ANTROPOLOGIA DEL VINCENTE O SACRO POCO?  IL SEGRETO IN UN P.S. di Giusy Carminucci

La mia riflessione, questa volta, si fonda su una tecnica di meditazione imparata a Taizé: la “Tecnica della risonanza”.

La indico, molto schematicamente, in modo che voi possiate applicarla con me.

  1. Leggere ad alta voce, almeno in coppia, il testo.
  2. Leggere lo stesso testo sottovoce o nel silenzio della propria ‘camera interiore’, lasciando che” vibri” dentro di sé.
  3. Sottolineare o evidenziare le parole e/o le frasi che “risuonano”.
  4. Rileggere silenziosamente, solo per se stessi le frasi emerse dalla “risonanza”.
  5. Rileggere ad alta voce il proprio testo condividendolo con le risonanze altrui.

Risonanza del brano di Pasolini

“… necessario educare nuove generazioni al valore della sconfitta.

all’umanità che ne scaturisce.

costruire un’identità.

fallire e ricominciare.

dignità

Non divenire sgomitatore sociale.

non passare sul corpo degli altri per arrivare.

 No vincitori volgari e disonesti prevaricatori falsi e opportunisti gente che occupa il potere

che scippa il presente

nevrotici del successo del diventare

Antropologia del vincente

preferisco chi perde

mi riconcilia con il mio sacro poco.”

Quello che emerge dalla “risonanza” non va commentato. Solo meditato.

Giusy Carminucci

P.S.

Attribuito erroneamente a Pier Paolo Pasolini, lo scritto, riportato all’inizio del mio intervento, appartiene in realtà ad una maestra di scuola primaria, Rosaria Gasparro, che l’ha pubblicato nel gennaio del 2014 e che, nel tentativo di ribellarsi ad una fake, controbattendo la sbagliata attribuzione, ha così osservato sul Web:

“Una riflessione sulla sconfitta, come possibilità da esplorare, per sdoganarla dalla negatività dell’accezione e agirla nella sua doppia dimensione di formazione e di liberazione dall’ossessione del successo e dalla sindrome del migliore. Un carico insopportabile che produce ansie, frustrazioni, presunzioni, individualismi, competizione. Solitudini. Come maestra conosco il potere dell’errore, la sua carica creativa e il ridimensionamento di ogni delirio d’onnipotenza. Lavorare sulla dimensione della fallibilità, in un mondo assillato dalla perfezione e dalla vittoria, ci permette d’imparare l’umanissima arte del perdere e paradossalmente ci rende meno vulnerabili nella nostra ricerca di vita. Perché ogni giorno perdiamo qualcosa, ma sarebbe terribile perdere se stessi, perdere la relazione con la vita, degradarla nel considerarla una partita dove si vince o si perde. Per chiudere la mia riflessione citavo un pensiero di Pasolini.

-E prosegue la Nostra- E’ stato subito un copia e incolla compulsivo. Un rubi e fuggi in cui sono sparite le virgolette e le persone “nessune”. Sono scomparsa io e il tutto è stato attribuito a Pasolini. Divertente. In genere il plagio è al contrario. È così che è nato un apocrifo che è diventato virale. Ho provato a contattare i siti, le pagine Facebook, i blogger (qualcuno ne ha fatto il suo articolo), i giornalisti e gli studiosi di Pasolini (sic!) per segnalare il falso. Senza successo. Non c’è stato nulla da fare: il flusso di false citazioni è proseguito incurante e così continuerà probabilmente in futuro. Quando anche noi ci saremo scordati di quanti intellettuali, giornalisti e politici citino frasi di Pier Paolo Pasolini, pescandole su Internet. Sono grata a Lucia Senesi per il suo contributo di luce. D’altronde basta leggere Pasolini e chiedersi come mai prima del 23 gennaio 2014 in rete non ci fosse questa piccola riflessione. D’altronde di sconfitta parlavo e del valore sotteso di sentirsi nessuno, e questo è quanto è accaduto.” In questo modo chiarisce sul Web il suo pensiero la maestra Rosaria Gasparro.

Alla luce di quanto fin qui espresso, proviamo ad applicare la tecnica della risonanza all’intero scritto e meditiamo quante volte ci sono state sottratte idee, progetti, rapporti per mera sete di potere o di celebrità, effimera e inefficace; che, seppur ci offre il volo pindarico, intorno al falò del desiderio, ci sta, in realtà, concedendo solo lo spazio e il tempo di una falena sulla fiamma della vita…

Giusy Carminucci

 

     

ATTESA E LETTERATURA

«Sogna, il curioso, d’essere morto e d’aspettare la rivelazione, il responso della tenebra. E si sente come un bambino avido, in un teatro, nell’imminenza che il sipario si levi. Infine il momento arriva, il palcoscenico appare. È un palcoscenico vuoto, non si vede nulla, non si sente nulla. Si aspetta ancora, si aspetterà sempre.»

Baudelaire, Il sogno d’un curioso, parafrasi di Gesualdo Bufalino

Contengono, il sonetto e di riflesso la parafrasi, l’anticipazione di quella poetica dell’attesa che tanta letteratura del Novecento avrebbe attraversato e informato di sé.

Aspettando Godot, in primis, ove si rivive la stessa scena ogni giorno, in attesa di qualcuno che mai arriverà.

L’attesa del capo di imputazione nel Processo di Kafka, il cui protagonista finirà giustiziato senza aver conosciuto la propria colpa; e quella, sempre kafkiana, dell’agrimensore, nella speranza (vana) di esser ricevuto al Castello.

L’attesa del nemico, che mai non compare, nel Deserto dei Tartari, e l’attesa di Giuseppe Corte nello splendido e angosciante racconto Sette piani (sempre Buzzati), di esser dimesso dalla clinica in cui è ricoverato e dove, invece, finirà i suoi giorni.

E poi l’attesa in Aspettando i barbari di Kavafis – magistrale la lettura poetica di Vittorio Gassman:

E ancora: il Thomas Mann della Montagna incantata e l’«abbi pietà di quanti aspettano» di Seferis; e poi l’«assenza, più acuta presenza» di Bertolucci e l’«imminenza di attesa» di Clemente Rebora; infine Alba di Giorgio Caproni, in cui l’attesa della donna amata e l’attesa della morte si fondono e si confondono.

Altri ce ne saranno, che mi sfuggono o che ignoro (non mi sfugge però Vasco Rossi, il quale – si parva licet – ha affrontato anche lui il tema: Sballi ravvicinati del terzo tipo si chiama la canzone, e non è da buttar via).

Durante l’attesa non accade nulla, nulla di realmente significativo; la narrazione sembra girare a vuoto e il tempo ristagnare. Ché il tempo non è sempre lo stesso, ce lo insegnano i Greci che avevano quattro parole per definirlo.

E dunque teatro, narrativa, poesia (e canzone): ce n’è abbastanza per collocare l’attesa fra i grandi temi della letteratura di ieri, e per considerarne Baudelaire un precursore.

Alfredo Dell’Era

L’OMBRA DELLA PAROLA

Esiste un gesto che le nostre mani hanno disimparato col tempo, un gesto che sin da piccoli ci è venuto spontaneo fare. Prima della parola quando ancora non sapevamo parlare, prima del disegno quando ancora non sapevamo disegnare le nostre mani sapevano cancellare.

