POETI CONTEMPORANEI Anna Maria Scopa

M’alleno alla malinconia
Al disordine degli occhi
Per poi sapermi salva
farmi un riparo nell’acqua
o nell’equilibrio del cielo
cercarmi amore
in una ninnananna
dove la strada s’appoggia
a questa pioggia
e addormentarmi
coltivando il mare
Vorrei farmi un riparo
in questo teatro di foglie e
fare finta di quando si muore
Uccidere le parole prima
che diventino baccelli da sgranare.

INEDITI 2019

Quando sei andato via
ho seminato ovunque fiori

nei vasi sul balcone
e ho mangiato poesia
tutti i giorni
Per il mio sangue di lupa
ho barattato parole
C’è una stanza
vuota da affittare e
il mio cuore non ha perso peso.

INEDITI 2019

Ti porto nelle tasche
e ti stringo
Ho gli scontrini sbrindellati di ieri e le
Peonie
Due bottoni, foglie secche
Nessuno che insegni la differenziata
&
Il cuore

&
i suoi spazi sottovuoto

INEDITI 2019


Annamaria Scopa nasce a Vasto (CH) In Abruzzo e risiede a Roma.

Dopo gli studi superiori si iscrive in conservatorio a Pescara dove studia canto lirico. L’amore per il canto, la musica e l’arte in genere fanno parte del suo modo di sentire. Ha partecipato a Reading, Poetry Slam   ha un profilo fb dove scrive sotto il nome di Annawrite Annamaria Major.

È presente in diverse antologie, le ultime “Nel corpo della voce” edito da Contro luna edizioni,“Una furtiva lacrima” Poeti al tempo del dolore, curato da Vincenzo Guarracino, edito dalla casa editrice Di Felice edizioni; “Parma” Poesia edizioni Bertoni Editore. “Tra parole e immagini” a cura di Giorgio Moio. Ha collaborato e collabora con diverse riviste: “Nova” Rivista d’arte e scienza di Antonio Limoncelli;“ 22 pensieri-Vingt-Deux Pensées rivista on line.

Pubblica nel 2017 la sua prima silloge “Dove nevicano le viole” edito da Letteratura alternativa edizioni, attualmente lavora come Education trainer per   Wella Company.

POETI CONTEMPORANEI Silvana Cojocăraşu

La tristezza del vincitore

Chiedimi se sono felice.

Salvami. Deciframi o divorami.

Il colibrì spicchia il volo

come se fosse un’arancia

dolce, strepitosa,

che si guarda allo specchio

e vede il cigno nero.

Si vive, si odia, si mente

a proposito di niente,

si fa l’esercizio del desiderio

chiusi dentro corpi speciali,

in racconti erotici per ragazzi.

Nel paese del lupo bianco

si passeggia tranquillamente.

L’occhio coperto

apre spirali di luce

sul cielo di mezzanotte.

Tra gli alberi

delle foreste di cemento grigio

si prova a ritrovare

la natura umana

l’essere profondo

si leggono i cervelli

si gioca a carte con i pensieri

in senso orario.

Riconoscere come l’ombra nera

che ci segue infinitamente

secondo l’ora solare.

Illuminate! – grida il Maestro – , fate vedere

al popolo il volto nascosto della Luna!

Tristeţea învingătorului

Întreabă-mă dacă sunt fericită.

Salvează-mă. Descifrează-mă sau devorează-mă.

Un colibri desface zborul

ca pe o portocală

dulce, savuroasă,

apoi se priveşte în oglindă

și vede o lebădă neagră.

Se trăieşte, se urăşte, se minte

pentru nimic,

se face exerciţiul dorinţei

închişi în corpuri speciale,

în povestiri erotice pentru copii.

În ținutul lupului alb

se umblă fără grijă.

Ochiul acoperit 

deschide spirale de lumină

pe cerul din miazănoapte.

Între copacii

pădurilor din ciment cenușiu

se bâjbâie după

natura umană

ființa profundă

se citesc creierele

se joacă poker cu gândurile

în sensul acelor de ceasornic.

Să recunoaștem, ca umbra neagră

care ne urmărește fără sfârșit

pe ceasul solar.

Faceți lumină! strigă Maestrul, arătați

poporului fața ascunsă a Lunii!

Memoria vegetale

Sono la donna del fuoco,

la donna dell’acqua.

La freccia colpisce la straniera

nella sua città interiore,

voleva salvare il mondo

col grido tra rovine.

Da chi viene questo cuore,

come un fuoco rosso nel cielo?

La nostra storia,

le voci dei sogni

sotto la tempesta di ghiaccio,

si chiude

come un libro

nell’albergo dei poveri,

nel buio

i cani dell’estate

cercano la memoria vegetale.

Il pendolo solo

prima di sparire

guarda il ladro di foglie.

La memoria del fuoco,

la memoria dell’acqua

scorrono nelle mie vene.

Dormo sulle altre luci dell’ora

fino alla luna piena,

che mi guarda con un sorriso ironico

e mi mostra l’ombra

tra molte altre, tutte uguali.

Il cane del tramonto si avvicina

per giocare con me.

Chi sei tu, così buono e carino,

come mai sei venuto da me,

ti sei perso?

Memoria vegetală

Sunt femeie de foc,

femeie de apă.

Săgeata

loveşte străina

în cetatea dinăuntru,

vroia să salveze lumea

urlând printre ruine.

A cui este inima

aprinsă ca focul roşu pe cer?

Povestea noastră,

vocile visurilor

sub furtuna de gheaţă,

se închide

ca o carte

în azilul săracilor,

în întuneric

câinii verii

caută memoria vegetală.

Singur pendulul

înainte de a se opri

vede hoţul frunzelor.

Memoria focului,

memoria apei

curg prin venele mele.

Mă culc pe celelalte lumini ale orei

până când luna plină

începe să-mi râdă ironic în faţă

şi-mi arată umbra

printre multe altele, toate la fel.

Câinele apusului se apropie să se joace cu mine.

Cine ești tu, așa frumos și blând,

cum de-ai venit la mine,

te-ai pierdut?

Entro a volte nel mio sogno

Non sperate di liberarvi dei sogni.

NellʹImpero della polvere

la sentinella della pioggia resta

a mano disarmata

davanti al canone del desiderio

leggendo la guida per vivere.

La lampada del diavolo

ci dà consigli

per la fine del tempo.

Facciamo prove di felicità e guarigioni

allʹUniversità del crimine

dove si studia

lʹeconomia sentimentale

con la vita segreta delle muse

e lʹanatomia di un giocatore d’azzardo.

Nel teatro dei sogni

sono di luna

la tigre

la spia…

Io resto la ragazza che guardava il cielo

nello specchio dʹacqua

dopo la pioggia.

Uneori cutreier prin vise

Nu sperați să scăpați de vise.

În împărăția prafului

sentinela ploii rămâne

dezarmată, 

cu pieptul deschis în fața armelor dorinței,

citind ghidul supraviețuirii.

Felinarul diavolului

ne dă sfaturi

pentru sfârșitul lumii.

Repetăm fericirea și vindecarea

la universitatea crimei,

unde se studiază

economia sentimentală

pe viața secretă a muzelor

și anatomia

pe un jucător de zaruri.

În teatrul visurilor

sunt una căzută din lună

un tigru

spionul…

Rămân copila care privea cerul

în oglinda apei

după ploaie.


Silvana Cojocăraşu (Romania): scrittrice, traduttrice, pubblicista, critico di teatro. Membro dell’Unione dei Giornalisti Professionisti di Romania. Laureata presso le Università di Lussemburgo, Constantza e Bucarest (Romania), É.N.A. Parigi (Francia). Traduttore di Italiano, Francese, Inglese, Spagnolo. Pubblica poesia, prosa, saggio, diario di viaggio, recensioni, cronache teatrali, studi di storia e patrimonio, libri in traduzione. Premi letterari conferiti da varie città, regioni e enti culturali in Italia. Onorificenze ufficiali assegnate da enti statali di Romania, Spagna, Cipro, Egitto.

Velo di Sposa

Velo di sposa

Portami da Milano

fino a Gerusalemme

per la luna di miele

di api colorate

che posano sui fiori

cresciuti nella guerra

un polline impazzito

che illumina la terra

Testo di Velo di sposa, canzone dei Radiodervish (1)

Esistono opere di straordinaria bellezza che non sono nelle parole dei libri né nelle raffigurazioni dei quadri, non tra le note di un pentagramma o nei marmi muti delle gliptoteche, né tra i colonnati delle chiese o nei fregi dei palazzi. Esistono opere che si risolvono nel gesto, il cui messaggio si consuma nello stesso momento in cui viene creato dall’artista, come fiamma che arde. Opere che non prevedono la loro conservazione, inafferrabili come il soffio del vento e imprevedibili come il volo di una farfalla.

Una sposa in viaggio, rigorosamente in autostop, da Milano a Gerusalemme, attraversando Slovenia, Croazia, Bosnia, Serbia, Bulgaria, Turchia, Libano, Siria, Egitto, Giordania, Israele, tutti Paesi che soffrono o che hanno sofferto la guerra.

