Tutto accade per non accadere: Katherine e James nei sentieri del racconto

Greenwich Park, Londra

Katherine Mansfield

Lungo i viali di Greenwich Park scorgo un uomo alto e magro, occhialini e borsalino, parla fittamente con una giovane donna: sguardo di poiana, pelle di cera; lei stringe lo scialle nelle spalle, lui sfiora il baffetto, sembrano essere James Joyce (1882 – 1941) e Katherine Mansfield (1888 –  1923); chissà di cosa parlano, intanto s’incamminano, l’uno accanto all’altra, nei sentieri del racconto.

Per Katherine e James, l’arte del rappresentare si raccoglie intorno ad oggetti sempre diversi che subito si fanno simboli per rivelarci quel che è nascosto, profondo. Ma occorre scavare a mani nude sotto la neve perché, nei racconti della Mansfield come in quelli di Joyce, si ha la sensazione che nulla accada.

Immaginavo Katherine sulla spiaggia di Piha, in Nuova Zelanda, là dove il suono delle onde dell’amica Virginia1si confonde alle note del pianoforte di Jane Campion2. La pensavo così, Katherine, con la stilografica tra le dita a dipingere il cielo d’un azzurro chiaro, tratteggiare paesaggi, fiori, dolci gorgoglii tra sassi di mare:

Casa sulla spiaggia da At the Bay, Wellington, ph. Maggie Rainey Smith

Ah-Aah! sounded the sleepy sea. And from the bush there came the sound of little streams flowing, quickly, lightly, slipping between the smooth stones, gushing into ferny basins and out again; and there was the splashing of big drops on large leaves and something else–what was it? — a faint stirring and shaking, the snapping of a twig and then such silence that it seemed some one was listening.3

Percepibile nella versione originale, l’autrice crea un effetto sibilante attraverso la reiterazione del suono della “S” che si unisce ad un gioco di assonanze per ottenere uno straordinario riverbero musicale comparabile forse all’antico suono della Kalimba.

Come in “Mrs. Dalloway” (1925) della Woolf o in “Ulysses” (1920) di Joyce, anche in “At the Bay” (1922) della Mansfield, l’azione si svolge in un’unica giornata ma, in effetti, manca, qui, una vera e propria trama; i Burnells e i Trouts sembrano latitare, spingersi leggeri tra prati in fiore e corse in mare: tutto accade per non accadere, è questa l’epifania, la rivelazione.

Mentre in “At the Bay” l’autrice sembra incantata dai suoni della baia come mare in una conchiglia, Il racconto “Prelude” (1920) si apre, invece, con Kezia e Lottie, due bambine, ma è sulle figure femminili della generazione precedente, Linda e Beryl, che si concentra l’attenzione. Linda ha un marito, una casa e dei bambini di cui uno in arrivo; Beryl, la sorella non sposata, invece, cresce sempre più in amarezza per la mancata realizzazione sentimentale. In realtà, Beryl aspira a realizzare il suo sogno d’amore: “a new, wonderful, far more thrilling and exciting world than the daylight one”4 ma, quando Harry Kember le propone di uscire, si ritrae, terrorizzata, non riuscirà ad oltrepassare il cancello di casa: è questa la svolta mancata.

Con Beryl che indietreggia davanti ad una piccola pozza di buio: ‘ a little pit of darkness’, il pensiero corre veloce a Eveline in “Dubliners” (1914) di James Joyce; anch’ella, come Beryl, ha l’opportunità di cambiare la vita, ma alla resa dei conti si dimostrerà incapace di abbandonare la routine familiare.

“She stood up in a sudden impulse of terror. Escape! She must escape! Frank would save her. He would give her life, perhaps love, too. But she wanted to live. Why should she be unhappy? She had a right to happiness. Frank would take her in his arms, fold her in his arms. He would save her”5.

Quando Frank le urlerà di seguirlo, Eveline sarà come paralizzata, “i suoi occhi non gli dettero il minimo segno d’amore o di addio o di riconoscimento.”6

Si dispiegano come sete fruscianti le vite interdette nella silloge Joyciana; nel racconto d’apertura: “The Sisters”, l’attenzione sembra concentrarsi sul paralitico Padre Flynn, eppure il titolo suggerisce che la paralisi sia estesa anche alle sorelle le quali proprio per favorire il fratello James, la sua formazione religiosa e la carriera, conducono una vita non soltanto povera ma anche ingrigita dalle convenzioni sociali che le vogliono non realizzate, in una parola, represse.

