I MOTI STUDENTESCHI DEL ’44 A BARI

C’è stato un maggio barese, assai prima del maggio francese: se non di portata epocale come quest’ultimo, nemmeno evento indegno di memoria.

Era il 1944, gli studenti universitari e medi insorsero contro un provvedimento del ministro Omodeo. Azioni di lotta coerenti e tenaci, unite all’appoggio dell’opinione pubblica, permisero loro di vincere la battaglia.

Ricostruisce i fatti il documentatissimo L’Università di Bari di Pasquale Calvario e Vito Antonio Leuzzi, edito nel 2001 dalla Progedit e recante il sottotitolo di Nuove facoltà, lotte studentesche e politiche dell’istruzione. 1943-1945.

Non furono anni facili, quelli fra il ’43 e il ’45. La caduta del regime e l’8 settembre, l’Italia spaccata in due. Nel Centro-nord tedeschi e fascisti, i gruppi partigiani. A Sud Badoglio e la monarchia, l’occupazione alleata. Roma città aperta. E poi i CLN, la Liberazione, il dopoguerra; il breve governo Parri, l’ultraquarantennale egemonia democristiana alle porte.

Ma sullo sfondo dei grandi eventi c’era la vita di ogni giorno, i problemi di sempre aggravati dall’incertezza del momento; c’era gente che voleva lasciarsi il passato alle spalle, studenti che guardavano al futuro e dovevano sostenere esami. Erano universitari pugliesi iscritti a Napoli o a Roma – città in quel frangente pressoché irraggiungibili – ma anche ragazzi di altre regioni, profughi o militari di stanza in Puglia, che rischiavano di dover interrompere gli studi. Perché l’Università di Bari non offriva molto, all’epoca: mancavano fra l’altro lettere, filosofia, chimica, matematica, fisica, scienze naturali, ingegneria, veterinaria, pedagogia. Furono questi, appunto, i corsi provvisori istituiti nel gennaio ’44 dal governo Badoglio.

In aprile divenne ministro dell’Educazione Adolfo Omodeo, che, il 13 maggio, presentò uno schema di decreto legge col quale sopprimeva i nuovi corsi di Bari. A torto o a ragione, il provvedimento aveva il dichiarato scopo di «ristabilire la serietà degli studi». La notizia provocò un’immediata e vasta mobilitazione studentesca, la cui guida fu assunta da giovani intellettuali antifascisti, per lo più di estrazione liberale o vicini al partito d’Azione (tra i primi Pasquale Calvario, coautore del libro).

La protesta fu condivisa dal rettore Fraccacreta – il quale rassegnò le dimissioni – e dal corpo accademico, che approvò un ordine del giorno in cui si bollava come antidemocratica una misura adottata «senza alcuna consultazione, né richiesta di relazione alle Autorità Accademiche, fatto senza precedenti nella storia delle istituzioni universitarie».

Ma i veri protagonisti furono gli studenti, che portarono avanti la lotta con fermezza e prudenza insieme, guadagnandosi il sostegno della popolazione e il rispetto delle autorità; finanche di quella militare alleata, che, interrogati i vertici del movimento, decise di astenersi da ingerenze, se la situazione non fosse degenerata.

Il 15 maggio 1944, circa mille studenti affollarono l’atrio centrale dell’Università di Bari per aderire allo sciopero Omodeo, come allora fu chiamato: «si celebrò la prima grande adunanza di popolo nel nostro Paese uscito dal fascismo», scrive Calvario con l’orgoglio di chi c’era. Adunanza civile e pacifica, aggiungiamo noi, vista l’assenza di incidenti.

La protesta conserverà toni pacifici per tutta la durata, e si concluderà solo dopo aver raggiunto lo scopo: il ritiro del provvedimento contestato. Determinante fu la compattezza degli studenti e l’appoggio della società civile, coinvolta e tenuta informata tramite manifesti, comunicati stampa, volantini satirici.

Non possiamo nascondere la nostra simpatia per questi ragazzi del ’44 – oggi centenari, gli improbabili superstiti. Ma non è facile appurare, ottant’anni dopo, se e quanta fondatezza avessero le preoccupazioni di Omodeo. Certo il ministro aveva sinceramente a cuore le sorti della nazione, e il suo intento era stato quello di «mantenere all’Italia il prestigio di un Paese di alta cultura, unico bene rimastole».

Può avvenire che questo genere di libri scada nel provincialismo, nell’encomio del campanile: rischio sapientemente evitato dagli autori, nel cui studio scorrono, accanto a quelli di gente comune, i nomi di Benedetto Croce, Tommaso Fiore, Aldo Moro. E la storia dell’Università di Bari s’intreccia con la storia nazionale di quegli anni, si fa storia tout court.

Benedetto Croce

Alfredo Dell’Era

LA PAROLA È UNA LINGUA CHE UNISCE

‘qui non c’è straniero
siamo fratelli, tutti
venuti a celebrare la pura acqua.’