La sposa, in questo percorso, si dona all’incontro con l’altro portando con sé un immaginario carico di significati positivi: femminilità, amore, gioia, purezza, vita. È questa l’opera pensata dall’artista, arte itinerante che esige vita ed esperienza per veicolare il proprio messaggio, un messaggio di pace, contro la guerra, contro ogni guerra.

L’artista pensa a tutto, ad ogni particolare, e allora tutto diventa simbolo…

Lungo il viaggio l’abito da sposa verrà indossato sempre, così come sempre verranno indossate le scarpe bianche con i tacchi, perché la costruzione della pace così come l’essere donna e madre comporta inevitabilmente sacrificio. Avrà una gonna a forma di giglio – simbolo di innocenza e di purezza per eccellenza – che sarà composta da 11 veli, come 11 petali, uno per ogni Paese attraversato.

Una mantella, che farà anche da velo e che verrà usata come copricapo nei Paesi islamici, servirà per asciugare i piedi delle ostetriche del posto quando la sposa rievocherà il gesto della lavanda dei piedi di Gesù. In questo nuovo e inaspettato frammento di Cena Domini che improvvisamente riemergerà potente dalla storia sarà una sposa, questa volta, a servire, a prendersi cura di chi fa germogliare la vita laddove gli uomini la spezzano con la guerra e con l’odio.

La sposa impegnata nella lavanda dei piedi ad un’ostetrica
(Fonte: Corriere della sera)

E quando l’abito si sporcherà verrà lavato con la liscivia, un detersivo naturale ricavato dalla cottura della cenere, non una qualsiasi, ma quella generata bruciando un libro, un articolo di giornale interessante, un indumento con una sua storia, una preghiera… insomma qualcosa in grado di arricchire l’abito di sostanza e significato, in modo che il lavare non sia solo azione di sottrazione ma di arricchimento.

Fotografie tagliate

in forma di stupore

son cibo prelibato

per angeli viaggianti

vittime destinate

da chi non sa capire che ha ricevuto rose

e le lascia morire1

L’autostop è scelta ponderata e naturale per l’artista, che vuole entrare in contatto con più persone possibili, di qualsiasi estrazione sociale. Perché il senso del viaggio, si sa, è nel viaggio stesso e in questo pellegrinaggio la sposa fa dono di sé, non può nutrire sentimenti di paura o di sconforto. Al contrario, si consegna, ripetutamente, nella fiducia di trovare nell’altro accoglienza e protezione. Pensa che in un modo o nell’altro la strada verrà percorsa e che la provvidenza le assicurerà sempre un passaggio.

“L’unica cosa che mi spaventa è il freddo… e le bestie feroci, ma dove vado non credo ce ne siano!” Aveva dichiarato l’artista prima di partire.

E così il diario del viaggio si arricchisce di volta in volta dei volti di camionisti e autisti, operai, manager, insegnanti, artigiani, commercianti che condividono con l’artista chilometri e parole, un tratto di vita, seppur breve, assieme. L’artista scatta foto a queste persone, poi ne ritaglia i volti e li incornicia, registrando anche la loro voce quando possibile.

Slovenia, Croazia, Bosnia, Serbia, Bulgaria, Turchia. Il 31 marzo del 2008 Murat Karatas dà un passaggio all’artista, si allontana dalla strada principale fino a raggiungere la località di Ballikayalar. Arrivato in un bosco la violenta e subito dopo la strangola cercando poi di seppellire malamente il corpo. Muore così Giuseppina Pasqualino di Marineo, in arte Pippa Bacca.

Restano le parole

e vuoti da narrare…

Ora di te mi parlerà

la Via Lattea

velo di sposa

la notte imbiancherà1

A questo punto ogni parola potrebbe risultare fuori luogo, poco opportuna, e sarei tentato di chiudere tutto, foglio e computer dal quale sto scrivendo per andare a piangere di fronte al cielo e maledire la carne di maschio che mi porto addosso.

Ma così facendo lo straordinario messaggio di pace dell’artista, in-compiuto e pensato in tutta la sua straordinaria bellezza ne rimarrebbe di nuovo oltraggiato, coperto dal silenzio che impone la morte e la vergogna. E non dev’essere così.

Voglio che il viaggio, il tuo viaggio, Pippa, continui.

Libano, Siria, Egitto, Giordania e finalmente Israele. Voglio che ad attenderti lungo la strada ci siano uomini buoni, che ti accolgano senza dire una parola, non una. E ti aggiustino il velo, sotto cui si scorge il tuo volto, sorridente e rassicurante. E in questo gesto di amorevole cura e in questo silenzio voglio che si riveli in modo dirompente e commovente la misura dello sconfinato mistero che la donna, la sposa, la pace è per l’uomo.

Trento Vacca


“Brides on tour – spose in viaggio – è stato un progetto realizzato nel 2008 da Pippa Bacca e Silvia Moro in collaborazione con Byblos Art Gallery di Verona. Pippa Bacca e Silvia Moro sono partite da Milano vestite in abito da sposa, attraversando in autostop la Slovenia, la Croazia, la Bosnia, la Serbia, la Bulgaria, sino ad arrivare in Turchia, dove il percorso è stato bruscamente interrotto dalla tragica morte di Pippa…” (Fonte: sito internet Pippa Bacca)

I Radiodervish hanno dedicato la canzone Velo di sposa contenuta nell’album Human del 2013 proprio all’artista milanese Pippa Bacca.

TEMPO

Nell’ultimo articolo ho parlato dell’odierna degenerazione del Tempo (che mette in discussione il luogo). Degenerazione che in questo caso attiene al senso matematico del termine, che indica particolarità, anomalia, riduzione di complessità, “…questo nostro tempo, sempre più asintotico verso il futuro (passato e presente sembrano non avere più peso)…”

Ed è proprio questa complessità che sembra ormai persa a chiedere una ulteriore riflessione. “Perché il tempo dovrà ritornare al suo rango”, ho scritto, ma allora qual è il rango del Tempo?

Relatività, di M. C. Escher

Quella del tempo è una cattedrale escheriana le cui scale conducono a molteplici direzioni di pensiero, convergenti, divergenti, parallele, incidenti: orologi molli, storia, memoria, tempo lineare, progressivo, unidirezionale, sospeso, indefinito, Kronos e Kairos, fiume fatto di eventi, assoluto, soggettivo, cosmico, dell’anima, fanciullo che gioca, circolare, ciclico, tempo perduto, indistruttibile metronomo con occhio, pura illusione, eterno… BOOM!

Il tempo è il corto circuito dello scibile umano! Esercizio filosofico impossibile, errore circolare della ragione, terreno che non ammette né tesi né dimostrazioni, nessuna dottrina dunque ma solo esperienza personale.

Come dire, c’è un tempo al di fuori di noi – ogni riflessione in questo senso sarebbe un folle volo – e un tempo dentro di noi, su cui voglio invece riflettere, in cui ogni vissuto singolare può essere considerato verità.

Joseph Conrad, Ucraina, 1857 – Regno Unito 1924

Nel mondo della letteratura, un’opera in particolare ha saputo indagare magistralmente questo rapporto intimo e introspettivo tra Uomo e Tempo, un’opera dall’eleganza assoluta, una storia di mare, di velieri e di viaggi, dall’atmosfera coloniale, pregna di aromi di tabacco e fumo di pipa, e del suono dello sciabordare delle onde e della spuma di mare. È la Linea d’ombra, (The Shadow Line: a Confession, 1917), romanzo breve di Joseph Conrad.

Al di là della trama – le vicende di un giovane primo ufficiale di una nave a vapore che solca i mari d’oriente che improvvisamente rinuncia al suo lavoro per poi ritrovarsi, inaspettatamente e dopo un breve periodo di inattività, al comando di un veliero fermo a Bangkok per via della morte del suo capitano – ai fini della presente riflessione risulta illuminante l’incipit:

“Quando si è molto giovani, a dirla esatta, non vi sono momenti.

È privilegio della prima gioventù vivere d’anticipo sul tempo a venire, in un flusso ininterrotto di belle speranze che non conosce soste o attimi di riflessione.

Ci si chiude alle spalle il cancelletto dell’infanzia, e si entra in un giardino di incanti. Persino la penombra qui brilla di promesse. A ogni svolta il sentiero ha le sue seduzioni. E non perché sia questo un paese inesplorato. Lo sappiamo bene che l’umanità tutta è passata di lì…

Già. Si va avanti. E anche il tempo va, fino a quando innanzi a noi si profila una linea d’ombra, ad avvertirci che bisogna dare addio anche al paese della gioventù.”

Ecco subito rivelata l’architettura del romanzo, la chiave di lettura che sgombera il campo da ogni ambiguità interpretativa e che rende esplicito l’implicito annidato nella storia. C’è una fase della vita di ognuno – semplificando, la gioventù – in cui il problema del Tempo semplicemente non esiste. Il giardino dell’incanto è così ricco di seduzioni da appiattire il Tempo e ridurlo ad entità adimensionale; un punto, che ammette solo e soltanto il presente.

