Tutto accade per non accadere: Katherine e James nei sentieri del racconto
Lungo i viali di Greenwich Park scorgo un uomo alto e magro, occhialini e borsalino, parla fittamente con una giovane donna: sguardo di poiana, pelle di cera; lei stringe lo scialle nelle spalle, lui sfiora il baffetto, sembrano essere James Joyce (1882 – 1941) e Katherine Mansfield (1888 – 1923); chissà di cosa parlano, intanto s’incamminano, l’uno accanto all’altra, nei sentieri del racconto.
Per Katherine e James, l’arte del rappresentare si raccoglie intorno ad oggetti sempre diversi che subito si fanno simboli per rivelarci quel che è nascosto, profondo. Ma occorre scavare a mani nude sotto la neve perché, nei racconti della Mansfield come in quelli di Joyce, si ha la sensazione che nulla accada.
Immaginavo Katherine sulla spiaggia di Piha, in Nuova Zelanda, là dove il suono delle onde dell’amica Virginia1si confonde alle note del pianoforte di Jane Campion2. La pensavo così, Katherine, con la stilografica tra le dita a dipingere il cielo d’un azzurro chiaro, tratteggiare paesaggi, fiori, dolci gorgoglii tra sassi di mare:
“Ah-Aah! sounded the sleepy sea. And from the bush there came the sound of little streams flowing, quickly, lightly, slipping between the smooth stones, gushing into ferny basins and out again; and there was the splashing of big drops on large leaves and something else–what was it? — a faint stirring and shaking, the snapping of a twig and then such silence that it seemed some one was listening.“3
Percepibile nella versione originale, l’autrice crea un effetto sibilante attraverso la reiterazione del suono della “S” che si unisce ad un gioco di assonanze per ottenere uno straordinario riverbero musicale comparabile forse all’antico suono della Kalimba.
Come in “Mrs. Dalloway” (1925) della Woolf o in “Ulysses” (1920) di Joyce, anche in “At the Bay” (1922) della Mansfield, l’azione si svolge in un’unica giornata ma, in effetti, manca, qui, una vera e propria trama; i Burnells e i Trouts sembrano latitare, spingersi leggeri tra prati in fiore e corse in mare: tutto accade per non accadere, è questa l’epifania, la rivelazione.
Mentre in “At the Bay” l’autrice sembra incantata dai suoni della baia come mare in una conchiglia, Il racconto “Prelude” (1920) si apre, invece, con Kezia e Lottie, due bambine, ma è sulle figure femminili della generazione precedente, Linda e Beryl, che si concentra l’attenzione. Linda ha un marito, una casa e dei bambini di cui uno in arrivo; Beryl, la sorella non sposata, invece, cresce sempre più in amarezza per la mancata realizzazione sentimentale. In realtà, Beryl aspira a realizzare il suo sogno d’amore: “a new, wonderful, far more thrilling and exciting world than the daylight one”4 ma, quando Harry Kember le propone di uscire, si ritrae, terrorizzata, non riuscirà ad oltrepassare il cancello di casa: è questa la svolta mancata.
Con Beryl che indietreggia davanti ad una piccola pozza di buio: ‘ a little pit of darkness’, il pensiero corre veloce a Eveline in “Dubliners” (1914) di James Joyce; anch’ella, come Beryl, ha l’opportunità di cambiare la vita, ma alla resa dei conti si dimostrerà incapace di abbandonare la routine familiare.
“She stood up in a sudden impulse of terror. Escape! She must escape! Frank would save her. He would give her life, perhaps love, too. But she wanted to live. Why should she be unhappy? She had a right to happiness. Frank would take her in his arms, fold her in his arms. He would save her”5.
Quando Frank le urlerà di seguirlo, Eveline sarà come paralizzata, “i suoi occhi non gli dettero il minimo segno d’amore o di addio o di riconoscimento.”6
Si dispiegano come sete fruscianti le vite interdette nella silloge Joyciana; nel racconto d’apertura: “The Sisters”, l’attenzione sembra concentrarsi sul paralitico Padre Flynn, eppure il titolo suggerisce che la paralisi sia estesa anche alle sorelle le quali proprio per favorire il fratello James, la sua formazione religiosa e la carriera, conducono una vita non soltanto povera ma anche ingrigita dalle convenzioni sociali che le vogliono non realizzate, in una parola, represse.
