L’importanza del sì

La scultura di Dubian Monsalve, intitolata “Montagna Incinta”, offre una prima forma di contaminazione artistica a queste mie semplici riflessioni sul senso dell’essere donna obbediente e capace di accogliere la vita.

La “Montagna Incinta” è una mastodontica, ma meravigliosa scultura che si trova in un luogo, di recente molto frequentato dai turisti che visitano: la Colombia.

Dubian Monsalve ha voluto esprimere il suo “grazie alla vita”, perché la vita è preziosa in ogni suo attimo: dal suo concepimento alla sua fine. Studente della scuola d’arte della facoltà di Architettura della Università Nazionale di Colombia, Dubian ha realizzato l’opera in 15 giorni: armato di badili, vanghe, coltelli e scalpelli, ha “impresso” il suo concetto di diritto alla vita nella roccia, ben visibile lungo la strada che collega Medellin a Santo Domingo Savio, in Colombia. Monsalve ha completato il suo lavoro nel 2012, ma solo di recente qualcuno l’ha fotografato e postato, rendendo la scultura famosa. Secondo Teleantioquia Noticias, detta immagine ha ottenuto più di due milioni di “mi piace” su Facebook.

Ci sarà un perché…

Così come ci sarà un perché se il diario di Oriana Fallaci, a distanza di 43 anni continua ad essere ristampato e letto da milioni di persone.

Oriana Fallaci, Lettera ad un bambino mai nato, 1975

Come sempre accade con un’opera riuscita, ciascuno ne dà un’interpretazione diversa. Per “Lettera a un bambino mai nato”, di Oriana Fallaci, sembra che il suo significato venga inserito nella polemica sull’aborto, che, negli anni in cui fu scritto il libro, era argomento di forte dibattito. In realtà, quelle sorte intorno a “Lettera a un bambino mai nato” sono tutte polemiche prive di senso, alla luce di quello che è il problema reale insoluto e universale a cui esso si collega: l’accettazione della maternità fatta di bellezza, di crudeltà e di poesia.

“Lettera a un bambino mai nato “è il tragico monologo di una donna che aspetta un figlio e che guarda alla maternità non come a un dovere, come purtroppo era idea comune di un retaggio maschilista e falsamente cattolico di quegli anni, bensì come a una scelta personale e responsabile. La donna, protagonista del libro della Fallaci, ha come unico riferimento la propria indipendenza. È una persona di cui non si conosce né il nome né il volto né l’età né l’indirizzo. L’unica indicazione che ci viene data per immaginarla e che è una donna del nostro tempo: sola e autonoma, una donna che lavora, indipendente economicamente e psicologicamente e che per questo si autodetermina. È una donna artefice delle proprie scelte di vita e del proprio destino. Tutto il cambiamento per lei inizia nell’attimo in cui avverte di essere incinta, condizione che la induce a porsi un duplice interrogativo angoscioso: basta volere un figlio per costringerlo alla vita? A lui piacerà nascere?

Mi affascina fare la recensione di questo libro in questo periodo, in cui si parla di una nascita importantissima che è “LA” scelta per antonomasia: la scelta di una ragazzina, un’adolescente vissuta 2000 anni fa, che ha dovuto accettare una serie di vicissitudini per aver detto un sì… e che sì! Ogni volta che una donna accetta la maternità dice il suo sì ad una nuova vita.  Se Maria di Nazareth, anziché dire “Eccomi” avesse risposto all’Arcangelo” Non sono pronta “… Cosa sarebbe accaduto? Voglio contaminare il testo della Fallaci ragionando con voi, attraverso le parole che don Tonino Bello usa nel suo “Maria, Donna del terzo giorno”: “L’obbedienza non è inghiottire un sopruso, ma è fare un’esperienza di libertà. (…) Chi obbedisce non smette di volere, ma si identifica a tal punto con la persona a cui vuole bene, che fa combaciare, con la sua, la propria volontà. (…) Obbedire, infatti, deriva dal latino “ob-audire”. Che significa: ascoltare stando di fronte (…) Questa splendida creatura non si è lasciata espropriare della sua libertà neppure dal Creatore. Ma, dicendo “sì”, si è abbandonata a lui liberamente ed è entrata nell’orbita della storia della salvezza.”