Matita o pennarello in mano, una linea dritta, una storta, uno scarabocchio, ripetuto e ripassato su sé stesso più e più volte su un foglio o su una carta stampata, con la volontà e il piacere di lasciare un segno, vederne il risultato, modificare l’esistente, interagire.

La cancellatura è come la lallazione che prepara il linguaggio del bambino, è il suono della natura come archetipo della musica. È come lo zero in matematica, senza il quale la progressione dei numeri non sarebbe possibile così come non sarebbe possibile operare una distinzione tra un’assenza (numeri negativi) e una presenza (numeri positivi).

Chi non l’ha disimparata, anzi l’ha recuperata fino a farne il proprio segno distintivo, la propria firma, è Emilio Isgrò, poeta e artista siciliano, milanese di adozione.

Isgrò nella sua instancabile produzione artistica cancella ormai da oltre 50 anni. Tra le sue cancellature più conosciute troviamo ben 15 volumi dell’Enciclopedia Treccani, una copia dei Promessi Sposi, i Codici Civile e Penale, la Costituzione italiana, alcune partiture di Bach e Chopin, le mappe geografiche, il ritratto del Manzoni di Hayez e persino la Bibbia e la Torah.

La Costituzione cancellata, 2010 – Emilio Isgrò

Ma cosa si nasconde dietro questo gesto apparentemente semplice eppure così dirompente e deliberatamente provocatorio?

Innanzitutto obbligare l’osservatore ad una riflessione, a un ripensamento critico del proprio rapporto con i maggiori riferimenti culturali, sociali e spirituali che hanno costruito la nostra società per come oggi la conosciamo e che hanno quindi inciso, più o meno profondamente, nella vita di ognuno di noi.

Di fronte alla Costituzione che viene cancellata non si può non provare fastidio.  Ma cosa è stato cancellato su quella pagina che ora mi trovo di fronte? Cosa c’era scritto dietro quella cancellatura nera che copre perfettamente lo spazio della parola? Siamo sicuri di conoscere quello che era il contenuto originale del Testo e che ora non si riesce più a leggere? Molto probabilmente no a meno di una qualche diafana reminiscenza scolastica. E allora perché proviamo fastidio?

Di fronte alla Bibbia che viene cancellata – e ora parlo da cristiano – viene da inorridire. Un Testo Sacro cancellato è un gesto odioso. Ma anche qui la domanda è la stessa: cosa c’era scritto sulle pagine di questo Testo Sacro che ora è stato cancellato?

Sono sicuro che questa domanda metterebbe in imbarazzo molti cristiani praticanti, anzi moltissimi compreso il sottoscritto. Eppure è un Testo che molti di noi hanno a casa, messo a riposo in qualche scaffale della libreria, con le pagine intatte e ingiallite dal tempo. Eppure è un Testo che parla alle nostre orecchie da anni, da decenni, messa dopo messa, ma che le nostre orecchie, come le mura delle chiese, non ascoltano.

Quale che sia il Testo cancellato da Isgrò la domanda che converge è sempre la stessa: posso mai indignarmi per la cancellatura di un qualcosa che conosco poco o che addirittura non conosco per nulla?

Ecco che allora la cancellatura comincia a rivelare la sua funzione principale che è quella di scuoterci, prenderci a schiaffi per svegliarci da un torpore pericoloso che non ci fa vedere ciò che già è, ciò che già è stato, mentre magari siamo intenti a cercare quelle stesse cose altrove.

Paradossalmente allora, il nascondimento della parola lavora come una leva potentissima in grado di motivarci per andare a vedere finalmente cosa si nasconde dietro.  

Ed è proprio in questi termini che ne parla Isgrò:

“è un nascondimento che custodisce e protegge, disvela il suo significato e ne conferisce di nuovi alla parola cancellata. Non ha nulla di nichilista.”

Non distruzione quindi ma conservazione della parola, proprio come fa la stratificazione del terreno che conserva intatti per secoli i reperti archeologici lasciando che riemergano, in tutto il loro splendore, solo nelle mani di chi li sa cercare.

Non eliminazione ma diffusione della parola, affidata agli sciami di api nella Torah e ai cumuli di formiche nella Costituzione, entrambe metafore di operosità e fecondità di scambi, condizioni fondamentali per trasformare la parola scritta in significato di vita.

Le api della Torah – Acrylic on wood – 2001

Non gesto banale, perché la cancellatura di Isgrò non è mai indiscriminata. Alcune parole infatti vengono salvate, lasciate sole, intatte tra le tante cancellature. E succede che proprio queste parole salvate vadano a dare ulteriore significato al contenuto della pagina cancellata, un’ulteriore e più alta riflessione che viene dopo la conoscenza del testo cancellato, una vera e propria ridefinizione di senso.

È questo il caso della pagina della conversione dell’Innominato nei Promessi Sposi in cui Isgrò cancella tutto eccetto le parole “Dio” e “Io” proprio a voler sottolineare l’intimità del processo di conversione che si consuma nella notte dell’Innominato.

O ancora nell’opera della “Cancellazione del debito pubblico” l’artista prende un giornale finanziario dalle cui pagine lascia emergere solo una raffica di zeri, tutto il resto viene cancellato. Anche qui il messaggio è chiaro: al di là di tutte le teorie economiche che possono campeggiare su un giornale di settore che cercano di spiegare il perché e il per come il debito pubblico ogni anno sale, l’unica cosa che conta è, appunto, riuscire ad azzerare il debito – senza se e senza ma – come atto di responsabilità nei confronti delle future generazioni.

Ma se, com’è vero, l’arte non è fatta per dare delle risposte ma per porre dubbi, al di là di tutte le interpretazioni e spiegazioni provenienti dai critici dell’arte e dallo stesso Autore, ho lasciato che queste opere parlassero e interrogassero anche me.

Allora ho letto nella cancellatura di Isgrò come un percorso a ritroso che muove dalla parola per arrivare al pensiero che l’ha generata, e che la parola, con la sua concretezza, ha concentrato. Perché il pensiero è complesso per definizione e la ricerca della parola giusta per esprimerlo è inevitabilmente un prodotto di approssimazione e di riduzione.

Una volta intuito il pensiero generatore allora basterà l’ombra della parola a rievocarlo. Cos’altro può essere l’ingombro nero della cancellatura se non proprio l’ombra della parola?

Allora sì che questa successione di segni neri su una pagina di un libro diventa poesia visiva, com’è stata in effetti da molti definita. Una poesia che non parla, che non si legge, ma una poesia che si pensa.

Trento Vacca

PARLO, DUNQUE SONO

Vera Gheno

Le parole che usiamo modificano la percezione delle cose” afferma Vera Gheno, socio-linguista, come lei stessa ama dirsi, perché la parola dice di noi, ci definisce e definisce il nostro mondo. Quanto conta oggi scegliere le parole giuste per definire le cose? Quanto conta saper trovare in una relazione la parola precisa che sappia dire in modo puntuale quello che davvero intendo dire?

La scrittura è il luogo privilegiato della parola e molti scrittori ribadiscono che la ricerca della parola giusta sia essenziale per dar vita alla storia, in questo ricordiamo Flaubert che aveva un’idea precisa sullo stile: “le mot juste”, la parola giusta, ovvero l’unica che riesce ad esprimere compiutamente l’idea. Anche Raymond Carver, narratore americano, ribadisce nel suo saggio “Il mestiere di scrivere” la necessità di scegliere le parole perché in una storia, scritta o detta che sia, “le parole sono tutto quello che abbiamo, perciò è meglio che siano quelle giuste, in modo che possano dire quello che devono dire nel modo migliore”.