Incapace di mutare direzione è anche Jonathan Strout in “At the Bay”: pur sentendosi prigioniero di un lavoro del quale vorrebbe liberarsi, Jonathan, resta seduto sul trespolo a scarabocchiar registri: “Tell me, what is the difference between my life and that of an ordinary prisoner? The only difference I can see is that I put myself in jail and nobody’s ever going to let me out.”7
E come dolce sciacquio, torna alla memoria Little Chandler, in “A little Cloud” di Joyce: qui, il protagonista è consapevole di non poter trasferirsi altrove poiché Londra o Parigi sarebbero ugualmente deludenti per lui. L’epifania del Piccolo Chandler è, dunque, in una nuvoletta da cui cadono soltanto poche gocce sopra la sua desolata esistenza che neppure la nuova paternità riuscirà a ravvivare, anzi sarà motivo di frustrazione.
Ed ecco che, sia nella Mansfield che in Joyce, il senso sembra mancare, ma quel che pare sfocato, in realtà, è ben delineato, quel che appare superficiale, è profondo perché la fuga è la soluzione cui tendono i personaggi come lontano miraggio nel deserto.
In “At the Bay”, Kezia vuol che la nonna non la lasci mai: “Promise me! Say never”8. Ma il tema della morte non viene in realtà affrontato; i personaggi rasentano il baratro per poi finire in una bolla di risa e scherno. “Say never, say never, say never, gurgled Kezia, while they lay there laughing in each other’s arms”9. Così è anche in “The Garden Party” (1921) in cui una giornata ideale per una festa in giardino sembra inficiata dalla improvvisa morte del vicino, ma la festa si terrà e Laura, di ritorno dalla casa del defunto, asciugherà le lacrime sfiorando un senso di gratitudine per la vita.
È comprensibile che la Mansfield sfiori soltanto il tema della morte se consideriamo che ella combatte strenuamente contro la tubercolosi. Lo sentiamo nell’amore che prova osservando la vita in tutte le sue più piccole manifestazioni prima di farne parola, disciplinata scrittura. Lei che vuole solo vivere al sole della sua baia e scrivere senza preconcetti. Così Pietro Citati:
“Sebbene la tisi non le appartenesse, aveva compreso che la malattia era la condizione più adatta allo scrivere: le faceva sentire acutamente come tutte le cose passino troppo presto: rendeva le figure ricche, importanti e desiderate, come quando un bambino malato è chiuso in esilio nella propria stanza, mentre dalla porta e dalle finestre penetrano i rumori, il frastuono e le luci, tutto quello che accadeva oltre era meraviglioso. […] “Ogni artista” annotò sul diario “si taglia un’orecchia e la inchioda alla porta, perché gli altri vengano a gridarci dentro“10
Se la morte s’allunga come ombra fastidiosa, un’apparente immobilità distingue anche “A Man Without a Temperament “in cui un uomo senza carattere sembra essere alle dipendenze di una donna bisognosa d’assistenza pur essendone, in realtà, il marito. Così Robert, marito di Jinnie, non fa che rigirare l’anello al dito in attesa del successivo comando. “He stood at the hall door turning the ring, turning the heavy signet ring upon his little finger while his glance travelled coolly, deliberately, over the round tables and basket chairs scattered about the glassed-in veranda”11. Ma se il lettore non riesce a simpatizzare col protagonista che appare “stiff”, rigido, come il braccio su cui Jinnie si poggia, la narrazione sembra mossa dal ricordo di Londra che coincide per Robert con la vita. Ma il protagonista non cambierà il suo atteggiamento, si desterà ad ogni scalpiccio della moglie pur essendo da lei spiritualmente distante. Crescerà, certo, il suo discontento, straordinaria è la capacità di rendere la tensione psicologica del protagonista, ma non si ha la sensazione che egli possa mutare la sua posizione. Una costante dei racconti della Mansfield è forse proprio la sospensione; l’autrice non cerca un lieto fine come spesso accade nei romanzi ottocenteschi, ma lascia il lettore sospeso, incerto sulla soglia del racconto.
Il cielo è carico di neve mentre Katherine e James s’incamminano verso la strada collinare di Maze Hill che delimita il confine orientale di Greenwich Park. James sistema il borsalino sulla testa di lei per ripararle il capo e intanto non può non pensare a Michael Furey, morto per amore della sua Gretta: il primo amore di cui suo marito Gabriel non sapeva e che forse così intenso non aveva mai vissuto. Non può non pensare alla sua gente, alla gente di Dublino, paralizzata dalla spessa coltre delle abitudini, delle convenzioni sociali, della ritualità delle feste religiose sempre uguali a loro stesse.