Incapace di mutare direzione è anche Jonathan Strout in “At the Bay”: pur sentendosi prigioniero di un lavoro del quale vorrebbe liberarsi, Jonathan, resta seduto sul trespolo a scarabocchiar registri: “Tell me, what is the difference between my life and that of an ordinary prisoner? The only difference I can see is that I put myself in jail and nobody’s ever going to let me out.”7

E come dolce sciacquio, torna alla memoria Little Chandler, in “A little Cloud” di Joyce: qui, il protagonista è consapevole di non poter trasferirsi altrove poiché Londra o Parigi sarebbero ugualmente deludenti per lui. L’epifania del Piccolo Chandler è, dunque, in una nuvoletta da cui cadono soltanto poche gocce sopra la sua desolata esistenza che neppure la nuova paternità riuscirà a ravvivare, anzi sarà motivo di frustrazione.

Ed ecco che, sia nella Mansfield che in Joyce, il senso sembra mancare, ma quel che pare sfocato, in realtà, è ben delineato, quel che appare superficiale, è profondo perché la fuga è la soluzione cui tendono i personaggi come lontano miraggio nel deserto.  

Memoriale a Katherine Mansfield

In “At the Bay”, Kezia vuol che la nonna non la lasci mai: “Promise me! Say never”8. Ma il tema della morte non viene in realtà affrontato; i personaggi rasentano il baratro per poi finire in una bolla di risa e scherno. “Say never, say never, say never, gurgled Kezia, while they lay there laughing in each other’s arms”9. Così è anche in “The Garden Party” (1921) in cui una giornata ideale per una festa in giardino sembra inficiata dalla improvvisa morte del vicino, ma la festa si terrà e Laura, di ritorno dalla casa del defunto, asciugherà le lacrime sfiorando un senso di gratitudine per la vita.

di Giuliana Sonnante

È comprensibile che la Mansfield sfiori soltanto il tema della morte se consideriamo che ella combatte strenuamente contro la tubercolosi. Lo sentiamo nell’amore che prova osservando la vita in tutte le sue più piccole manifestazioni prima di farne parola, disciplinata scrittura. Lei che vuole solo vivere al sole della sua baia e scrivere senza preconcetti. Così Pietro Citati:

Sebbene la tisi non le appartenesse, aveva compreso che la malattia era la condizione più adatta allo scrivere: le faceva sentire acutamente come tutte le cose passino troppo presto: rendeva le figure ricche, importanti e desiderate, come quando un bambino malato è chiuso in esilio nella propria stanza, mentre dalla porta e dalle finestre penetrano i rumori, il frastuono e le luci, tutto quello che accadeva oltre era meraviglioso. […] “Ogni artista” annotò sul diario “si taglia un’orecchia e la inchioda alla porta, perché gli altri vengano a gridarci dentro10

Se la morte s’allunga come ombra fastidiosa, un’apparente immobilità distingue anche “A Man Without a Temperament “in cui un uomo senza carattere sembra essere alle dipendenze di una donna bisognosa d’assistenza pur essendone, in realtà, il marito. Così Robert, marito di Jinnie, non fa che rigirare l’anello al dito in attesa del successivo comando. “He stood at the hall door turning the ring, turning the heavy signet ring upon his little finger while his glance travelled coolly, deliberately, over the round tables and basket chairs scattered about the glassed-in veranda”11. Ma se il lettore non riesce a simpatizzare col protagonista che appare “stiff”, rigido, come il braccio su cui Jinnie si poggia, la narrazione sembra mossa dal ricordo di Londra che coincide per Robert con la vita. Ma il protagonista non cambierà il suo atteggiamento, si desterà ad ogni scalpiccio della moglie pur essendo da lei spiritualmente distante. Crescerà, certo, il suo discontento, straordinaria è la capacità di rendere la tensione psicologica del protagonista, ma non si ha la sensazione che egli possa mutare la sua posizione. Una costante dei racconti della Mansfield è forse proprio la sospensione; l’autrice non cerca un lieto fine come spesso accade nei romanzi ottocenteschi, ma lascia il lettore sospeso, incerto sulla soglia del racconto.

Il cielo è carico di neve mentre Katherine e James s’incamminano verso la strada collinare di Maze Hill che delimita il confine orientale di Greenwich Park. James sistema il borsalino sulla testa di lei per ripararle il capo e intanto non può non pensare a Michael Furey, morto per amore della sua Gretta: il primo amore di cui suo marito Gabriel non sapeva e che forse così intenso non aveva mai vissuto. Non può non pensare alla sua gente, alla gente di Dublino, paralizzata dalla spessa coltre delle abitudini, delle convenzioni sociali, della ritualità delle feste religiose sempre uguali a loro stesse.