Noi veniamo al mondo quando riceviamo la parola, per cui gli altri ci riconoscono e noi esistiamo per quel soffio di voce che abbiamo ricevuto. Da questo momento, dunque, compiamo due atti con la parola: un atto di identità individuale, che serve a darci un’etichetta, serve a dirci chi siamo, ed un atto di identità collettivo, ovvero un processo in cui il singolo si riconosce nel gruppo con cui condivide gli stessi linguaggi e le stesse parole.

Vera Gheno dice a questo proposito che “la lingua, se da una parte crea coesione, dall’altra separa” crea distanza, nel momento in cui ognuno resta nel proprio mondo definito e definitivo senza provare a costruire un ponte linguistico con l’altro, senza costruire una relazione.

“Professoressa, l’abbiamo integrata.” Mi ha risposto una ragazza quando le ho fatto notare che il suo modo di scherzare non era rispettoso della compagna. “Integrare” mi ha detto ed io le ho risposto che non mi piaceva quella parola, ma poi pensandoci bene, devo esser stata troppo rigida e invece avrei dovuto dirle che apprezzavo lo sforzo che stavano compiendo perché la loro compagna si sentisse parte del gruppo, ma bisognava aggiustare qualcosa, bisognava aggiustare le parole.

Noi partiamo sempre dalla posizione dei normali, quando parliamo di diversità, di disabilità, i normali sono anche i nominanti, dice Vera Gheno, nominano il mondo, gli danno fattezza, stanno da una parte e stabiliscono chi è diverso e chi non lo è.  I normali non hanno etichette, i diversi sono, invece, prigionieri di quelle etichette, schiacciati dal giudizio.

Fabrizio Acanfora afferma che “quando usiamo le caratteristiche fisiche o cognitive di una persona per offendere, lo facciamo coscientemente”, allo stesso modo, se usiamo l’orientamento sessuale di alcune persone come insulto, sappiamo che quelle parole sono dette per ferire, ne riconosciamo il potere. Allora come adulti, nel nostro ruolo educante, dovremmo adoperarci per usare una lingua che sia slegata dalle definizioni univoche, dovremmo imparare a parlare una lingua aperta, perché più parole conosciamo, più possiamo trovare la parola giusta per dischiudere la relazione con l’altro perché questo ci permette di pronunciare la parola esatta per definire quella cosa, quella situazione. Concepire la lingua come una dimensione aperta intrecciata alla realtà, consente di cogliere le infinite sfumature che il mondo-altro mi offre, facendomi presente i limiti del mio.

Mariatina Alò


L’ANTIPEDAGOGIA E LA FORMAZIONE DELLA PERSONA

Francesco De Bartolomeis

Erano gli anni ‘80 iniziavo a studiare Pedagogia all’Università e a frequentare l’MCE (Movimento di Cooperazione Educativa). Grazie all’indimenticabile professor Russillo, tra gli altri scopro un certo Francesco De Bartolomeis. Mi incuriosisce, per l’accento che pone sulla necessità di passare da un “sistema educativo“ ad uno “ formativo”. Inizio a leggere i suoi testi. Vinco il concorso nella scuola. Inizio ad applicare le sue esperienze di pensiero nella mia realtà lavorativa e a viverle attraverso la già avviata “ricerca “personale con gli amici dell’MCE. Incomincio a nutrirmi di quell’avanguardia antipedagogica che mi piace e che solo ora la scuola diffusa incomincia a comprendere: don Milani, Bruno Tamagnini, Celestin Freinet, Margherita Zoebeli, Nora Giacobini…Francesco De Bartolomeis. Tutti portatori sani di innovazione “Noi ci trovavamo per ragioni pedagogiche, ma quello che era importante era un modo di vivere, di stare insieme”. In quel “noi” ci sono persone che hanno fatto la storia della pedagogia in Italia. È per questo che oggi voglio parlare proprio di uno di loro, un decano dei pedagogisti italiani: il 105enne De Bartolomeis.

Nato nel 1918, mentre finiva la Prima guerra mondiale, aveva 21 anni quando scoppiava la seconda. A 26 pubblica, per intercessione di Benedetto Croce, il suo primo saggio” Idealismo e esistenzialismo”.  

La sua, secondo me, è la storia della migliore classe intellettuale che l’Italia abbia mai avuto. Quella che, negli anni dell’immediato dopoguerra, s’inventa una cultura democratica per una società che ancora oggi non esiste. In contatto con il neonato Cemea, con Margherita Zoebeli e il suo meraviglioso “Asilo svizzero” a Rimini, con Piero Calamandrei e “ Il Ponte”, con il gruppo di Ernesto e Tristano Codignola a Firenze e il progetto Scuola- città’ di Pestalozzi, con quello che sarebbe stato il Movimento di Cooperazione Educativa che, all’epoca, aveva la sua ragion d’essere tra Rimini e Fano, De Bartolomeis traduce i capisaldi del pensiero pedagogico anglofono e francofono: John Dewey, Roger Cousinet, Jean-Ovide Decroly, Celestin Freinet… Gli autori che, grazie al prof. Russillo e all’MCE, avevo scoperto essere gli amici di ricerca antipedagogica del De Bartolomeis!

La caratteristica principale di questo gruppo di militanti giovani e radicali, che immaginavano una diversa politica dell’educazione per poter passare dal fascismo alla democrazia, era la trasversalità: nei progetti, nelle assemblee, si riunivano maestri della scuola d’infanzia insieme a professori universitari, cattolici e comunisti, uomini e donne. Era movimento di idee e di azione e chi ci entrava non riusciva ad uscirne più!

Questi pionieri delle avanguardie educative, oggi fortemente supportate dallo stesso Ministero, rivendicavano, a pieno titolo, già dal secolo scorso, un’antipedagogia’ capace di convogliare nella scuola le risorse culturali e sociali più avanzate, le metodologie, adatte ad affrontare in modo efficace problemi rilevanti, nei vari settori del sapere e nelle varie situazioni reali. La metodologia della ricerca viene presentata dal De Bartolomeis e dai suoi amici con argomentazioni rigorose e, insieme, accessibili in tutti i suoi aspetti. Largo spazio viene dedicato alla ricerca di gruppo, come forte mezzo di incentivazione dei processi di apprendimento e di produzione, ma, anche, propulsore di energie creative.

“La ricerca, qualora resti chiusa in una concezione e in una pratica puramente didattiche, che non tengano conto né del contesto istituzionale della scuola né delle forze che agiscono nella società, è incapace di modificare nella sostanza i metodi tradizionali di insegnamento e di apprendimento.” Sostiene il Nostro.

Alla domanda, fattagli da un giornalista, tempo fa, per conoscere su quali libri si fosse formato, il ricercatore rispondeva “Io non mi formavo su niente, tranne che sull’esperienza”.

E alla domanda chi fossero stati i suoi “maestri’, precisava “Non sono stato discepolo di nessuno. Mentre tutti cercavano di avere un padre, io non volevo il padre per niente. Certo leggevo tanto, non i pedagogisti perlopiù, ma Freud, Marx, Lévi-Strauss, gli Annales, Henry Pack Sullivan…”

Grazie alla sua elaborazione teorica la pedagogia acquista autonomia nell’ambito delle scienze sociali e dell’accademia. Nel 1953 pubblica “La pedagogia come scienza”, edito da La Nuova Italia, la quale, più che una semplice casa editrice, costituiva un vero e proprio centro irradiante di pensiero democratico. Per essa, De Bartolomeis lavorerà come curatore, traduttore, consulente. I suoi libri diventano colonne portanti della bibliografia della formazione.