Sarà solo il caso, un incontro, un evento positivo o negativo capace di lasciare il segno, insomma l’hazard di rousseauiana memoria – nel romanzo è proprio l’incontro casuale del protagonista con il capitano Giles, nell’albergo dell’ufficio portuale, ad aprirgli la strada verso il suo primo comando di un veliero – a decretare la fine di quest’incanto, di questa illusione, segnando il passaggio dalla giovinezza all’età matura.

Attenzione però a non traslare il discorso dalla questione temporale, che rimane centrale, a quella più banale dell’essere giovane o adulto o addirittura alla casualità degli eventi che possono segnare la vita di ognuno – i fatti che accadono non sono forse figli del tempo che li porta?

La questione viene ben spiegata dal critico Ian Watt: con la linea d’ombra “Conrad non si sta riferendo a quegli ovvi indicatori temporali…legali o politici come la maggiore età o biologici come la maturità sessuale… ma ad un concetto sociale e personale. Avvicinandola si è consapevoli solo di un vago cambiamento d’atmosfera di cui non si comprende neanche la causa”. Ed è proprio in questo cambiamento di atmosfera che si annida la questione Uomo/Tempo che qui si vuole indagare, nella sua dimensione più intima e soggettiva.

Eh sì, perché in realtà più che una linea d’ombra, ad un certo punto della vita, ci troviamo al cospetto di uno spazio d’ombra dalla profondità imperscrutabile, in cui la percezione del Tempo cambia irreversibilmente rivelandosi in tutta la sua profondità. D’ora in poi non esisterà più solo il presente, ma si comincerà ad avvertire forte il passato così come la preoccupazione per il futuro.

Nel rapporto intimo tra Uomo e Tempo, dunque, più che il continuo presente in cui si risolve la vita, ad un certo punto, è il passato a divenire prevalente, è il passato che non passa a costruire identità, con i suoi eventi significativi che restano intrappolati nella rete della memoria e che orientano l’ago della bussola delle decisioni suggerendo direzioni di vita, non le banalità e le ripetizioni in cui si perde buona parte della nostra quotidianità.

Ma ritorniamo al romanzo.

Il primo comando, accolto con entusiasmo dal protagonista, si rivela ben presto un inferno: la mancanza di vento che immobilizza il veliero, l’equipaggio che si ammala di febbre gialla, il sabotaggio del chinino a bordo sostituito da chissà chi con altra mistura che ne rende impossibile la cura, il profilarsi di una sorta di maledizione legata alla figura del vecchio capitano morto… Eppure, tra mille difficoltà e senza possibilità di chiedere e ottenere aiuto, il protagonista riesce a portare il veliero a destinazione e l’equipaggio in salvo. E così, giunto finalmente a terra, quando il capitano Giles gli dirà: “Dovete avere addosso una stanchezza considerevole” il protagonista risponderà “No, non è stanchezza. Vi dirò invece come mi sento… mi sento vecchio. E credo di esserlo.”

In realtà il protagonista non può essere vecchio – l’inaspettata impresa non ha richiesto poi così tanto tempo! Nel suo sentirsi vecchio c’è il peso di un passato che lo ha forgiato e che è rimasto dentro di lui. È questo passato che per continuare ad esistere ha bisogno di profondità temporale, di una diluizione del Tempo che da punto adimensionale deve diventare spazio per riuscire a contenerlo, proprio come l’ombra ha bisogno di profondità spaziale per potersi stagliare sulle superfici, ecco la geniale intuizione metaforica che ha consegnato alla storia questo romanzo.

Nella linea del Tempo è il passato dunque la vera dimensione temporale che costruisce identità, sia sul piano individuale che sociale e che si pone in diretta comunicazione con il nostro intimo. È il passato immateriale dei fatti accaduti, è il passato materiale che arriva sino a noi dalle testimonianze storiche, una chiesa medievale, un libro del 700, un reperto…

È per questo che dovremmo averne cura e custodirlo:

“Io sono una forza del Passato.

Solo nella tradizione è il mio amore.

Vengo dai ruderi, dalle chiese,

dalle pale d’altare, dai borghi

abbandonati sugli Appennini o le Prealpi,

dove sono vissuti i fratelli…”

10 giugno, Pier Paolo Pasolini

Trento Vacca

29 Note – Poesie di Antonella Vairano: nell’ampia periferia dell’amore

Amedeo Modigliani
Jeanne Hébuterne

Gli occhi cerulei di Jeanne Hébuterne, giovane pittrice parigina, (1898 – 1920) trafissero quelli di Amedeo Modigliani (1884 – 1920) quando, per la prima volta, s’incrociarono per le vie d’una vitalissima Montmartre in una Parigi di inizio Novecento, lì dove, tra caffè letterari illuminati dalle luci della Belle Époque, locande dell’ultima ora e laboratori d’arte, s’incontravano, per caso o per destino, pittori quali Marc Chagall (1887 – 1985), Maurice Utrillo (1883 – 1955) o scrittrici quali Geltrude Stein (1874 – 1974) con Alice B. Toklas (1877 – 1967)1

A. Vairano, 29 Note – Poesie, Youcanprint, 2018

Nella sua casa di Montmartre, Modigliani amò dipingere quegli occhi, tanto chiari da sembrare vuoti, sopra un viso variamente reclinato così come tante sono le declinazioni dell’amore. Ed è proprio la sfrenata passione tra Modì e Jeanne, terminata tragicamente, ad ispirare Antonella Vairano nell’opera d’esordio: 29 Note – Poesie. 

Abbiamo l’impressione di elevarci, di salire ad alta quota dove l’aria si fa rarefatta, il respiro corto e tremanti le ginocchia, perché l’autrice scrive d’amore.    

Ci chiediamo se sia possibile scrivere d’amore, oggi tra le macerie delle città martoriate o nei sotterranei affollati delle metropolitane. Ed in quale modo?

L’autrice raccoglie la sfida: scende in strada, percorre caliginosi vicoli, si spinge negli anfratti più bui dell’amore, città eternamente cinta da alte mura imbrattate di vita: “S’ingorda di bianche pareti / e s’affolla di rosso potente. (…) Sono i miei azzardi / che si sciolgono / nell’ordine / di due lune allineate.” (dalla lirica: Vita).

Max Jacob, Château des Brouillards, 1918, olio su tavola (collezione Le Vieux Montmartre)

Ella non esalta l’amore inteso come valore da preservare, ma lo osserva nella relazione amorosa tratteggiandone le emozioni. Per questo, esso non cede mai a vani sentimentalismi o inutili smancerie, è sostanza prima, sale della terra. Così ella scrive: “S’affaticano le parole / e d’essere ne vorrebbero dell’amore / pane carne e sangue. […] S’infiammano le parole / e d’essere sono la riga profonda / del pregevole marmo.” (da: Cos’è l’amore). L’amore dunque si fa sanguigno, essenziale ed il suo verso, carnale. Non una poesia imbellettata, sentimentale, ma del sentire d’amore nella quale il corpo, involucro dell’anima, diviene doloroso bersaglio: “Brucia. / E quanto brucia. / Lacrime ingravidano / nel ventre, / raccolte da voli stanchi.” (da: Brandelli)

Si scorge, dunque, nei versi d’amore della Vairano, la stessa impetuosa carnalità che rintracciamo in Marina Cvetaeva: “Vandalo in un’aureola / di vento! Riconosco / l’amore dallo strappo / delle più fedeli corde / vocali: ruggine, crudo sale / nella strettoia della gola.” (da: Scusate l’Amore. Poesie, 1915-1925)

L’amore dunque può essere bruciante: “Squarci invalidi / infettati / da lame arrugginite / Sotto la colonna di carne. / Sola. / Già trita.” (da: Brandelli) Ma, qui, gli strati di senso sembrano sovrapporsi, anzi, il significato letterale sembra scalzare quello metaforico poiché abbiamo l’impressione che l’autrice rappresenti il parto nel suo doloroso divenire: “Passione necessaria / che non vuole finire.” (da: brandelli)

     È un viaggio, l’amore, nel quale l’autrice perde sé stessa per divenire nell’altro: “Costruiamo corpo tuo e corpo mio. […] Fa’ che mi perda / come la partenza senza il viaggio. / Sei l’iscrizione marchiata / nel mio osso. (da: Fly high). Ma l’amore è anche contraddizione, moltitudine di pensieri ed emozioni: “La mia porta sarà la tua / fortezza alloggiata. / Non mi perdo, amore. / Alberi d’aranci intorno. (da: Alberi d’aranci) Sembra essere centrata sulla distanza, questa nota poetica, nella quale l’autrice, lontana dalle facce sfogliate velocemente, sperimenta il vuoto di giorni inutili in assenza dell’amato: “Non voglio il mondo di facce. / Misura colma. / Sbandati giorni / che non uso. / Appendo il solco. / Mastico vita e mangio amore.” (da: Alberi d’aranci)

