appena sbarcati afferma

“Noi non siamo turisti, siamo viaggiatori…

Il turista è uno che appena arriva pensa di tornare a casa…

mentre il viaggiatore può non tornare affatto.”

Morirà di febbre tifoidea tra le braccia della moglie.

Tuttavia il ritrovarsi estranei tra gli estranei dà modo ai due di assaporare, sia pure a sprazzi, momenti di rara intensità amorosa ormai perduta. I due, durante una passeggiata in bici in un paesaggio lunare, fanno l’amore in mezzo al nulla con la stessa intensità di due adolescenti. Come a dire che prendendo consapevolezza della propria condizione e operando una sorta di tabula rasa del rapporto, paradossalmente, si ha una nuova opportunità, per ricominciare, per innamorarsi di nuovo. Ma è solo un’illusione

“Non siamo mai riusciti a immergerci nella vita fino in fondo. Ci teniamo aggrappati all’esterno delle cose… come se avessimo paura di cadere.”

Dialogo tra Port e Kit

Ed è proprio questo il nocciolo d’inerzia della questione, rimaniamo capitani di barche in mezzo al mare, ognuno con la propria rotta, inconsapevoli della bellezza che si nasconde nei fondali e quand’anche abbiamo lo slancio di andare a vedere cosa si nasconde tra le acque l’unica cosa che ci è concesso di vedere è il riflesso distorto del nostro volto.

E questo, in fondo, considerata la finitezza delle nostre vite, è un vero peccato o se vogliamo è solo una parte del grande mistero della vita 

“Poiché non sappiamo quando moriremo, si è portati a credere che la vita sia un pozzo inesauribile; però tutto accade solo un certo numero di volte, un numero minimo di volte. Quante volte vi ricorderete di un certo pomeriggio della vostra infanzia, un pomeriggio che è così profondamente parte di voi che senza neanche riuscireste a concepire la vostra vita – forse altre quattro o cinque volte, forse nemmeno. Quante altre volte guarderete levarsi la luna – forse venti – eppure tutto sembra senza limite.”

Paul Bowles nel romanzo The Sheltering Sky

Trento Vacca