La grandezza della sua impostazione è l’aver compreso che le politiche sulla formazione e sull’educazione non potevano restare confinate alla scuola e all’università, ma avevano a che fare con la società tutta. “Occorreva passare dal sistema educativo a quello formativo. La scuola è una cosa che sta dentro il sistema formativo”.  Il bello dei pensatori di quegli anni è che ciò che viene proposto a parole è frutto di ricerca pedagogica sul campo dell’apprendimento/ insegnamento, nei contesti in cui poteva avvenire la formazione vera e propria.

“A causa delle caratteristiche del mio modo di praticare la pedagogia, – sosteneva De Bartolomeis- il coinvolgimento dei miei allievi non poteva limitarsi al livello scolastico. A me interessava che nella loro formazione entrassero i problemi del lavoro, sperimentati sul campo. Furono organizzati stage in cui gli studenti universitari incontravano tecnici intermedi e superiori in parallelo con la conoscenza delle particolarità dell’azienda in fatto di attrezzaggio, di produzione e di assistenza clienti. Incoraggiai uno studente a prendere come argomento di tesi di laurea la catena di montaggio. La novità: feci assumere il laureando per tre mesi affinché sperimentasse personalmente il lavoro alla catena di montaggio: non doveva limitarsi a osservare, a prendere annotazioni, a descrivere dall’esterno situazioni che premevano per un cambiamento radicale. “

Fu per questo che Olivetti lo invitò a collaborare da subito. Restò con lui per 15 anni. “La scuola era importante, ma per cambiare la scuola si doveva cambiare la società”.  Politico? No, mai. De Bartolomeis è un collaboratore indefesso di qualunque realtà viva di quella stagione, ufficialmente riconosciuta come stagione dell’attivismo: “Io non sono mai stato un affiliato, non sono mai stato un affiliato di niente”.

Favorì l’introduzione nella scuola di buone pratiche come il tempo pieno (quello vero!) e i laboratori, (quelli che non hanno bisogno dell’etichetta fuori della porta, ma che prendono vita nella pratica quotidiana!).

Dichiarava, senza paura di essere smentito “Anche oggi che non esiste la politica scolastica, esistono però dei presidi che magari si ingegnano, che si danno da fare. Sono meno che isole, certo, sono scogli. Ma possono avvantaggiarsi del fatto che la debolezza dei governanti consiste soprattutto nell’incapacità di impedire. –  aveva competenza da vendere per liquidare gli ultimi ministri dell’istruzione con un’alzata di spalle- Tanto, non esistendo la politica scolastica, puoi fare ministro un passante” …

La sua dimora? A Torino, in una casa non troppo grande vicino alla stazione.

La sua pista di decollo? Una piccola scrivania ricoperta di libri di storia dell’arte, un settore al quale si è dedicato fin dal dopoguerra.

Delle persone anziane come lui in genere si dice che siano lucide per fargli un complimento; ma De Bartolomeis è stato sempre molto più che lucido, fino alla fine, perfino da calcolare cosa sarebbe successo, nel momento della sua fine: aveva chiesto ai suoi amici più cari di dare l’annuncio della sua dipartita solo qualche giorno dopo l’evento luttuoso. Francesco De Bartolomeis, infatti è morto il 29 giugno 2023, a Torino, mentre la comunicazione ufficiale è stata data solo il 2 luglio 2023.

Un aneddoto che lo caratterizza. A chi gli poneva la domanda “Come ha fatto a vivere così a lungo? “Egli era solito rispondere “Per la smodatezza. Un’insoddisfazione continua per il presente, un desiderio inesausto di politica, la rivendicazione del potere della ricerca. La ricerca ti fa confrontare sul nuovo, l’ideologia ti fa sempre presumere il risultato”.

Mi sarebbe piaciuto intervistarlo.

Giusy Carminucci

DESTINI COMUNI DI DONNE COMUNI

Ada Negri, Le solitarie, Musicaos Editore, Lecce, 2016 (prima pubblicazione 1917)

Entrano silenziose, gesti scarni, corpi sfatti da travagli dell’anima, nel pieno delle forze o al loro stesso limite, attaccate al filo di stanchi destini, speranzose per pura invenzione dello sguardo, appese ad uteri sbrindellati dal disordine di vite troppo in fretta consumate. Compaiono, attorcigliate in ricordi fissi e incolumi come chiodi che punteggiano un tempo che non conosce il presente ma, solo, un eterno andare identico a sé stesso.

Feliciana, Raimonda, Anin, Liana, Fresia, Rosanna, Antonella, Cristiana, Maria Chiara, Franceschetta, Marika, Clara, Caterina, Ilde, Gianna, Assunta, Veronetta; occhi fondi pronti a fissare l’immensamente ripetitivo di esistenze internate nell’angolo di una stanza, di un lavoro, di un matrimonio, di un’indecenza fatta Vita.

Donne, figurette magroline, colte come fotogrammi in epoche diverse della loro vita. Ritratti di gioventù, di infanzia, di vecchiaia accomunati da un senso di evanescenza talvolta sognante, talvolta crudele. Si susseguono mostrando il volto della beffa del destino.

Raimonda, metà volto deturpato da una caduta sulla brace del camino.

Fresia, ammantata nei silenzi di un’attesa tanto infinita da toglierle volontà.

Rosanna, colma di frasi spezzate sulle labbra, ignara del suo stesso corpo.

Cristiana, inchiodata nell’urlo del dolore d’un sangue caldo che le porta morte.

Assunta con la faccia giallo avorio e gli occhi consumati dal lavoro per i combattenti e il figliuolo morto in un ospedaluccio da campo.

… Ognuna uno spaccato di vita, di desideri non conosciuti. Di parole che non giungono alla soglia della consapevolezza. Di parole taciute da anni di sottomissioni a ruoli e convenzioni.

Si presentano cercando di vincere le oscurità e le altrui noncuranze: quelle noncuranze che solo loro sanno indossare mascherate da tragici sorrisi che utilizzano come scudo per farsi largo nell’invisibilizzazione donata, ad ogni angolo, da sguardi a cui loro chiedevano riconoscimento d’essere.

Al telaio, alla macchina da scrivere, alla macchina da cucire, in cucina, nella tintoria, maestrine di campagna, impiegate d’infimo rango, ricamatrici, prostitute: lavori servili vissuti come appendici di macchine nell’alienazione di un tempo e di movimenti ripetuti sino allo spasmo dell’insignificanza. Escluse dall’amore e avvolte in tragiche e mute rassegnazioni  che paiono divieti sanciti in un Olimpo di sarcastiche ragioni. Tra il loro corpo e la vicinanza maschile una turbolenza di filtri che aleggiano. La nebbia, la morte, l’adulterio, la sconfitta, l’abbandono, il dolore, l’attesa. Nulla che sappia di luce. Niente che dica di sogni realizzati. Tutte sfatte a bestia dal lavoro o da incroci che ne hanno interdetto qualsiasi possibilità di crescita. Nel buio di un ladrocinio prende forma un bacio rubato, forse l’unico di tutta una vita tagliata.