Percorrendo le vie di quest’amore, ci imbattiamo in una lirica che è un’impetrazione, accorata supplica nella quale l’autrice chiede che si spengano le luci, si chiudano i rossi sipari, si ammainino le vele perché ella possa sentire il proprio dolore nel profondo di sé: “Ed ora per favore / per favore vi chiedo / spegnete le luci / serrate sicure le chiavi / nelle serrature. / Chiudete i sipari /dal pesante velluto di porpora.” (da: Preghiera). Risuonano, qui, lontani echi di un altro intenso dolore perché, nel cielo ultimo della Poesia, i versi possono stringersi contaminandosi: “Stop all the clocks, cut off the telephone, / Prevent the dog from barking with a juicy bone, / Silence the pianos and with muffled drum / Bring out the coffin, let the mourners come.” (W. H. Auden, Funeral Blues, 1938)2

L’amore è anche e soprattutto coraggio ed ecco che l’autrice invoca l’amato affinché la spinga fuori dalla sua tana: “Stanami dal sedimento. / Stanami dall’inerzia / Prendi l’acqua che sazia l’argine e il desiderio / brucia la tana che corre l’ombra al contrario”. (da: Sole obliquo) Solo l’amore, dunque, può risvegliarci dal lungo sonno, trarci dalle nostre nicchie interiori, dalle caverne buie nelle quali scorgiamo soltanto un barbaglio, una tremula ombra, non la piena luce. “I slept, say: a snake / Masked among black rocks as a black rock / In the white hiatus of winter – “(da: Love Letter, 1962)3

È questo il sonno di Sylvia Plath dal quale ella riesce a risvegliarsi grazie all’amore. Per la Vairano, invece, è l’inerzia, la stanchezza, l’ignavia, l’altra faccia dell’amore; così, illuminato il volto, l’autrice scrive: “E m’investe l’amore. / Ed io ubriaca / m’involgo / nella città prima. / Scalza d’amore, / sulla via dell’amore.” (da: Inside)

Come pagliuzza d’oro è, l’amore, e noi, cercatori di Jamestown, lo inseguiamo quasi disperatamente. Per questo, quando, per incanto, lo stringiamo tra le mani, anche solo per un attimo, non sappiamo più dimenticarlo. È questo il senso, la pagliuzza dorata che rinveniamo sul greto di “La ballata della poesia”: “Non credi / devi / tocchi e senti / ad antiche promesse / di non essere / pensiero e memoria. / Il tempo ti ha tradito / e la poesia ha perso”. Promettiamo, ci imponiamo di non ricordare quell’amore ormai finito ma, il tempo ci tradisce, sgambetta, rovesciando in terra il sacchetto dei ricordi.

Tra memoria e oblio, rabbia e gioia, nella grande periferia della città eterna, scorgiamo una bambinetta vestita di rosa, ha scarpe di pezza e bocca ancora sporca di latte.  È incerta sulle fragili caviglie ed inciampa in un foglio di giornale: è la lirica “Mani” che s’incammina, lenta, sulla via della tenerezza e del sogno: “M’importa del sogno. / Stordisci la mia sentenza / e la mia virtù / E facciamo questa scena: / tu abbracciami delicato.”

Sole obliquo

(di Antonella Vairano da: 29 note – Poesie, 2018)

Stanami amor mio

Stanami dal sedimento

Stanami dall’inerzia.

Prendi l’acqua che sazia l’argine e il desiderio

Brucia la tana che corre l’ombra al contrario.

Sei meraviglia

E danza semplice

E anche eco

E affanno forte.

Sei dimora

E confine notturno.

Moriamo dentro….

In questo sole obliquo

Di città e distanze.

Periferia urbana, Torino

Slanting Sun

(traduzione in inglese di Giulia Sonnante)

Drive me out my love

Drive me out of sediment

Drive me out of idleness

Take water that satisfies banks and desire.

Burn the den that edges shadows inside out  

You are a marvel

and mere dance.

Also an echo

and deep concern as well.

You are a dwelling place

and a night boundary.

We die deep inside….

Under this slanting sun

of cities and distance.

Giulia Sonnante

Antonella Vairano

  1. All’amore di Geltrude e Alice è ispirata la poesia di Antonella Vairano “Lettera di Stein”, disponibile per l’ascolto sul canale Youtube dell’autrice.
  2. [Fermate tutti gli orologi, isolate il telefono, / Fate tacere il cane con un osso succulento, chiudete i pianoforti e con un rullio smorzato / portate fuori il feretro, lasciate che giungano i dolenti] traduzione di Giulia Sonnante
  3. [Diciamo che ho dormito, un serpente/ Mascherato da sasso nero tra i sassi neri / nel bianco iato dell’inverno] traduzione di Anna Ravano.

Nelly Sacks: Ma chi vi tolse la sabbia dalle scarpe, quando doveste alzarvi per morire?

Nelly Sachs nasce a Berlino, figlia di due ingegneri ebrei, nella Germania di fine Ottocento.

Da ebrea berlinese l’autrice sperimentò gli anni della persecuzione hitleriana e sfuggì agli orrori dello sterminio grazie all’aiuto dell’amica scrittrice Selma Lagerlöf che ottenne per lei un permesso di soggiorno in Svezia. Iniziarono anni di fervida creazione poetica, imparò a conoscere i motivi della mistica ebraica che costituiscono il riferimento costante di tutta la sua poesia che unisce con singolare naturalezza due termini apparentemente contrastanti: una chiara leggibilità e una evidente inclinazione mistica.

Dopo avere ricevuto l’ordine di presentarsi a un campo di lavoro, nel 1940, riesce a fuggire in Svezia, dove si stabilisce e vivrà per tutta la vita.

Nel 1947 viene pubblicato il suo primo libro di poesia. Nel 1950 inizia una serie di lunghi periodi di ricovero in ospedali psichiatrici.

Le raccolte poetiche degli anni Cinquanta la segnalano all’attenzione del pubblico tedesco. Tra i suoi estimatori spicca Paul Celan con il quale intreccia un rapporto epistolare nutrito da reciproca ammirazione e destinato a sfociare in una intensa amicizia. Si incontreranno solo nel 1960 a Zurigo e a Parigi.

Dagli anni Sessanta la fama di Nelly Sachs diventa internazionale e nel 1966 riceve il Premio Nobel. Muore a Stoccolma nel 1970.

Deserto del Sinai

Ma chi vi  tolse la sabbia dalle scarpe,
quando doveste alzarvi per morire?
La sabbia che Israele ha riportato,
la sabbia del suo esilio?
Sabbia rovente del Sinai,
mischiata a gole di usignoli,
mischiata ad ali di farfalla,
mischiata alla polvere inquieta dei serpenti,
mischiata a grani di salomonica sapienza,
mischiata all’amaro segreto dell’assenzio.

O dita,
che toglieste ai morti la sabbia dalle scarpe,
domani già sarete polvere
nelle scarpe di quelli che verranno!
1

Quando il giorno al crepuscolo si svuota

e il tempo non ha più immagini

e si uniscono le voci solitarie –

gli animali altro non sono

che cacciatori o cacciati –

solo profumo i fiori –

quando ogni cosa diventa innominata

                                                   come all’inizio –

scendi nelle catacombe del tempo,

che si aprono a chi è prossimo alla fine –

là dove crescono i germogli del cuore –

cali

nell’interiorità oscura –

sfiorando la morte

che è solo un passaggio turbinoso –

e nell’uscire

apri rabbrividendo gli occhi

gli occhi dove una nuova stella

ha lasciato il suo riflesso2

Se i poeti irrompessero

per le porte della notte,

lo zodiaco dei demoni

come orrida ghirlanda

intorno al capo –

soppesando con le spalle i misteri

dei cieli cadenti e risorgenti –

per quelli che da tempo lasciano l’orrore –

Se i profeti irrompessero

per le porte della notte,

accendendo di una luce d’oro

le vie stellari impresse nelle loro mani –

per quelli che da tempo affondano nel sonno –

Se i profeti irrompessero

per le porte della notte,

incidendo ferite di parole

nei campi della consuetudine,

riportando qualcosa di remoto

per il bracciante

che da tempo a sera ha smesso di aspettare –

Se i poeti irrompessero

per le porte della notte

e cercassero un orecchio come patria –

Orecchio degli uomini

ostruito d’ortica

sapresti ascoltare?

Se la voce dei profeti

soffiasse

nei flauti-ossa dei bambini uccisi,

espirasse

l’aria bruciata da grida di martirio –

se costruisse un ponte

con gli spenti sospiri dei vecchi –

Orecchio degli uomini

attento alle piccolezze,

sapresti ascoltare?

Se i poeti entrassero sulle ali turbinose dell’eternità

se ti lacerassero l’udito con le parole:

chi di voi vuole far guerra a un mistero,

chi vuole inventare la morte stellare?