“C’era neve dappertutto in Irlanda, cadeva ovunque nella buia pianura centrale, sulle nude colline; cadeva soffice sulla palude di Allen e più a ovest sulle nere, tumultuose onde dello Shannon. Cadeva in ogni canto del cimitero deserto, lassù sulla collina dov’era sepolto Michael Fury. S’ammucchiava alta sulle croci contorte, sulle pietre tombali, sulle punte del cancello, sugli spogli roveti. E la sua anima gli svanì adagio adagio nel sonno mentre udiva lieve cadere la neve sull’universo, e cadere lieve come la discesa della loro estrema fine sui vivi e sui morti.“12
È calda la neve per Gabriel perché egli è forse l’unico a destarsi dal lungo sonno nel quale Dublino è piombata. E la calda neve, mi riporta a quello straordinario ossimoro che brucia sotto un candido oblio:
Winter kept us warm, covering
Earth in forgetful snow, feeding
A little life with dried tubers13.
Presso il castello di Vanbrugh, in lontananza, Katherine e James si fanno invisibili all’orizzonte, ma, di certo, giganti tra le pagine mentre, uscendo dalla stazione di Maze Hill, mi ritroverò in Tom Smith Close e da lì potrò percorrere la strada in discesa e raggiungere Trafalgar Road…
Giulia Sonnante
1. Virginia Woolf (1882-1941)
2. Jane Campion, regista, sceneggiatrice e produttrice neozelandese nasce a Wellington il 30 aprile 1954
3.[Ah – Aah! Echeggiò il mare tranquillo. E più in là da quel cespuglio giungeva il suono di ruscelletti che scorrevano veloci, leggeri, scivolando tra sassi levigati per riversarsi in bacini di felci e poi, di nuovo, zampillare; ed il tuffarsi di grandi gocce su ampie foglie e ancora—- cos’era? Qualcosa si agitava debolmente e crepitava, lo spezzarsi d’un ramoscello e poi un tale silenzio che sembrava qualcuno stesse ascoltando”] traduzione di chi scrive: K. Mansfield, The Garden Party and Other stories, Penguin Twentieth Century Classics, London, 1997 p. 5.
4. [Un mondo nuovo, meraviglioso, di gran lunga più emozionante ed eccitante della luce odierna] traduzione di chi scrive.
5. [Balzò in piedi spinta da un terrore improvviso. Fuggire! Doveva Fuggire! Frank l’avrebbe portata in salvo, le avrebbe dato la vita e forse anche l’amore. Lei voleva vivere davvero. Perché avrebbe dovuto essere infelice? Aveva diritto anche lei alla felicità. Frank l’avrebbe presa tra le braccia, l’avrebbe stretta: l’avrebbe salvata.] Trad. di Attilio Brilli in J. Joyce, Gente di Dublino, Classici Mondadori, Milano, 1987.
6. Ibid. pag. 33.
7. K. Mansfield, in op. cit. [“Dimmi, quale differenza c’è tra la mia vita e quella di un comune prigioniero? L’unica differenza che riesco a vedere è che sono io stesso a mettermi in prigione e mai nessuno mi tirerà fuori da lì] trad. mia p. 31
8.K. Mansfield, in op. cit. [Promettimelo, di’ mai] p. 23. Traduzione di chi scrive
9. Ibid. [di’ mai, di’ mai, di’ mai barbugliò Kezia mentre restavano lì a ridere ognuna nelle braccia dell’altra] p. 23 traduzione di chi scrive.
10. Pietro Citati, Vita Breve di Katherine Mansfield, Adelphi Edizioni, Milano, 2014 p. 83-4.
11. A Man Without a Temperament (1920) il racconto in formato digitale è disponibile sul sito della Katherine Mansfield Society http://www.katherinemansfieldsociety.org [stava all’entrata della hall, rigirando l’anello, rigirando il pesante anello con sigillo, intorno al dito mignolo, mentre il suo sguardo vagava freddamente, deliberatamente, sui tavoli rotondi e sulle poltroncine di vimini sparpagliate intorno alla veranda vetrata. ] p. 1. Traduzione di chi scrive.
12. James Joyce Gente di Dublino, Oscar Mondadori, Milano, 1987 – I Morti – p. 208 nella traduzione di Attilio Brilli.
13.T.S. Eliot, La sepoltura dei morti in “La terra desolata” 1922 [L’inverno ci mantenne al caldo, ottuse / con immemore neve la terra, / nutrì Con secchi tuberi una vita misera] traduzione di Roberto Sanesi, in La terra Desolata Classici Moderni, Rizzoli, Milano, 2013