“…Maria Chiara indossava da più di due estati un meschino abito grigio a giacchetta, di così goffo taglio  che non riusciva a nascondere il difetto della spalla destra… Le scarpe di falso capretto andavano scalcagnandosi: il feltro nero a piccola tesa, sui capelli folti, ma già scoloriti alle tempie, mostrava la corda. Ella aveva l’aspetto disarmonico di chi voleva essere elegante e non può, l’aria penosa di chi vorrebbe essere elegante e non può, l’aria penosa di chi vorrebbe sorridere e non riesce che a fare una smorfia, per nascondere la stonatura dei denti guasti…”1

La loro identità e unicità si forgia nella miseria di gesti consunti, gesti che si paventano come gli unici possibili per ognuna di loro, gesti che annunciano la morte e loro muoiono dentro la morte paca, come fa Anin. Tutte evaporano stanziate in un dagherrotipo stinto che nega parola e movimento all’ombra di sé stesse.

Conoscono la morte interiore dopo lo stupro, l’invisibilità inconsistente del corpo, la vergogna di sé, lo scherno, la consunzione dettata dall’autopunizione di chi sa di non valere nulla, l’oblio, la speranza, la nausea, ripudiate, estranee, in fuga, stanche, mutamente stupite, visionarie, annoiate, smarrite, incredule, sognatrici, sradicate, devastate per amore, spupazzate da padri/mariti tronfi solo del loro essere maschi. E poi, le finte aristocratiche, risalite da svariati passati e schiacciate dalla menzogna della propria stessa esistenza. Afflosciate all’interno di un parlare scialbo che non raggiunge la soglia della narrazione ma resta nel dire distaccato, filtrato da una lontananza in cui si è andata consumando ogni ragione e ogni speranza.

“Il segaligno e fegatoso omuncolo non acconsentì, naturalmente, alle nozze della figlia, se non quando fu ben certo di metterla fra le mani di un genero fatto –salvo l’età e la florida persona- a sua immagine e somiglianza: un impiegato di prefettura, che cercava moglie perché, a conti fatti, una mogliettina sana ed attiva, buona cuoca sovra tutto (su questo punto era inesorabile) gli avrebbe reso miglior servizio d’una fantesca…”2

Donne rappresentate come cose tra le cose di uomini vincenti, arrivati, possessivi o uomini abbrutiti essi stessi da miserie e ignoranze antiche, uomini che agiscono possessi oltre ogni dire, possessi che rendono nulli i corpi femminili incontrati, corpi sottratti a sé stessi dalla noncuranza di uomini malamente convinti dei propri diritti sul femminile.

Libro nel libro sono le pagine in cui si dipana la vicenda di Veronetta, giunta ad aprire lo scrigno dei possibili attraverso la testardaggine del credere in sé. Veronetta vuole guadagnare attraverso la scrittura, precorre di poco una Virginia Woolf intenta a limitare lo spazio di una stanza da cui iniziare ad essere. Veronetta caparbia. Veronetta è l’unica che ritorna nella sua storia che dipana progetto di vita oltre l’angusto della povertà. Veronetta mostra il colpo duro dello stacco guadagnato nella pratica del rispetto di sé. Veronetta, la figlia della tessitrice che impara, nel gioco con le sorelle di famiglia borghese, il significato della differenza di classe e il morso del desiderio di volersi emancipare. Di un’emancipazione esistenziale, non politica. Veronetta viene tratteggiata nella umiliazione d’essere assimilata alla servitù nel momento in cui occorre imprimerle bene, sulla pelle della mente, quale sia il “suo posto” in società…

Veronetta è tutte le donne narrate nel testo de Le Solitarie. Veronetta le riscatta tutte perché ricompone realtà in movimento. Veronetta richiama molto, dal punto di vista della narrazione, la vicenda esistenziale di Sibilla Aleramo con quel suo “no” sempre pronto in punta di lingua dinanzi alle convenzioni sociali. La scrittura, in Veronetta ha ruolo di lama che, invece di tagliare, armonizza e monta corpo umano e simbolico.

La chiusa dei racconti presenta un tratto magico con la maga Tessiluna. E’ chiusa che  tradisce la difficoltà di dire un percorso di autodeterminazione senza conoscerne le parole pur essendo scrittrice dalle molteplici influenze letterarie, anche d’oltralpe. Ada Negri fece sue molte delle grandi lezioni di una contemporaneità nascente.

Un libro affascinante che non paga lo scotto del tempo ed è capace, ancora oggi, di dipanare tutta la propria attualità.

Meritevole l’editazione di Le Solitarie da parte della Casa Editrice Musicaos che, nel 2016, ne ha curato edizione. Un’opera sopravvissuta ad anni di invisibilizzazione perché forte nei contenuti, nelle descrizioni, nella capacità di aprire solco nell’universo femminile mostrandone verità e vita in un preciso periodo storico che ha molto da mostrarci, ancora oggi.

Anna Rita Merico


  1. ivi pg 65
  2. Ada Negri Le Solitarie, Musicaos ed. 2016, pg. 107

L’EREMITA IMPASTATA DI DIO

Adriana Zarri

Sono settimane che me lo chiedo: la poesia intesa come comunicazione, ha senso o no? Il suo “medium”, il mezzo attraverso il quale viaggia, è così impalpabile e fragile come solo la parola poetica può esserlo, eppure così formidabile. “Ho innalzato un monumento più friabile dell’arenaria” versificava Parronchi, facendo il contro-canto o meglio facendo   letteralmente “il verso” ad Orazio ed al suo “Ho innalzato un monumento più duraturo del marmo”. Ebbene, nonostante l’inconsistenza e l’impalpabilità del suo mezzo (la parola), nonostante l’indefettibile ambizione alla purezza, la poesia è una forma di comunicazione – così almeno ho concluso io, senza grande originalità e afferrando la coda di un treno la cui testa parte dagli anni 50-70 del 900 e da tutti i mostri sacri della semiotica attivi in quel periodo. Qualsiasi forma abbia – interlocuzione interiore che si regge sul filo esilissimo dell’autocoscienza simile più ad auto-intuizione che a vera e propria consapevolezza; oppure richiamo, anelito avverbiale ad un tu che diventa specchio e scandaglio; o ancora evocazione che si compie dentro un formulario orfico (o neo-orfico, fate voi); qualsiasi forma abbia – dicevo, la poesia non può non essere declinata se non sotto la specie di una particolare comunicazione.

All’interno di questa cornice comunicativa può essere collocata, per darne una valida traccia esegetica, l’esperienza poetica ed esistenziale davvero unica ed irripetibile di Adriana Zarri, teologa e suora laica che non solo parlava con Dio, ma che nel silenzio dei suoi eremi materiati di lavoro e silenzio, solerzia pragmatica e spiritualità teologica, gli scriveva. Ed il suo – “Tu”, quasi preghiere – edito da Lindau (2021) è una raccolta dove non ci sono “quasi poesie” ma soltanto vere poesie. Francesco Occhetto, che ha curato l’introduzione dell’opera, sottolinea come “in essa l’autrice esprime – con versi sensuali e dolci, violenti e teneri al contempo – i temi salienti della sua irregolare e sorprendente spiritualità” ed in proposito enuclea alcuni elementi, primo tra i quali il carattere “gratuito e creativo della preghiera”, come questi versi esemplificano:

Dona a ciascuno la sua parte

al prato l’erba

al fosso la primula,

al cipresso la bacca

all’estate i covoni

all’inverno la neve

al focolare il fuoco

ad ogni muro la sua lucertola

ad ogni tegola il suo muschio

ad ogni vicolo il suo gatto

ad ogni gatto il suo gomitolo

ad ogni attesa il suo ritorno

ad ogni uomo la sua donna

ad ogni morto la tua vita.