Se i profeti si levassero

nella notte degli uomini

come amanti in cerca del cuore dell’amato,

notte degli uomini avresti un cuore da donare?3

Nelly Sacks 10 dicembre 1891 Berlino, 12 maggio 1970 Stoccolma, Svezia

A cura di

Antonella Vairano


  1. (Traduzione di Ida Porena) da “Nelle dimore della morte”, in “Al di là della polvere”, Einaudi, Torino, 1966
  2. Nelly Sachs – Le stelle si oscurano, 1944-46 – trad. Ida Porena
  3. Nelly Sachs, Poesie, a cura di Ida Porena, Einaudi 2006

IOLANDA INSANA: Una Ruminante della Parola   

Parole dense in un’esistenza ancora più densa, scorticata sino all’inverosimile. La guerra, i bombardamenti di Messina, il terremoto, le bestemmie, il dialetto acceso di sensi, la parola sempre affacciata nel nuovo di un’invenzione linguistica cucita dentro lo stomaco delle emozioni e dei significati.

Una ruminante della parola e del verso. Una fune sempre allungata nella tensione accesa verso pesi nuovi e schiuse ancora mai pensate.

vagarono per due giorni

cercandosi in mezzo alle rovine

della città morta

al terzo giorno arrivarono al Duomo

caduto per terra

Santuzza sbucando da corso Cavour

e Bastianu da via I Settembre

fu lui che la vide per primo

ed ebbe un colpo al cuore

ma corse e la baciò e l’abbracciò

lacrime e baci si mischiarono

e caddero a terra

e per la prima volta si amarono

nel disastro rinasceva la vita1

Lo scavo agito da Iolanda Insana alla ricerca della parola la tiene nel preciso spazio che unisce parola e storia, parola e passione per l’umano andare, per le umane vicissitudini. Ogni rimando ne chiama altri, ogni rimando sposta verso altro: è un’antropologia sommersa e sommessa che si nutre di pietas verso quella piena conoscenza di radici che conosce e di cui ha cura fonda. La sua dissacrazione della parola è intimo gesto d’amore per una realtà misera, sofferente, abbrutita ma – proprio per questo – profondamente viva, attuale, intramata di un indicibile che lei sa, con arte, irretire in poesia dai toni viscerali e accesi. Leggere Iolanda Insana è calarsi in una tonnara di rossi ferrosi.

Iolanda non scansa mai l’inafferrabile dell’esistenza, ama accarezzare il dannato del dentro del verso. La Sua parola ci giunge, sempre, dal fondo venoso di una lotta giocata all’interno di sonorità straziate e – dopo – ricomposte sapientemente.

la rotativa sussult

ondeggiò

e si fermò

a pagina

28

della rivista

<La rinascita della Sicilia e delle Calabrie>

mai più stampata2

Ogni suo titolo di raccolte, sillogi è punta di fioretto giocata su nastri rocamboleschi del significare: Sciarra amara, Fendenti fonici, Coltellate di bellezza, Schiticchio e Schifio, La Clausura, Medicina carnale, La tagliola del disamore, Satura di cartuscelle…

In continua e operosa fuga verso un universo linguistico che La dica, nomina la tradizione poetica mentre ne disfa ogni aulicità. Il Suo è movimento denso verso la corporeità e lo spessore vellutato delle combinazioni foniche.

s’imbriacau e vomitau

la terra

poteva farsi venire il mal di pancia

da un’altra parte

in mare aperto

contorcersi e spaccarsi

e invece ha sfiatato veleni

e s’è rimpallata con l’onda

ai piedi della Madonna della Lettera3

Tutto, nella parola di Iolanda Insana è tellurico: Lei sa cosa sia un movimento di terra che diviene movimento di viscere del sentire così come conosce il rapporto tra maceria e memoria ed è incredibile il modo in cui riesca a coniugare movimento di terra e movimento di parola. Ogni Sua parola è ciottolo, scheggia, pietra divelta. Ma Lei conosce le fiumare e le corse verso i rifugi durante i bombardamenti e i giochi tra le macerie e la ricerca dello spazio all’aperto. Ogni movimento esistenziale, in Insana, è di tensione in avanti, è la sua vita a sguantare grammatica e lei segue ritmo e respiro annodando l’impensabile.

Tra gli strumenti del Suo andare nell’universo linguistico, centrale il ruolo avuto dagli studi di filologia che rendono possibile smussare ma –soprattutto- trattenere l’animalità come eco profondo all’interno della parola, animalità come cassa primigenia della comunicazione tra umani. Ogni parola pare giungere sempre da lontano e mantenere il suono che l’ha definita mentre l’amigdala ne segnava segno sulla roccia di pareti-ventre.

Nunziatina

la mia bisnonna

scampata bambina al cataclisma

dalla Puglia emigrò in Piemonte

e per tutta la vita

ebbe nostalgia della città

e nessun desiderio mai di tornare tanta fu la paura4

La Sua poesia è dentro la radice dell’esperienza vissuta, attraversata, bestemmiata. Nella Sua esistenza sperimenta la libertà e la bellezza del primigenio all’interno di una fanciullezza in cui l’ordine disfatto dalla guerra la obbliga a stare nel precario, nei luoghi aperti, nella geometria della natura con le sue forme precise d’esplosione cromatica. Saranno questi elementi a costituire una memoria cellulare cui attingere impavida, una vora di selvaggio che andrà al di là della fine formazione classica appartenutaLe.

Leggere segni e pieghe dell’esistenza, indagare la vita come sacerdote su di una ziqqurat, sempre sprofondata ad indagare buio di notte, indagare nella Sua poesia è perdersi in rotte inusuali dell’anima.

Gli affreschi dei Frammenti di un oratorio per il centenario del terremoto di Messina, sono equivalente dei calchi in gesso realizzati tra gli scavi della Pompei del 79 d.C. grazie alla tecnica di indagine di Amedeo Maiuri. La vita si ferma nell’attimo preciso in cui viene fissata nel verso e consegnataci nella torsione del dolore estremo.

Accurrìti accurrìti gente/ me figghia me figghia/ portate una scala/ me figghia/ accurrìti accurrìti7 u focu u focu sa mancia/ viva/ a fini du munnu/ a fini da so vita/ viniti curriti/ ‘na scala/ tièniti tièniti/ figlia5

Di bellezza sfrenata il sentire di Iolanda Insana, un Sud dell’anima tutto consono e interno alla radice magno-greca quale filtro del sentire e del comprendere in un orizzonte in cui nulla è sbiadito e sussurrato, tutto e accesso e urlato con un contenimento che rende la Sua scrittura di fine drammaticità, di imponente passione nella Sua capacità di fare propria l’intera coralità della mediterraneità.

Anna Rita Merico

Iolanda Insana, Messina, 1937 – Roma, 2016


  1. Iolanda Insana, Cronologia delle lesioni 2008-2013, Luca Sossella ed. 2017, pg 60
  2. Ivi pg 40
  3. Ivi pg 36
  4. Ivi pg 37
  5. Ivi pg 31

IL LOCKDOWN: TRA ANALISI DEI SOGNI E ISPIRAZIONE POETICA

Alessia Marconcini è una psicoterapeuta, ha raccolto i sogni di amici e pazienti durante il confinamento della primavera 2020 e li ha trascritti, analizzati: uno sguardo attento sulle nostre fragilità, i timori, le speranze.

Alessia Marconcini

Ricchissimo il materiale onirico che ne emerge: carestie, cieli neri, guerre e altre catastrofi, finanche il suicidio di Lorella Cuccarini; ma anche nuovi e vecchi amori, viaggi e mare, conchiglie e luoghi incontaminati, donne che si spogliano e candidi cigni. Non pare esservi un denominatore comune, quanto piuttosto la ricorrenza di alcuni topoi: fra questi la casa e la presenza di animali.

La casa non è quella propria (e viene in mente Casa d’altri, il «racconto perfetto» di Silvio D’Arzo): o ci si trova in una casa estranea o, se propria, non corrisponde all’abitazione reale. Viene a mancare il guscio che protegge, spiega l’autrice, e la casa – archetipo di sicurezza e di calore – cede il posto al venir meno delle certezze, all’espropriazione della vita quotidiana.

E poi gli animali. Cani, rane, lumache, api, ratti, cavalli, felini di ogni sorta e un grande cigno bianco. Presenze – avverte Marconcini – che lasciano «ipotizzare l’inevitabile venire a contatto con parti profonde e primitive di sé, nonché il timore di non tenerle a bada».

Uno studio puntuale ma non criptico, divulgativo senza banalizzazioni. Un libro bello e autorevole, accattivante, singolare.

Esprit de finesse ed esprit de géometrie coesistono in queste pagine di Aurora Castro, il primo racchiuso nel perimetro del secondo.

Geometrico – simmetrico – è infatti l’impianto dell’opera, divisa in quattro sezioni introdotte ciascuna da una citazione in esergo, seguita da un preambolo. Poi una serie di versi, o meglio frammenti di prosa poetica numerati in crescendo, tra i quali si incuneano (brusca e voluta cesura) le Notizie del giorno. Fitte, queste, di numeri e percentuali, impietosamente algide nella loro materialità: i contagi e i decessi da coronavirus nei giorni più bui della sua diffusione, i settanta giorni di confinamento o lockdown – di coprifuoco, preferisce chiamarli l’autrice.