Ogni volta che una donna accetta una maternità, va incontro ad una realtà inaspettata, ad una compenetrazione di una vita nella propria vita, di un’altra carne nella propria carne e per un periodo, fatto di nove mesi, le due carni e i due flussi di sangue sono uno dell’altro e non è possibile che vengano scissi: questa è la maternità. Questo è il mistero della maternità incarnata.  Vi è poi il mistero della maternità scelta, in cui la gestazione esterna al corpo della donna, ma interna al suo cuore e alla sua mente, sviluppa nel pensiero e nelle scelte di vita ugualmente alla nascita in grembo nel proprio grembo. Perciò, penso alle tante donne che scelgono di diventare madri, adottando o prendendo in affido un ragazzino una ragazzina un bambino una bambina che hanno avuto un tratto della loro vita legato ad un altro corpo femminile. Quelle donne con forza e con coraggio scelgono ugualmente di accettare la condizione di maternità. Il dramma che vive la Fallaci è tutto in questo dilemma: è giusto sacrificare una vita già fatta a una vita che ancora non è? È giusto sacrificare la propria realizzazione personale per qualcuno che ancora non c’è? È certo un interrogativo legato proprio alla coscienza e va aldilà dei rapporti impossibili ed è basato su un’altalena di tenerezze e di incertezze e di amori e di odi, di accettazione matura o semplicemente egoistica di una maternità da cui, in realtà, si sente privata o derubata.

Quella della madre protagonista del libro è la storia di una donna costretta a separarsi dal proprio figlio “in nuce”, per non “morire alla vita” per “colpa sua”.

L’aborto (dal latino abortus, derivato di aboriri, «perire», composto di ab, «via da», e oriri, «nascere») è l’interruzione della gravidanza prima della ventesima o ventiduesima settimana, cioè nel periodo in cui il feto non è capace di vita extrauterina.

Ogni volta che ciascuno di noi non è in grado di obbedire ad una chiamata o di, semplicemente, assecondare una “vocazione”, in quel preciso istante pratica l’aborto di una parte di sé a vantaggio di un non essere o di un essere privo del coraggio di esistere.

Eccomi! Ci sono! Sono io e sono qui, pronto a sperimentarmi alla vita, perché sento che mi appartiene! Quando saremo in grado di rispondere così a noi stessi, scalfendo la durezza di una “montagna” di pregiudizi che non ci rendono liberi, allora e solo allora saremo in grado di dare vita alle nostre emozioni, ai nostri sentimenti, ai nostri pensieri.

Giusy Carminucci

Oriana Fallaci, Firenze, 1929 – Firenze, 2006

Dipendenza e consapevolezza di sé

Il Ratto di Proserpina: gruppo scultoreo realizzato da Gian Lorenzo Bernini, 1621-22

Una ponderata puntualizzazione sulle strategie di consapevolezza e di indipendenza del proprio sé suggerite da Wayne W. Dyer nel suo saggio” Le vostre zone erronee”; riflessione dedicata a tutte le persone oggetto di discriminazione di genere e, in particolare, alle vittime di femminicidio e di bullismo.

Inizio il mio dire con una contaminazione artistica che facilmente associo a questo tema: Il ratto di Proserpina di Gian Lorenzo Bernini, dove la morbidezza del marmo contrasta con una forma di violenza, che è figlia della dipendenza dal senso del possesso dell’altro e dall’impossibilità a divincolarsene.