Il dialogo con Dio è colloquiale senza essere banale e si sostanzia della quotidiana materia del vivere, di una pienezza terrena mai completa perché alla continua ricerca del suo naturale compimento, che per un credente è in Dio. In tal senso, la tensione poetica della Zarri parrebbe tutta lirica, se per lirica intendessimo nei termini che Croce fissò nel suo saggio –Poesia e non poesia– “molteplicità che si raccoglie in unità, mondo esterno che si ritrova come mondo interno”. Tuttavia il percorso di incontro con il divino non è una semplice ricerca dei motivi di accordo che fanno risuonare all’unisono il respiro dell’io poetico con quello dell’universo, apparendo piuttosto come una strada piena di tensione spirituale in chiave religiosa e restituendo al lettore il tratto qualificante dell’esperienza dell’autrice. Quell’io infatti, in Zarri è non sono poetico ma anche convintamente mistico e trae la sua forza – creatrice sul piano poetico e speculativa su quello teologico, dalla convinta adesione al cenobitismo: è una parola che sgorga dal silenzio e dalla solitudine ed anche per questo riecheggia così nitidamente dentro di me.

A proposito di solitudine, la Zarri tiene molto a distinguerla dall’isolamento. In – Un eremo non è un guscio di lumaca- Einaudi 2011, l’autrice precisa:

«Qualcuno dice che mi sono “ritirata” in un eremo; e io puntualmente reagisco. Un eremo non è un guscio di lumaca, e io non mi ci sono rinchiusa; ho solo scelto di vivere la fraternità in solitudine. E lo preciso puntigliosamente per rispondere all’obiezione che concepisce questa solitudine come un tagliarsi fuori dal contesto comunitario. E invece no. L’isolamento è un tagliarsi fuori ma la solitudine è un vivere dentro […] la solitudine non è una fuga: è un incontro, così come il silenzio è un continuo, ininterrotto dialogo».

Nella solitudine non isolata dell’eremo la dimensione assoluta dell’incontro assume i connotati cosmici dell’esperienza mistica. Se infatti l’isolamento conduce ad un distacco dal mondo che può portare chi lo sperimenta ad un suo ostile rifiuto, la solitudine dell’eremo si fa spinta al confine o “vocazione della soglia” secondo la felice definizione di valentina Fiume, studiosa di alcune figure femminili del misticismo trasversale, tra cui la stessa Zarri.  La vita cenobitica è tutta una predisposizione, una trepidante attesa, dell’incontro con l’Altro nel luogo più intimo che si possa immaginare, ovvero l’interiorità del mistico, un luogo talmente purificato che vi si può riflettere l’intero creato. L’incontro intimo per antonomasia è quello amoroso e così la poetessa dà appuntamento all’amato Dio:

Aspettami sui prati

dietro alle siepi,

nei fienili vuoti

dove non c’è nessuno

che possa ridere di noi.

Aspettami nelle strade più remote,

sull’ultimo ciglio del giorno,

nel concavo buio della notte;

quando la gente è rincasata

e ha chiuso tutte le finestre.

Della silloge di Zarri mi ha colpito più di ogni altra cosa la forza erotica di alcune poesie, che è figlia dell’originalità eretica della sua concezione teologica. Permeata di un genuino fervore riformatore post-conciliare, la teologa arriva perfino a difendere, pur senza condividerla, la libera scelta di abortire della donna e lo fa argomentando che nelle sacre scritture non viene formulato alcun tipo di specifico divieto in proposito. In un’intervista concessa ad Enzo Biagi e reperibile sulle piattaforme digitali, afferma che “la sessualità è un valore che investe tutto l’uomo e al di là dei rapporti genitali, portatrice di grandi valori metafisici che passano attraverso la sessualità”, si dichiara “innamorata della sessualità perché è un amore in cui i valori fisici ed intellettuali si impastano e non possono essere puramente concettuali o puramente fisici”. E finisce per circoscrivere la verginità, definita un carisma, un “amore per l’amore”, chiarendo come la frigidità o la frustrazione sessuale di alcune religiose nulla abbiano a che vedere con questo carisma.

Il frutto più maturo di questa originale e sovversiva concezione del misticismo laico è la bellissima poesia “Dammi solo una rosa”, dopo la quale, com’è ovvio, per quanto mi riguarda non c’è più niente da aggiungere se non un infinito e profondo senso di gratitudine per quel che l’eremita impastata di Dio ha saputo donarci.  

DAMMI SOLO UNA ROSA

Dio senza nome

(e noi ti abbiamo nominato)

Dio senza volto

(e ti abbiamo dipinto)

Dio senza voce

(e ti abbiam fatto dire tante cose)

non dirmi nulla:

china soltanto gli occhi

come quando guardasti

Maria Maddalena;

e la sua carne

rifiorì di biancospino.

Dio parola

(e il tuo Verbo è il silenzio),

Dio silenzio

(e il tuo silenzio è la Parola),

non dirmi nulla;

dammi solo una rosa che si sfoglia,

e le albe pallide,

e i biancospini amari.

Dio senza tempo

(e ti abbiam fatto un calendario)

Dio senza luogo

(e ti abbiam fatto tante chiese)

dammi solo una rosa;

e si apriranno tutti i cieli,

e le stelle cadranno,

nelle mie mani,

come manciate di fiordalisi.

Dio senza mani

dammi solo una rosa.

La bacerò sui petali

come se fosse la tua bocca.

Dio senza bocca.

Gianpiero Berardi

L’INCONTRO CON IL DESERTO

È da un periodo di deserto in cui ho dovuto affrontare la mia solitudine, che ho avviato un viaggio verso le regioni della mia interiorità. Inizialmente in modo forzato, poi convertita in discernimento, ho apprezzato la bellezza del deserto, da tempo ricacciata negli abissi del dimenticatoio.

Così, ho riattivato mappe di territori, capaci di far trovare l’orientamento, per costruire reti di geografie emozionali non più e non solo come viandanti o viaggiatori del sé.

…e ho lasciato che prendesse forma, nella Collana Nuvole, della Casa editrice L’Idea, un itinerario cartaceo per il quale ho provato la forza della scala, in un deserto che conduce ad elevare il proprio sé verso il divino, verso il metafisico.

Per farmi aiutare in questo cammino di resilienza, sono anche andata a rispolverare due grandi opere che, del deserto fanno la propria ragione di vita” Il piccolo Principe”, di Antoine de Saint- Exupéry, e “I tuoi deserti fioriranno”, di Frère Roger, di Taizé. Due, dei molteplici libri cult della mia crescita interiore.

“Mi è sempre piaciuto il deserto. Ci si siede su una duna di sabbia. Non si vede nulla. Non si sente nulla. E tuttavia qualche cosa risplende in silenzio…”

(Antoine de Saint-Exupéry, Il Piccolo Principe, XXIV)

È in una lettera indirizzata a sua madre che Antoine de Saint- Exupéry descriveva le impressioni e le emozioni di quel tempo sospeso, in un luogo lontano da tutto: nel deserto… “Si è in contatto con il vento, con le stelle, con la notte, con la sabbia, con il mare. Si aspetta l’alba come il giardiniere aspetta la primavera… Non rimpiango niente”. Nella solitudine di Cap Juby gli fa compagnia un piccolo fennec, la classica volpe del deserto, che il giovane aviatore riesce ad addomesticare e che diverrà un personaggio chiave del Piccolo Principe, simbolo e testimone del valore dell’amicizia.