M. Bennis. Canto per il giardino dell’acqua

C’è una piazzetta, nella città in cui vivo, con al centro una fontana con quattro leoni, qui si incontrano alcune donne, nel tardo pomeriggio, con in mano un cellulare ed una busta. La prima volta che le vidi, pensai immediatamente che fossero badanti, donne ucraine e georgiane venute a cercar fortuna in Italia. Anni addietro partecipai ad una ricerca antropologica finalizzata ad indagare e mettere a confronto l’idea di cura nelle diverse culture di provenienza delle care-givers, le badanti appunto. In quell’occasione, ne intervistai alcune e venni in contatto col loro mondo, un mondo invisibile che vive sotto i nostri occhi, i nostri occhi ciechi. Mi scosse molto ascoltare le loro storie, donne partite dalla loro terra, costrette ad abbandonare i figli, ancora minorenni, lasciati a crescere con parenti o vicini di casa. Si raccontano storie tremende di figli che, per la mancanza delle loro madri, tentano il suicidio o si ammalano gravemente e come loro, le madri in Italia si ammalano di nostalgia, una nostalgia acuta, che le fa sopravvivere solo nella speranza del ritorno.

Una domenica pomeriggio, di inizio estate, passando per quella piazza, rallentai il passo per osservarle meglio, alcune di loro erano sedute, altre, in piedi, chiacchieravano ed una coppia di donne più giovani sedeva alla panchina di fronte, scambiando con le più anziane qualche battuta. Una, invece, se ne stava da sola seduta sulla panchina più distante, era in videochiamata, le passai di fianco e notai che portava un orologio da uomo, vestita con un abito a fiori, i capelli raccolti e le calze di nylon fino alle ginocchia, appena scoperte dall’abito. Pensai che quella domenica pomeriggio, dopo la messa, doveva essere forse l’unico loro momento di socialità, uno dei pochi momenti di visibilità (possibilità d’esser viste). Fui presa da un sentimento di grande tenerezza nel vederle ridere, come bambine giocose, ma insieme di profonda inquietudine al pensiero che la loro vita era tutta li, in quella piazza, in quella domenica di inizio estate. Pensai a quanta amarezza generi non sapersi viste.

Sayad Abdelmalek nell’illuminante libro ‘La doppia assenza’ parte dalla considerazione che i migranti prima ancora di essere immigrati o emigranti, sono esseri umani che aspirano a un’emancipazione politica che forse può trovare spazio solo in una visione del mondo libera dalle costrizioni. Emigrare è un atto necessario o persino urgente, sia perché non farlo condurrebbe a rischi ancor più gravi, sia perché la sola frustrazione di non farlo può essere percepita come negazione dell’essere stesso.

‘Prima di diventare un immigrato, il migrante è sempre innanzi tutto un emigrante’ dice ancora Sayad, spostando l’attenzione di chi studia i fenomeni migratori sul come, perché, quando e con quale significato nella società di origine si produce la maturazione dell’emigrazione e quindi a quale dinamica essa conduce, prendendo come oggetto di ricerca l’intero percorso migratorio e i suoi molteplici esiti che, in ogni caso, sono sempre decisi dall’andamento delle interazioni fra il migrante e la società locale di arrivo.

La migrazione delle donne è indice di una trasformazione nel fenomeno migratorio, delle dinamiche e dei significati che indicano oggi le donne come protagoniste di un proprio progetto migratorio. La scelta di lasciare il proprio paese, di seguire un destino che potrebbe rivelarsi migliore, l’aspirazione umana, all’emancipazione dà alle migrazioni, ancor di più, a quella delle donne, un carattere sovversivo sia rispetto all’assetto della società di origine, in cui alla donna non è riconosciuto alcun potere di emanciparsi, sia rispetto a quell’ordine, a quell’assetto culturale, sociale, ideologico che il fenomeno migratorio mette in discussione nei paesi di arrivo.

Ma sullo sfondo di ogni fenomeno migratorio restano le storie. Storie di uomini e donne, di gente che accoglie e di gente che rifiuta, di sogni e di delusioni. Bisognerebbe allora ritornare alle storie, guardare all’altro come portatore di storia e cultura, bisognerebbe rifondare quel ‘pensiero migrante’ che dà voce alla ‘parola poetica’ che prende forma nel viaggio, nell’emigrazione e nell’incontro con le diversità, come si legge nel libro di Laura Marchetti ‘Samar. La luce azzurra a Itaca’.  Samar è una parola araba che può tradursi con “raccontare parlando dolcemente alla notte”, è una parola che parla di accoglienza dell’altro e della sua diversità. Il libro è un viaggio e racconta di donne che trovano la libertà attraverso la narrazione di storie, per prima quelle di Sharazad, ma anche di molte altre donne, richiamando la letteratura greca, romana, orientale, insomma la cultura dell’antico Mediterraneo, terre di accoglienza in cui celebrare l’ospite, raccontare ed ascoltare la storia era il dono dell’ospitalità. Samar è il viaggio della parola, della parola poetica che è la voce dei popoli che si incontrano e si meticciano, azzurra come la luce del cielo e del mare, così come il poeta marocchino Mohammed Bennis rievoca nella sua poesia.

Mohammed Bennis

È questo che oggi la storia ci chiama a realizzare: una convivenza pacifica tra i popoli, una cultura che accoglie l’alterità e la riconosce per fondare insieme un territorio che si fa dimora comune, che si fa casa.

Mariatina Alò