“C’era neve dappertutto in Irlanda, cadeva ovunque nella buia pianura centrale, sulle nude colline; cadeva soffice sulla palude di Allen e più a ovest sulle nere, tumultuose onde dello Shannon. Cadeva in ogni canto del cimitero deserto, lassù sulla collina dov’era sepolto Michael Fury. S’ammucchiava alta sulle croci contorte, sulle pietre tombali, sulle punte del cancello, sugli spogli roveti. E la sua anima gli svanì adagio adagio nel sonno mentre udiva lieve cadere la neve sull’universo, e cadere lieve come la discesa della loro estrema fine sui vivi e sui morti.“12

È calda la neve per Gabriel perché egli è forse l’unico a destarsi dal lungo sonno nel quale Dublino è piombata. E la calda neve, mi riporta a quello straordinario ossimoro che brucia sotto un candido oblio:

Winter kept us warm, covering

Earth in forgetful snow, feeding

A little life with dried tubers13.

Castello di Vanbrugh 1699-1712

Presso il castello di Vanbrugh, in lontananza, Katherine e James si fanno invisibili all’orizzonte, ma, di certo, giganti tra le pagine mentre, uscendo dalla stazione di Maze Hill, mi ritroverò in Tom Smith Close e da lì potrò percorrere la strada in discesa e raggiungere Trafalgar Road…

Giulia Sonnante


1. Virginia Woolf (1882-1941)

2. Jane Campion, regista, sceneggiatrice e produttrice neozelandese nasce a Wellington il 30 aprile 1954

3.[Ah – Aah! Echeggiò il mare tranquillo. E più in là da quel cespuglio giungeva il suono di ruscelletti che scorrevano veloci, leggeri, scivolando tra sassi levigati per riversarsi in bacini di felci e poi, di nuovo, zampillare; ed il tuffarsi di grandi gocce su ampie foglie e ancora—- cos’era? Qualcosa si agitava debolmente e crepitava, lo spezzarsi d’un ramoscello e poi un tale silenzio che sembrava qualcuno stesse ascoltando”] traduzione di chi scrive: K. Mansfield, The Garden Party and Other stories, Penguin Twentieth Century Classics, London, 1997 p. 5.

4. [Un mondo nuovo, meraviglioso, di gran lunga più emozionante ed eccitante della luce odierna] traduzione di chi scrive.

5. [Balzò in piedi spinta da un terrore improvviso. Fuggire! Doveva Fuggire! Frank l’avrebbe portata in salvo, le avrebbe dato la vita e forse anche l’amore. Lei voleva vivere davvero. Perché avrebbe dovuto essere infelice? Aveva diritto anche lei alla felicità. Frank l’avrebbe presa tra le braccia, l’avrebbe stretta: l’avrebbe salvata.] Trad. di Attilio Brilli in J. Joyce, Gente di Dublino, Classici Mondadori, Milano, 1987.

6. Ibid. pag. 33.

7. K. Mansfield, in op. cit. [“Dimmi, quale differenza c’è tra la mia vita e quella di un comune prigioniero? L’unica differenza che riesco a vedere è che sono io stesso a mettermi in prigione e mai nessuno mi tirerà fuori da lì] trad. mia p. 31

8.K. Mansfield, in op. cit. [Promettimelo, di’ mai] p. 23. Traduzione di chi scrive

9. Ibid. [di’ mai, di’ mai, di’ mai barbugliò Kezia mentre restavano lì a ridere ognuna nelle braccia dell’altra] p. 23 traduzione di chi scrive.

10. Pietro Citati, Vita Breve di Katherine Mansfield, Adelphi Edizioni, Milano, 2014 p. 83-4.

11. A Man Without a Temperament (1920) il racconto in formato digitale è disponibile sul sito della Katherine Mansfield Society http://www.katherinemansfieldsociety.org [stava all’entrata della hall, rigirando l’anello, rigirando il pesante anello con sigillo, intorno al dito mignolo, mentre il suo sguardo vagava freddamente, deliberatamente, sui tavoli rotondi e sulle poltroncine di vimini sparpagliate intorno alla veranda vetrata. ] p. 1. Traduzione di chi scrive.