Il deserto diventa, quindi, la metafora della preziosità della presenza amica: di chi ha la forza di esserci, sempre e comunque; di comparire al nostro fianco con discrezione, quando in noi c’è il buio… il vuoto… la disperazione… il dubbio, insorti, come piaga nella pelle del cuore, dopo un dolore, una separazione, un lutto, una crisi, una sofferenza…

“Così ho trascorso la mia vita solo, senza nessuno con cui poter parlare, fino a sei anni fa, quando ebbi un incidente col mio aeroplano, nel deserto del Sahara… Era una questione di vita o di morte, perché avevo acqua da bere, soltanto per una settimana. La prima notte, dormii sulla sabbia, a mille miglia da qualsiasi abitazione umana. Ero più isolato di un marinaio abbandonato in mezzo all’oceano, su una zattera, dopo un naufragio.” (Antoine de Saint-Exupéry, Il Piccolo Principe, II).

Nel deserto, la presenza umana si rivela inconsistente, effimera e ingannevole come l’ombra di una carovana che passa sulla cresta di una duna, e, al tempo stesso, suscita un senso di inquietudine al suo improvviso apparire nella solitudine immensa. Il deserto non nasce, necessariamente, dopo aver ottenuto ad ogni costo un silenzio interiore, suscitando in sé come un vuoto, facendo tacere immaginazione e riflessioni. Il deserto è uno sguardo interiore di pace, in cui- come suggerisce Frère Roger, di Taizé- si accende un fuoco che non si spegne mai. “Se la fiducia del cuore fosse all’inizio di tutto…Di colpo diventeresti un fermento di fiducia e di pace fino nei deserti della comunità umana, là dove ella si lacera.”

Il vero deserto è un’esperienza unica e indimenticabile.

Quando siamo in una situazione di deserto, il paesaggio appare continuamente diverso e uguale allo stesso tempo, in un sovrapporsi di immagini che tendono a confondersi e a disorientare; mentre gli unici punti di riferimento sono rappresentati dalle rare oasi, sperdute nel mare di sabbia, e dalla linea di costa, dove il deserto finisce nell’oceano e dove, spesso, l’incontro fra la sabbia rovente e le fredde onde crea fitti banchi di nebbia. Simili ai momenti di privazione emotivo-affettiva che ci autoinfliggiamo nei momenti di ritorno in noi stessi.

Anche se scelto da noi come ambiente d’intensa spiritualità e di rivelazione, il deserto, spesso, ci fa sentire infinitamente soli. Eppure… se lasciamo che Dio parli al nostro cuore, nel silenzio e nell’apparente vuoto di questo non-luogo, vedremo elevarsi una scala, capace di distaccarci dal territorio emozionale della solitudine e il deserto porterà i suoi frutti anche nella nostra vita.

Perché ogni deserto ha il segreto di una scala e di un pozzo.

La bellezza del pozzo nel deserto è credere che “I tuoi deserti fioriranno “, come affermava Frère Roger, fondatore di Taizé, grande conoscitore dei deserti del mondo contemporaneo: deserti materiali o spirituali, deserti dell’indigenza o del dubbio, dello scoraggiamento o d’un avvenire senza sbocchi…

Vivere nel e del deserto porta a comprendere che una delle caratteristiche insostituibili del Vangelo è che invita l’essere umano a dar fiducia ad un Vivente: Gesù, il Cristo, Egli è uscito dalla tomba ed è Vivente in mezzo a noi, per indicarci come riappropriarci dell’essenziale, partendo dal cuore. Perché, come dice anche la Volpe al Piccolo Principe “Ecco il mio segreto. È molto semplice: non si vede bene che con il cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi…”

Nel deserto si può fare esperienza dell’essenziale della propria identità personale; in quanto la persona- diceva Duns Scoto- è l’ultima solitudine dell’essere. L’acqua del pozzo aiuta a continuare a vivere: è fonte di chiara consapevolezza, Parola per l’anima e valido aiuto a praticare la custodia del cuore.

(“Allineamento sul deserto di Atacama” Foto di Javier Ramos)

Le illusorie visioni, create dai miraggi; la percezione delle distanze, falsata dall’aria priva di umidità che cancella l’effetto atmosferico della lontananza; il disorientamento prodotto dalle tempeste di sabbia, formano il contesto in cui lo spessore della vita riprende forma…e colori…e profumi…e sapori…ed emozioni, andando a costituire nuove realtà dell’identità.

È, dunque, rientrando in sé, cercando ristoro al pozzo della propria anima che ciascuno di noi ha la possibilità di abitare territori e costruire paesaggi di nuove ed esplorabili Geografie Emozionali.

Giusy Carminucci

LA POESIA È LA CURA

Grotta di “Sa Nurre de su Hoda”, a Oliena, Sardegna

Ho scoperto che esiste al mondo un modo di curarsi con la parola, ma non quella usuale, come molti di voi potranno immaginare.

Aldo Carotenuto, nell’introduzione al libro “Manuale di arte terapia poetica” di Giuseppe Bartalotta, avvicina la poesia alla psicoanalisi, affermando che esse hanno delle linee comuni, così come lo stesso Freud ha più volte dichiarato, la capacità del poeta e degli artisti, in generale, di trascendere la realtà ed attraversare i territori dell’anima. La psicoanalisi ha molto a che fare con la poesia e con la sua capacità di introspezione, azione capace di generare un ripiegamento su sé stessi, permettendoci di conoscere quelle parti che ci compongono, ma ci sfuggono, tutte le voci che ci abitano, anche in silenzio.

La poesia terapia è, dunque, una pratica di cura, contemplata tra le Arti terapie, in grado di riattivare vissuti dimenticati, che, tuttavia, continuano, in qualche modo a determinarci perché rimasti inascoltati.

L’arteterapia è in grado di generare strumenti per l’energia psichica al fine di formare simboli in varie produzioni, dice Jung, in grado di attivare la comunicazione tra l’inconscio e il conscio. La parola poetica è simbolo per eccellenza, dunque, il verso ha la capacità di far emergere ricordi e vissuti, ma anche emozioni e sofferenze legate a traumi passati. Il verso ha la potenza evocativa in grado di liberare forze nascoste e indagare l’animo, aiutarci a fare luce nelle nostre stanze buie. Allora, come nella terapia psicoanalitica, si compie un viaggio nell’animo umano e con l’uso delle parole poetiche si parla all’uomo nella sua totalità, raggiungendo ogni strato del suo essere, quello cognitivo e quello emotivo, risvegliando qualcosa di sopito o di ancora sconosciuto.