Se la struttura è compatta, costrittiva quasi, come la pandemia istituzionalizzata, la versificazione non ne soffre; e costruisce ritmi cadenzati e densi, pregnanti e sobri, muovendosi lungo una linea sinusoidale che alterna scenari di resa e di speranza, vitalità e sgomento:

Nuvole sparse / farfalle contratte al sole / rovesciate nell’acqua

Il cielo nel sangue di un fiore

Il nulla di una tomba nera / morsicata dai calabroni d’agosto


Rondini che cantano / la sera che canta / sopra le nostre vite

Il corpo in cui ogni sera cade / una strofa d’amore

Tre madri / che allattano i figli nel buio di una stanza, l’odore d’agrumi

Aurora Castro

Ordine e disordine, pena e sollievo abitano questi versi (predomina lo stile nominale, cifra consona alla forma breve). E non traspare angoscia nel dolore, né euforia nei momenti felici: la tensione tra i poli opposti si risolve in una sorta di coincidentia oppositorum, il fiducioso rimettersi a una volontà superiore.

Ché questo piccolo libro è colmo di religiosità e apertamente s’ispira – l’affermazione è dell’autrice – a I trentatré nomi di Dio della Yourcenar.

Alfredo Dell’Era

UNA CARUSA TOSTA: LA POETICA DI GOLIARDA SAPIENZA

Gaeta è una città urbanisticamente destrutturata. Ha un doppio lungomare, due nuclei abitativi storici ed è stata segnata dai bombardamenti della seconda guerra mondiale. Quando ne attraversi le strade, alla ricerca di un cuore pulsante, di un centro nevralgico, di qualcosa di architettonicamente cogente (un porto, una cattedrale, una piazza, un catalizzatore turistico o commerciale o culturale) attorno a cui l’intero paese ruoti aprendosi a chi lo visita; o al contrario si avvolga chiudendosi a riccio, non riesci a trovare se non vaghe tracce. Gaeta dà la netta impressione di una identità non perduta né assente ma, per così dire, decomposta, incompiuta.

Piazzetta a Goliarda

La decomposizione e l’incompiutezza identitaria sono a mio avviso una possibile chiave interpretativa della cifra artistica e poetica (anche esistenziale?) di Goliarda Sapienza, che ho scoperto proprio a Gaeta dove ha vissuto per lunghi anni dopo esservi giunta da Catania, sua città natale. Qualche mesa fa, attraversando il centro medievale (o meglio lo spezzone di centro o meglio ancora uno dei due centri) sono stato colpito da una piazzetta, una sorta di slargo su via Indipendenza, in cui mi sono soffermato a lungo. Qui lo sguardo è catturato da un murales dai colori intensi sul versante retrostante di un palazzo, di fronte al quale sono sistemate panchine in pietra a forma di libro aperto. Sulla parte inferiore del muro sono appese targhette di ceramica, con frasi di autori celebri e alla destra per chi guarda vi si apre anche una saracinesca, su cui campeggia una citazione di Goliarda da “Il vizio di parlare a me stessa”:

Non amo la musica, i romanzi o i quadri per fare una bella figura in società, ma per viverli solamente senza impegno. Questa è la vera gioia dell’arte. Chi non riesce a goderne è perché ascolta, legge o guarda solo per farsene un’arma di potere”.

Considerazioni del genere parrebbero rientrare nel novero del “già detto, letto, o sentito”, da parte di chi è fruitore passivo dell’arte, magari collezionando libri, quadri e citazioni. Se non fosse che Goliarda Sapienza, che artista lo è stata davvero, ha incarnato quei concetti e l’etica che li sottende. La sua biografia rivela che “vivere l’arte senza impegno” per lei, è stata una scelta radicale di autenticità e di non compromissione con il potere intellettuale egemonico dei suoi tempi. Vivere, per Goliarda, era già uno strenuo impegno perché compiuto senza alcun risparmio e senza alcuna griglia culturale contenitiva di comportamenti e visioni socialmente riconoscibili ed accettate. Lei era perfettamente in grado di vivere l’arte, la sua arte attoriale ed affabulatoria, la sua arte narrativa e poetica. E lo faceva fino in fondo. Impegno e vita per Goliarda non erano scissi bensì fusi in un unicum e quando le veniva richiesto di “impegnarsi” in arte, in una arte, una specifica arte, di prendere la sua strada, di “professionalizzarsi” entro uno schema artistico o quantomeno un filone, un riferimento con specifici rimandi, lei finiva per cedere sia emotivamente che in termini pratici. Abbandonava i progetti e desisteva perché già esisteva, pre-esisteva come artista e non necessitava di additamenti, incasellamenti, relazioni interpersonali, compromessi ed acquiescenza con il potere dell’intellighenzia culturale in auge, per dare forma e consistenza alla sua arte. Lo faceva non senza un interiore travaglio, una tensione irrisolta, un dramma tracimato nella produzione artistica sia quando vi naufragava sia quando tentava di salvarsene: altrimenti perché intitolare la sua opera più celebre “L’arte della gioia”? Non c’era alcuna strategia né infingardaggine nella rinuncia a “farsi strada” nei mondi artistici frequentati (teatro, cinema e letteratura poetica e narrativa). Tutt’altro: questa apparente inconcludenza era il dettato della sua anima. Per tentare di capirlo, bisogna necessariamente rifarsi a qualche minimo elemento biografico.

Goliarda Sapienza nasce a Catania nel 1924 dalla “libera unione” tra Giuseppe Sapienza e Maria Giudice, entrambi vedovi, lui avvocato socialista e antifascista, lei ex segretaria della camera del lavoro di Torino e direttrice del settimanale “Grido del popolo”, scesa in Sicilia per seguire le lotte dei contadini nella piana di Catania. Cresce in un contesto assolutamente anti-conformista, oltre che anti-fascista. Non frequenta regolarmente la scuola e buona parte della sua formazione è da autodidatta. Il nucleo familiare di Goliarda è complesso, con le due figure di riferimento al contempo ingombranti e marginali, la madre il cui rigore socialista arriva a far anteporre la passione politica agli affetti familiari; il padre, passionale avvocato del popolo ma anche donnaiolo; la presenza di fratellastri e sorellastre. Goliarda trascorre i primi 16 anni della sua vita da “carusa tosta” in un quartiere di Catania tra i più popolari e malfamati, la Civita. Situato nei pressi del porto, è transito di pescatori, dimora di prostituzione femminile ma anche maschile, rifugio di delinquenti che si mescolano a residenti perlopiù poveri ed analfabeti. Seguendo il principio socialista dell’uguaglianza dei mestieri, viene spinta dal padre ad imparare i più disparati lavori manuali, compresi quelli tradizionalmente maschili.  Nel caleidoscopio di stimoli, ruoli, strati sociali e miserie umane che è quest’ambiente di formazione, germina in lei la passione per la scrittura ed il teatro.  Il suo apprendistato si svolge presso il teatro dei pupi con il puparo Insanguine, da cui apprende la poliedricità dei ruoli e dei timbri vocali e drammatici propri di quell’arte. Nel contempo Goliarda fin da bambina impara a raccontare arricchendo, a fare di ogni storia un’epopea. Affabula i suoi coetanei con l’istrionismo e le sue doti teatrali di danza e recitazione, rappresentando loro i film visti al cinema. Inoltre intuisce che per entrare nei panni di un personaggio, occorre studiarlo e leggere l’autore che lo ha creato, attingendone gli elementi emozionali e profondi che l’hanno motivato. Sono risultati che non si ottengono solo con la semplice tecnica. In un saggio sui suoi romanzi dal titolo “Appassionata Sapienza” a cura di Monica Farnetti ,  E. Gobbato scrive:  

“L’attore non necessita solo di informazioni cognitive, ma di un lento assorbimento biologico per modellare, o adattare il proprio corpo, voce, fantasia a quell’arte (o mestiere) che erroneamente viene chiamata tecnica ma che di fatto è una vera e propria rieducazione psicofisica di tutto l’organismo e del suo modo di pensare”.