Proserpina era figlia di Cerere. Fu rapita da Plutone, mentre raccoglieva fiori sulle rive del lago Pergusa a Enna e, con la forza, trascinata sulla sua biga negli Inferi. Lì fu posseduta da Plutone, di cui divenne, senza possibilità di scelta, la sposa. Schiavo della sua bramosia, pur se invitato dal padre Giove a liberarla (in seguito al comportamento della di lei mamma Cerere), Plutone costrinse con uno stratagemma Proserpina a sentirsi “legata” a lui e a diventare regina degli Inferi. In questo mito domina il senso di dipendenza di Plutone dal suo sentirsi onnipotente: basta guardare l’espressione beffarda del suo volto, mentre possiede la giovane donna. Ma ciò che più mi colpisce sono le lacrime sul volto di Proserpina: segno dell’impotenza di chi si vede costretto a dipendere da un prepotente dominatore. Dyer ci aiuta ad analizzare queste modalità di vita e ci offre strumenti per affrontare e superare la dipendenza da un amore morboso, violento, assolutista.

Wayne W. Dyer è sociologo e psicoterapeuta assai noto in America. Con “Le vostre zone erronee” offre un’ottima “Guida all’indipendenza dello spirito”, come dichiara egli stesso nel sottotitolo.

Essere felici è una faccenda assai complessa e complicata. Eppure, questo saggio di Dyer delinea un modo gradevole di raggiungere questo stato di grazia.

Partendo da “zone erronee”, da comportamenti o atteggiamenti che nuocciono al benessere individuale, diventando molto spesso autodistruttivi, Dyer studia il sistema di meccanismi psicologici eretti da ciascuno di noi, per sostenere lo “status quo” e , aiutando a capire perché ci lasciamo intrappolare da atti e costruzioni relazionali che distruggono la nostra felicità, suggerisce alcune strategie utili.

Innanzitutto, l’Autore delinea l’essenziale ed indispensabile punto di partenza: la responsabilità verso se stessi e il desiderio consapevole di essere tutto ciò che si decide di essere, in un dato momento. Tutto questo, considerando che la propria vita va esaminata alla luce delle scelte fatte o non fatte e, ci dice a chiare lettere “Tu sei la somma delle tue scelte”.

“Tutta la teoria dell’universo si rivolge immancabilmente a un unico individuo – ossia a te”

Questo agile manuale è un invito a liberarsi dalle dipendenze a cui ciascuno di noi ha legato la propria vita: -il circolo vizioso dell’” io sono fatto così” – il senso di colpa – il passato – la trappola delle ragioni e dei torti – la trasgressione a tutti i costi… e tante altre forme di dipendenza psicologica che ci vincolano anche fisicamente in gabbie sociali di non- crescita.

C’è un film, che ben rappresenta quanto ho appena espresso: L’attimo fuggente, in cui “uno strepitoso Robin Williams interpreta il professor Keating, insegnante brillante e anticonformista, di grande umanità, che in un collegio severo e ossequiosamente tradizionale cerca di insegnare ai ragazzi a ragionare con la loro testa, a non credere negli stereotipi, e a cogliere l’attimo e la profondità di ogni secondo della loro esistenza, perché la vita è breve e ogni momento va vissuto fino alla fine https://www.youtube.com/watch?v=f7ZvROmGrKE

Dichiarare l’indipendenza, vivere il presente, cogliere l’attimo, sentire e sviluppare l’hic et nunc ci permette di assaporare la fiducia in un tempo e in uno spazio che danno spessore ad una persona padrona del proprio sé.

Mi viene facile contaminare il mio dire con un’altra forma d’arte assai profonda ed affine al pensiero del Dyer: la musica, attraverso la canzone di Baglioni: La vita è adesso https://www.youtube.com/watch?v=c780J3LlulI . In essa il cantautore romano ripetutamente ricorda “SEI TU”, quasi a voler gridare l’importanza dell’autodeterminazione, sottesa ad ogni percorso di vita che insegna a crescere.

“Sei tu che hai un vento nuovo tra le braccia (…)

Ed in qualunque sera ti troverai

Non ti buttare via

E non lasciare andare un giorno Per ritrovar te stesso

Perché la vita è adesso È adesso

È adesso”.

Giusy Carminucci