Giuseppe Bartalotta, psicoterapeuta analista del Centro italiano di Psicologia analitica e dell’International Association of Analitical Psychology C. G. Jung di Zurigo, arte terapeuta, prima della sua morte nel 2001 stava lavorando a quello che fu, in seguito, pubblicato come il primo Manuale di arte terapia poetica in Italia. A curare il volume postumo, con prefazione di Aldo Carotenuto, come anzidetto,  furono la figlia Angela Maria Bartalotta ed alcuni componenti del gruppo di ricerca da lui guidato a Roma. Il manuale, di un centinaio di pagine, anche se rimasto incompiuto e composto di appunti di lavoro di Bartalotta, presenta metodologie e pratiche di uso della poesia nella terapia e nella relazione di cura, ponendo Bartalotta tra i pionieri italiani della  poesiaterapia. Egli dà alcune indicazioni su come usare la poesia nella terapia e come strumento di cura nelle relazioni d’aiuto e nelle pratiche di gruppo, perché la poesia terapia è, come lui stesso afferma, una “vera e propria psicoterapia di gruppo”.

Si potrà scegliere di leggere un un solo poeta, seguendone la storia e la sua crescita come uomo e come autore; così come si potranno scegliere differenti poeti legati da un filo conduttore, per accompagnare il percorso di crescita dell’individuo e del gruppo.

La poesia viene letta ad alta voce, soffermandosi prima sul testo e sul suono delle parole, lasciando che queste scorrano e attivino un vissuto, portando a galla le emozioni ad esso legate. Durante il lavoro è possibile che i partecipanti producano poesie, queste conterranno elementi utili alla lettura del processo personale e di gruppo.

La poesia diviene il mediatore per eccellenza che permette all’inconscio di esprimersi attraverso l’uso di simboli, immagini, fantasie per portare poi, piano, ad un livello di comunicazione tra la nostra parte razionale e quella irrazionale, ognuno potrà stare nel flusso e raccontarsi e raccontare, per ri-conoscersi e ri-significarsi. Anna Achmatova è una delle poete scelte da Bartalotta in alcuni lavori con i gruppi di poesia terapia, accompagnando la lettura delle sue poesie alla luce della sua biografia e dei momenti cruciali della sua vita.

“Domani sarà un mattino
di serenità.
La vita è splendida,
sii saggio, cuore.

Sei così stanco,
rallenta, batti piano…
Pensa, ho letto
che l’anima è immortale.”

Quanto il nostro cuore è vicino a quello della Achmatova?

La poesia terapia è un sollievo per il cuore, una cura per l’anima ferita, una possibilità di crescita e di liberazione.

Mariatina Alò

MARIE CARDINAL: LE PAROLE PER DIRLO

 Dagli anni ’70 dello scorso secolo e per i decenni ’80 e ’90 si è avuta, in Italia, una ricca produzione di pensiero intorno al tema della differenza sessuale. Momento centrale la pubblicazione di Speculum testo scritto da Luce Irigaray nel 1974, pubblicato in Italia da Feltrinelli con introduzione di Luisa Muraro che pubblicherà, in seguito, l’Ordine simbolico della madre edito da Editori Riuniti. Queste pubblicazioni attivano pratiche di lavoro intellettuale e politico che hanno consentito forti avanzamenti di consapevolezza all’interno del patrimonio culturale lasciato nel corso dell’intero ‘900 da scrittrici e artiste ancora oggi non del tutto conosciute. Il lavoro di produzione teorica e pratica fondato in quei decenni è stato in forte relazione con quanto accadeva, nello stesso settore, sia in altri paesi europei che in America del Nord.

In letteratura molti i passaggi significativi. Centrale la figura di una grande intellettuale francese: Marie Cardinal (1929 – 2001). Esce in Italia, edito da Bompiani, nel 1988, Le parole per dirlo. Un romanzo di cui dovremmo continuare/tornare a parlare. 

Una figlia non voluta ricostruisce la propria storia forando i pensieri e i desideri di una donna bigotta a cui rinfaccia la “carognata”: è sua madre che ha tentato in più modi l’interruzione di gravidanza ma ne è stata impedita dalle proprie credenze religiose. Non avendo potuto portare a termine il proprio progetto, la madre ha trasmesso sentimenti negativi nei confronti della figlia lasciandole rasentare la follia. Sul e dal bordo della follia si apre il romanzo che inizia con la narrazione di una giovane donna la quale scava in sé, nella bambina che è stata, il senso e i segni del rifiuto materno. Le pagine del romanzo scorrono dense mostrando pieghe mai, sino ad allora, così magistralmente esplorate dell’animo femminile.

È un romanzo autobiografico il cui tratto fondamentale è una maestria unica nel saper narrare il dolore e le modalità attraverso cui, esso, può piegare e piagare una donna. La protagonista rende conto di anni e anni di percorso analitico, anni in cui si riappropria della scrittura la quale diviene elemento centrale della propria rinascita. La donna inizialmente piegata, commiserata, ormai nullità di sé diventerà una donna libera e coraggiosa capace di lasciarsi alle spalle una morte simbolica per entrare nel proprio principio vitale sorretta da un progetto esistenziale che la renderà unica.

Una profonda sapienza letteraria consente a Marie Cardinal di tenere le pagine in una narrazione che è puntuale resoconto di vita e sismografo di un rivolgimento esistenziale inaudito. La capacità di Cardinal di trasformare il linguaggio rendendolo vero perché, ri-fondato su un contatto profondo con il proprio corpo, corpo di donna porta la dinamica della storia a far chiudere alla figlia il senso di lacerazione nei confronti della madre ed incamminarsi verso un arduo percorso di perdono che spezza la reiterazione dell’odio tra madre e figlia. Il lavoro porta la figlia a potersi liberare cosa che, la madre, non era riuscita a fare impigliata tra morale borghese e rete patriarcale. Il romanzo ha rappresentato un forte e deciso passaggio nei confronti del rifiuto di un linguaggio capace di mostrare solo la miseria simbolica del femminile. “Le parole per dirlo” sono le parole che servono a dire l’esperienza di donne a partire dalla loro relazione con la materialità dell’esistenza e con il proprio corpo.

Le parole per dirlo sono le parole che una donna sa far nascere per dire il proprio rimosso, la propria zona di silenzio e di ombra. Attraverso il lavoro di scrittrice, Marie Cardinal propone un modo assolutamente nuovo di rendere dicibile l’esperienza femminile rifiutando ogni linguaggio specializzato che cancella la differenza portando il femminile nell’alveo del neutro ossia dell’ordine dato. Marie Cardinal continuerà lungo tutto l’arco della propria attività di scrittrice questo lavoro di pungolo e reinvenzione del linguaggio stanando l’inespresso, sostenendo l’essenziale affinché il dono fatto dalla madre possa mostrarsi nello spiegamento della propria potenza: una madre dà non solo la vita alla propria creatura ma, contestualmente, la mette in condizione di parlare. Il dono del linguaggio resta l’alveo del patrimonio simbolico di cui ognuna deve poter comprendere e vedere grandezza e forza di nutrimento.

“… L’incontro con i miei primi veri difetti mi dava una sicurezza che non avevo mai avuta. Essi mettevano in risalto le mie qualità che scoprivo contemporaneamente e che m’interessavano di meno… I miei difetti erano dinamici. Sentivo molto profondamente di volta in volta che li riconoscevo, che diventavano strumenti utili…Non si trattava più di respingerli, o di sopprimerli, e ancora meno di averne vergogna, ma di domarli e all’occorrenza di servirmene…”1

L’attualità della lezione di Marie Cardinal non è ancora esaurita. Essa parla da un’altezza che non era stata raggiunta. Venire a capo della perdita di coscienza, dell’annullamento trovandone parole e tessiture è mettere al mondo il mondo, ancora.

Anna Rita Merico


  1. Marie Cardinal, Le parole per dirlo, Bompiani 2014, pg. 203