Il trasferimento a Roma nel 1941 segna per Goliarda lo sradicamento dalla culla siciliana e l’impatto traumatico con il mondo normalizzatore dei canoni codificati. Entra infatti nell’ Accademia d’arte drammatica e ne esce anzitempo e senza diploma. Ma come premesso, arte e vita per lei sono indistinguibili e le doti teatrali, pur non essendo certificate da un pezzo di carta, emergono ben presto. Si fa apprezzare come interprete pirandelliana, specie in “Vestire gli ignudi”. Appena fuori dall’accademia, fonda il progetto di teatro sperimentale T45 assieme a Silverio Blasi, Mario Landi e Valeria Pavot, mettendo in scena, nel 1944, “Gioventù malata” di Ferdinand Bruckner. Lo spettacolo è bloccato dalla censura e l’esperienza teatrale viene accantonata. Ma Goliarda in questo modo è emersa dall’anonimato e intraprende la carriera cinematografica, prevalentemente concentrata negli anni ’50, con Blasetti, Comencini, Visconti e Maselli. Con quest’ultimo nasce una relazione sentimentale che li vedrà uniti per molti anni. Sapienza però non si limita solo a recitare, la sua formazione non convenzionale le consente di esprimersi anche in termini letterari. E come detto in precedenza citando Farnetti, l’esperienza attoriale così connaturata alla sua esistenza e declinata tanto nel cinema quanto nel teatro ed anche, privatamente, nel saper tenere banco nelle serate tra amici, si nutre di lettura e scrittura. La produzione letteraria nasce, come spesso capita, con la poesia. I primi tentativi editoriali di pubblicazione vengono bloccati sul nascere dalle stroncature o dalle tiepide reazioni di alcuni critici presso i quali erano giunti, da Garboli a Gallo, da Banti ad Alicata. Emblematico, a proposito dell’impossibilità di incasellare la personalità letteraria di Sapienza che destava quasi sempre sorpresa mista a pregiudiziale sottovalutazione, il commento che proprio Mario Alicata, all’epoca direttore della commissione culturale del PCI, rivolse a Citto Maselli dopo aver da lui ricevuto e letto Ancestrale, la prima nonché unica silloge di Goliarda:

“Non avrei mai creduto che la figlia di Maria Giudice potesse scrivere poesie come una qualsiasi figlia di famiglia borghese”.

Commento che forse riflette l’astio di un comunista verso una socialista, come parrebbe dalla parabola politica di Alicata che era entrato in rotta di collisione anche con Scotellaro a proposito della strategia di riscatto del mezzogiorno. Commento che certamente riflette il condizionamento della figura materna sulla vita concreta e su quella artistica di Sapienza, inscindibili l’una dall’altra come già ribadito. Ed è proprio a partire dalla morte di Maria Giudice nel febbraio del 1953, dalla sparizione di una presenza importante ed al contempo ingombrante, dalla solitudine a dal vuoto lasciato dall’assenza di quel pur lontano ed alieno riferimento, tanto diverso dalla creatura che aveva messo al mondo, che nacque l’ispirazione poetica cristallina dei successivi dieci anni, gli anni di Ancestrale.

Ad occuparsi della pubblicazione postuma di questa raccolta, edita nel 2013 da “La vita felice”, più di quarant’anni dopo il suo compimento, è stato Angelo Pellegrino. Lui e Goliarda si conobbero nel 1975, a oltre dieci anni di distanza dalla chiusura dell’esperienza poetica di Ancestrale. All’epoca lei “non scriveva versi se non ogni tanto”, racconta Pellegrino nella prefazione al libro. “Era nel pieno del lavoro all’ Arte della gioia ma la poesia era rimasta sempre nei suoi pensieri. I poeti li teneva tutti insieme in una stessa libreria dove aveva raccolto anche i testi teatrali”. Pellegrino già da questi piccoli particolari emersi dal suo personale ricordo degli incontri con l’autrice, delinea il percorso costitutivo di Ancestrale, così strettamente materiato degli elementi autobiografici propri dell’artista e da quell’indissolubile commistione di generi ed arti che rende inutile qualsiasi tentativo di categorizzazione della vena creativa di Goliarda. Fin dal titolo, strenuamente difeso dalla Sapienza, quell’Ancestrale che allude ad una ricerca interiore profondissima non tanto delle ragioni che fanno stare al mondo, ma di quella fonte inesauribile, non codificata, non civile, quella wilderness pulsionale ed essenzialmente biologica, se non proprio “etologico-belluina”, cui attinge l’essere umano in preda alla crisi della sua esistenza e alla assenza di qualsiasi appiglio identitario di tipo antropologico. Vi troviamo versi come questi:

Risalire devi il fiume

del tuo sangue

fino alla fonte.

Là dove la morte

ha deposto le sue uova

là dove l’acqua

è trasparente

Afférrati alle rocce

spargi il tuo seme  

Grotta del Turco, Gaeta

La risalita che allude al sangue ed alla fonte non può non far pensare alla culla della Trinacria, alla placenta proteiforme del borgo catanese della Civita, che diviene quasi eponimo beffardo di quella dimensione cittadina, borghese e civilizzata, evaporata e negata nella casbah del quartiere natio, dove addirittura si narravano pratiche di prostituzione maschile adulta. Ma quella stessa culla è incistata di germi mortiferi (Là dove la morte/ ha deposto le sue uova), vista l’impossibilità di riprodurre l’esperienza esistenziale di totale libertà individuale vissuta dalla poetessa in alcun altro ambiente dell’Italia d’allora che non fosse quello del suo quartiere d’origine. E la vita della giovanissima Goliarda fino al trasferimento a Roma è la premessa del suo futuro disagio, benché non esista in tal caso un rapporto di causalità del tipo “post hoc ergo propter hoc”, semmai di conseguenzialità ineluttabile, di gioco-giogo del destino. Fate caso a quanti autori e autrici hanno in comune con lei il precoce sradicamento dal luogo natio: vi sorprenderete a contarne moltissimi.

Altra costante della raccolta è l’dea del lutto, vissuto non solo come inquietante presenza di una morte accettata ma pur sempre insensata ed angosciante per chi come lei viveva intensamente ogni attimo, ma anche come persistenza di atmosfere notturne o d’incerto albeggiare, contrapposte alla luce come elemento senz’altro chiarificatore, ma per nulla rasserenatore. Il giorno anzi, mette in luce e ratifica come una ineluttabile sentenza di condanna, il disagio sociale di una personalità fondamentalmente “disadattata” sia nei confronti dei codici borghesi sia di quelli dell’élite culturale comunista, cui per motivi essenzialmente biografici s’è sempre accostata.  In proposito, una poesia assai significativa è questa:

Abbiamo un termine

per restare

davanti a questa

finestra

senza guardare

Ancora un’ora o due

poi il bisturi del giorno

sezionatore.

Di fronte alla luce minacciosa e tomistica del giorno, raggio laser partitore di un bisturi che interviene sull’ancestrale antropologico attraverso lo strumento dell’irrigidimento in ruoli e schieramenti, la parola poetica vivificatrice è la sola custode dell’anima incorrotta e si manifesta come un genio notturno o crepuscolare. Alla lama splendente ed affilata del sole, Goliarda preferisce la falce soffusa della luce lunare, capace di trasformarsi nel sortilegio di un’impertinente figura non umana ma animata, semi-felina e predatrice che la spia sogguardando ed arriva persino a produrre la maturità (non ideale ma carnale, forse chissà, mestruale), mediante sottrazione d’infanzia:

Senza sospetto corri sotto il sole

senza sospetto il ventre appesantito

dal serpe del tuo sangue. Spaccàti

i seni dal primo aprirsi del sudore

della maglietta di filo bianco

di scozia. Corri e non sai

che questa notte la luna accovacciata

sul bancone spierà il tuo assopirti

e senza parere ti sfilerà l’infanzia

da sotto il cuscino.

Difficile, se non impossibile e certamente inutile, cercare una collocazione della produzione di Goliarda Sapienza nel variegato scenario della poesia del Novecento. Questo vale peraltro per tutta la sua produzione letteraria. “Sapienza non ha mai cercato un panorama letterario di cui far parte: Sapienza scriveva e basta”, afferma Anna Toscano nella interessante post-fazione di Ancestrale. E continua sottolineando “l’assenza di quella “drammaticità aggressiva” che Hugo Friederich rileva nella lirica del secolo scorso”. E qui si potrebbe sommessamente obiettare che pur mancando aggressività nei suoi versi, non manca affatto la drammaticità del dualismo luce /buio, visibile/invisibile, infanzia/maturità, ed infine, come mostra visceralmente la poesia che ora propongo, la drammaticità del dualismo donna/uomo:

Ora so tu mi vuoi

generare dal tuo fianco

di uomo. Concimare

dal tuo sguardo

di uomo. Ma so anche

questo che maturare

posso solo gridando

sotto il tuo peso.

Quella che Anna Toscano considera come una “reveire ad occhi bene aperti e lucida”, è di fatto un viaggio notturno e crepuscolare nell’interiorità più oscura che non può non avere che riverberi ed esiti come questi:

Mi pesa il giorno e lo specchio

furente contro il sole

Mi sega le pupille mi dissecca

la gola

Mi venisti vicino

a piedi nudi

fissando i miei pensieri

Mi venisti vicino

a dormire al mio fianco

rivoltato

contro il muro che d’alba

ora s’ammala. 