12. James Joyce Gente di Dublino, Oscar Mondadori, Milano, 1987 – I Morti –  p. 208 nella traduzione di Attilio Brilli.

13.T.S. Eliot, La sepoltura dei morti in “La terra desolata” 1922 [L’inverno ci mantenne al caldo, ottuse / con immemore neve la terra, / nutrì Con secchi tuberi una vita misera] traduzione di Roberto Sanesi, in La terra Desolata Classici Moderni, Rizzoli, Milano, 2013

La Bustina di Mnemosine – TOMMASO FIORE

Tommaso Fiore (1884-1973), figlio dell’aspra Murgia pugliese, studiò all’università di Pisa, dove fu allievo di Giovanni Pascoli; insegnò nei licei, divenne provveditore agli studi e docente universitario di letteratura latina.

Socialista libertario, antigiolittiano, meridionalista fra i più autorevoli e ascoltati, fu sodale di Salvemini, Benedetto Croce, Bertrand Russell, Piero Gobetti – la migliore intellighenzia laica del tempo.

Durante il Ventennio conobbe – né poteva essere altrimenti – il confino e il carcere.

Pessimo poeta (detto da lui), prezioso traduttore dell’ostico dialetto lucano di Albino Pierro (detto da me), saggista e poligrafo di razza, vinse nel ’52 il Viareggio con Un popolo di formiche; seguì, tre anni dopo, Il cafone all’inferno.

Sono entrambi libri di viaggio, reportage di taglio colto a metà tra narrazione e analisi: un genere che nasce forse con Erodoto e che, con Magris, arriva all’oggi passando per la satira V di Orazio, il Viaggio in Italia di Montaigne e poi di Goethe, una quantità vastissima di altre opere (ma quello di Fiore non è un Grand Tour – passione civile e tensione politica scorrono nelle sue pagine).

Il cafone all’inferno, racconto eponimo e parte conclusiva del libro, è una storia di origine popolare.

Narra di un bracciante del Tavoliere di Puglia che, dopo la morte, finisce all’inferno. E non ci si trova male, anzi decisamente bene, tanto da definirlo «un luogo dove si gode».

Nel sentir ciò, i diavoli esterrefatti lo riferiscono a Satana che, anche lui sorpreso, lo convoca e gli chiede – è il caso di dire – da dove diavolo venga per parlar così. Risponde il cafone che viene da un posto assai peggiore dell’inferno, il Tavoliere di Puglia.

Satana vi manda allora un diavolo in ricognizione: fingendosi contadino, dovrà cercar lavoro e appurare come stanno le cose.

Non dura che due giorni il povero diavolo – fa ritorno all’inferno con le ali «sconquassate e spennate»: le terribili condizioni di vita e di lavoro del Tavoliere lo hanno presto sopraffatto.

Ma l’inferno – medita Satana – dev’essere il luogo peggiore in assoluto, altrimenti che inferno è? E, convocati i diavoli, ordina di sbaraccare: «prendete tutti gli attrezzi e andiamo a stabilirci nel Tavoliere delle Puglie».

Morì, don Tommaso, prima che i cafoni passassero il testimone ad altra gente, uomini e donne in fuga da altri inferni.

Uomini e donne dalla pelle nera.

Che vivono in baracche, e raccolgono pomodori sotto un sole che non perdona.

Fanno una vita d’inferno.

Alfredo Dell’Era

Recensione di VIAGGIO MEDITERRANEO di Gino Locaputo e Maria Sportelli, Secop edizioni

Gino Locaputo è attore regista scrittore poeta. Nato in Conversano nel 1953. È stato ideatore e direttore artistico della Rassegna internazionale Festival Mediterraneo. All’attivo, numerose pubblicazioni tra cui anche una raccolta poetica.

Maria Sportelli, giornalista professionista, docente, scrittrice, è nata in Conversano. Nel 1973 laureata in scienze politiche. Ha seguito in molte delle sue avventure Gino Locaputo: una di queste è proprio Viaggio Mediterraneo”.

Si tratta di un viaggio in luoghi percorsi effettivamente nello spazio e nel tempo, in territori calpestabili del nostro paesaggio Mediterraneo, permeati dall’intreccio avvolgente di suoni lontani, come ci suggerisce giustamente nella prefazione del libro, Pasquale Daniele. Dicevo, l’intreccio avvolgente di suoni, nel turbinio suadente dei colori e dei profumi, che inebriano, è un viaggio che attraversa “ il peregrinare” dei due protagonisti tra le emozioni e le dune del deserto. È un viaggio, che vibra nella malinconia e si perde, sfinito, nel desiderio di armonia. In questo viaggio Gino e Maria hanno conosciuto e apprezzato il porto sicuro della fraterna accoglienza e della convivialità.  … Nomadi anch’essi in terre di civiltà ataviche in cui perdersi, per poi ritrovarsi, con tutta l’anima. Secondo me, mai, come in questo momento storico, parlare di Mare Nostrum come luogo di incontro e di abbraccio, in cui riconoscersi fratelli, apre ad alcune riflessioni. Se si considera che, per una mancata accoglienza, facilmente il nostro mare può trasformarsi in un mostruoso cimitero delle speranze dei più deboli o – semplicemente – dei più bisognosi, che cercano un approdo sicuro in un viaggio, ma a volte senza un faro che da lontano si prodighi a segnare luminosamente l’arrivo in una terra serena, in un mondo migliore….  … che per alcuni è l’anima, per altri la quotidianità, per altri ancora una visione del futuro capace di assicurare armonia o, quantomeno, tranquillità.