Nel tentativo di individuare se non un rapporto di filiazione poetica, almeno qualche analogia con la produzione italiana del novecento, si fa molta fatica. L’influenza dell’ermetismo, a mio parere, s’è esercitata più sull’approccio critico alle poesie di Goliarda che sullo specifico poetico dei suoi versi, quasi fosse un riflesso del pregiudizio intorno alla inconcepibilità della sua figura. Interessante e suggestivo il parallelismo messo in rilievo in post-fazione tra l’anti-ermetismo e il non-ermetismo proprio delle liriche così personali, autobiografiche ed individuali di Sapienza e “la linea che Giacomo Debenedetti descrive, riferendosi a Saba, come quella del romanzo personale”. Ma se sul piano tematico l’accostamento è interessante, su quello dell’atmosfera generale e dello stile di versificazione non ci siamo. La brevitas dei componimenti di Goliarda Sapienza, il canto dolente di una diversità mai aliena, di un isolamento mai cercato ma sempre trovato, mi fanno pensare non tanto a Umberto Saba quanto a Sandro Penna. “Mi pesa il giorno e lo specchio” mi rimanda idealmente e quasi per antifrasi, al “Mi nasconda la notte e il dolce vento”. Eppure Penna, pur prediligendo la brevitas nei versi, stempera l’angoscia della sua condizione attraverso il vagheggiare della figura mitica del fanciullo, del ragazzino visto con occhi solo in apparenza puri, e media il suo dramma personale con levità armoniosa, con formidabile concinnitas, con quell’eleganza leggera del suo versificare “semplice”. Al contrario, la poesia di Sapienza è marcatamente sensuale, promana odori forti ed è antilirica anche nella forma e nella disposizione dei versi, spesso accorciati da enjambement forzosi o sfocianti in una sorta di discorsività prosaica. Ed è proprio questo elemento che la rende “tremendamente” contemporanea, pur essendo ancora oggi largamente negletta o quantomeno apprezzata poco rispetto a quanto converrebbe fare. Insomma, succede a noi con la poesia di Goliarda un po’ quel che è successo a me con la città di Gaeta, non l’ho capita subito, ho appena cominciato ad apprezzarla e dovrò tornarci. Così come per Goliarda Sapienza: dovrò tornarci su, sono troppo curioso di intraprendere il viaggio ne “L’arte della gioia”. Ma quando sarò tornato a Gaeta, avrò ancora per le mani il suo libro di poesie e non potrò non leggerlo nella piazzetta a lei dedicata. Anzi, meglio ancora, sceglierò la Grotta del Turco, luogo senza umana traccia di urbanizzazione, anfratto, shelter non toccato da mano umana, andito ancestrale, per l’appunto.

Gianpiero Berardi

Goliarda Sapienza

L’importanza del sì

La scultura di Dubian Monsalve, intitolata “Montagna Incinta”, offre una prima forma di contaminazione artistica a queste mie semplici riflessioni sul senso dell’essere donna obbediente e capace di accogliere la vita.

La “Montagna Incinta” è una mastodontica, ma meravigliosa scultura che si trova in un luogo, di recente molto frequentato dai turisti che visitano: la Colombia.

Dubian Monsalve ha voluto esprimere il suo “grazie alla vita”, perché la vita è preziosa in ogni suo attimo: dal suo concepimento alla sua fine. Studente della scuola d’arte della facoltà di Architettura della Università Nazionale di Colombia, Dubian ha realizzato l’opera in 15 giorni: armato di badili, vanghe, coltelli e scalpelli, ha “impresso” il suo concetto di diritto alla vita nella roccia, ben visibile lungo la strada che collega Medellin a Santo Domingo Savio, in Colombia. Monsalve ha completato il suo lavoro nel 2012, ma solo di recente qualcuno l’ha fotografato e postato, rendendo la scultura famosa. Secondo Teleantioquia Noticias, detta immagine ha ottenuto più di due milioni di “mi piace” su Facebook.

Ci sarà un perché…

Così come ci sarà un perché se il diario di Oriana Fallaci, a distanza di 43 anni continua ad essere ristampato e letto da milioni di persone.

Oriana Fallaci, Lettera ad un bambino mai nato, 1975

Come sempre accade con un’opera riuscita, ciascuno ne dà un’interpretazione diversa. Per “Lettera a un bambino mai nato”, di Oriana Fallaci, sembra che il suo significato venga inserito nella polemica sull’aborto, che, negli anni in cui fu scritto il libro, era argomento di forte dibattito. In realtà, quelle sorte intorno a “Lettera a un bambino mai nato” sono tutte polemiche prive di senso, alla luce di quello che è il problema reale insoluto e universale a cui esso si collega: l’accettazione della maternità fatta di bellezza, di crudeltà e di poesia.

“Lettera a un bambino mai nato “è il tragico monologo di una donna che aspetta un figlio e che guarda alla maternità non come a un dovere, come purtroppo era idea comune di un retaggio maschilista e falsamente cattolico di quegli anni, bensì come a una scelta personale e responsabile. La donna, protagonista del libro della Fallaci, ha come unico riferimento la propria indipendenza. È una persona di cui non si conosce né il nome né il volto né l’età né l’indirizzo. L’unica indicazione che ci viene data per immaginarla e che è una donna del nostro tempo: sola e autonoma, una donna che lavora, indipendente economicamente e psicologicamente e che per questo si autodetermina. È una donna artefice delle proprie scelte di vita e del proprio destino. Tutto il cambiamento per lei inizia nell’attimo in cui avverte di essere incinta, condizione che la induce a porsi un duplice interrogativo angoscioso: basta volere un figlio per costringerlo alla vita? A lui piacerà nascere?

Mi affascina fare la recensione di questo libro in questo periodo, in cui si parla di una nascita importantissima che è “LA” scelta per antonomasia: la scelta di una ragazzina, un’adolescente vissuta 2000 anni fa, che ha dovuto accettare una serie di vicissitudini per aver detto un sì… e che sì! Ogni volta che una donna accetta la maternità dice il suo sì ad una nuova vita.  Se Maria di Nazareth, anziché dire “Eccomi” avesse risposto all’Arcangelo” Non sono pronta “… Cosa sarebbe accaduto? Voglio contaminare il testo della Fallaci ragionando con voi, attraverso le parole che don Tonino Bello usa nel suo “Maria, Donna del terzo giorno”: “L’obbedienza non è inghiottire un sopruso, ma è fare un’esperienza di libertà. (…) Chi obbedisce non smette di volere, ma si identifica a tal punto con la persona a cui vuole bene, che fa combaciare, con la sua, la propria volontà. (…) Obbedire, infatti, deriva dal latino “ob-audire”. Che significa: ascoltare stando di fronte (…) Questa splendida creatura non si è lasciata espropriare della sua libertà neppure dal Creatore. Ma, dicendo “sì”, si è abbandonata a lui liberamente ed è entrata nell’orbita della storia della salvezza.”

Ogni volta che una donna accetta una maternità, va incontro ad una realtà inaspettata, ad una compenetrazione di una vita nella propria vita, di un’altra carne nella propria carne e per un periodo, fatto di nove mesi, le due carni e i due flussi di sangue sono uno dell’altro e non è possibile che vengano scissi: questa è la maternità. Questo è il mistero della maternità incarnata.  Vi è poi il mistero della maternità scelta, in cui la gestazione esterna al corpo della donna, ma interna al suo cuore e alla sua mente, sviluppa nel pensiero e nelle scelte di vita ugualmente alla nascita in grembo nel proprio grembo. Perciò, penso alle tante donne che scelgono di diventare madri, adottando o prendendo in affido un ragazzino una ragazzina un bambino una bambina che hanno avuto un tratto della loro vita legato ad un altro corpo femminile. Quelle donne con forza e con coraggio scelgono ugualmente di accettare la condizione di maternità. Il dramma che vive la Fallaci è tutto in questo dilemma: è giusto sacrificare una vita già fatta a una vita che ancora non è? È giusto sacrificare la propria realizzazione personale per qualcuno che ancora non c’è? È certo un interrogativo legato proprio alla coscienza e va aldilà dei rapporti impossibili ed è basato su un’altalena di tenerezze e di incertezze e di amori e di odi, di accettazione matura o semplicemente egoistica di una maternità da cui, in realtà, si sente privata o derubata.

Quella della madre protagonista del libro è la storia di una donna costretta a separarsi dal proprio figlio “in nuce”, per non “morire alla vita” per “colpa sua”.

L’aborto (dal latino abortus, derivato di aboriri, «perire», composto di ab, «via da», e oriri, «nascere») è l’interruzione della gravidanza prima della ventesima o ventiduesima settimana, cioè nel periodo in cui il feto non è capace di vita extrauterina.

Ogni volta che ciascuno di noi non è in grado di obbedire ad una chiamata o di, semplicemente, assecondare una “vocazione”, in quel preciso istante pratica l’aborto di una parte di sé a vantaggio di un non essere o di un essere privo del coraggio di esistere.

Eccomi! Ci sono! Sono io e sono qui, pronto a sperimentarmi alla vita, perché sento che mi appartiene! Quando saremo in grado di rispondere così a noi stessi, scalfendo la durezza di una “montagna” di pregiudizi che non ci rendono liberi, allora e solo allora saremo in grado di dare vita alle nostre emozioni, ai nostri sentimenti, ai nostri pensieri.

Giusy Carminucci

Oriana Fallaci, Firenze, 1929 – Firenze, 2006