Per questo, “Viaggio Mediterraneo” a volte appare come un diario di bordo di capitani coraggiosi, che si avventurano verso approdi oscuri e sconosciuti, ma pur sempre affascinanti. A volte è, chiaramente, un diario scritto a quattro mani e una voce narrante. Altre volte ancora risulta avere, proprio, l’aspetto di un diario personale, pervaso di sogni, desideri, versi poetici, foto, narrazioni individuali ed intime rivelatrici di pensieri reconditi e di sentimenti sottaciuti. È questo il caso, ad esempio, della poesia “Parole” di Gino lo Caputo. ”Parole “.  Parole distrutte /recitate da freddi colloqui/ che solo la notte trasforma in universi di stelle./ Tutto questo è il mio mondo /con le mie solitudini notturne /ai porti delle memorie /ai racconti di queste vecchie pietre /tra un po’ di terra / e un poco d’ombra oltre la proda degli assilli umani /dove il rosario delle ore/ si sbriciola tra le dita del tempo /nel triste approdo delle nostalgie… / Si riprende il cammino / nella pena dei giorni consumati sull’altare della speranza /sulla terra che si fa pace / su un ponte  verso l’infinito.” C’è storia e ci sono storie, narrazioni e narrazione, in “Viaggio Mediterraneo” : è un viaggio delicato e intenso nelle culture, attraversate dai sensi e dall’intelligenza dei due autori, Maria Sportelli e Gino Locaputo. È un viaggio a due dimensioni: il tempo che scivola addosso e lo spazio che i corpi percorrono e occupano. È un libro che racconta storie di pane e di olive nere di uva passa e pinoli tostati. È un libro che si lascia attraversare da tutti i sensi, compresa la propriocettività della pelle.

Efficace nei dialoghi, spesso attraversati ed espressi dai versi poetici di Gino Locaputo posti a prologo o ad epilogo dei vari capitoli.

La forza delle descrizioni è nell’essersi lasciate permeare dai sentimenti che dimoravano o che transitavano, anch’esse a volte viandanti altre esploratori dell’Essere, nelle profondità delle anime inquiete e curiose di Maria e di Gino.

Il tutto è contenuto in poco più di 100 pagine, scritte con uno stile fluido ed immediato, semplice, ma al tempo stesso ricercato, dal livello comunicativo efficace, forte e tecnicamente corretto.

Mi piace concludere questa mia recensione con un interrogativo, a cui sembra dare quasi una risposta la scrittrice Maria Sportelli, quando si imbatte nella “conoscenza” del Mar Morto.

La domanda che viene spontaneo porsi, leggendo “Viaggio Mediterraneo“  è:

“Di cosa è fatto, ora, il mio mondo?”

L’autrice pare rispondere così: “Ci sono incontri che ti cambiano la vita, ci sono mondi che ti insegnano vivere. A volte il caso, a volte il destino traccia la strada, io ho seguito la mia. Così, piano piano, le nostre parole sono scivolate su questi fogli come baci d’amore per tutti coloro che avranno l’ardore di leggerle, sospendendo ogni forma di giudizio.”     

Giusy Carminucci

                              

“I VICERE’” E  “IL GATTOPARDO”: FILIAZIONE?

Lungomare, Bari

Bari ha il fascino diafano della luce in purezza dentro un contesto urbano: come lo sguardo fresco di un adolescente affacciato sulla terrazza verso un orizzonte che, per beffa geografica, è tutto spostato ad oriente. Bari è rivolta al mare, alla prospettiva sconfinata e rovesciata dell’idea sognante. La città è come un riverbero della Puglia intera, del bilico di questa terra sempre sospesa tra mondi che cerca incessantemente e inconsapevolmente (vanamente?) di conciliare: non solo oriente e occidente, ma anche pragmatismo religioso e spiritualità mistica (Don Tonino e san Pio),  chiusura provinciale e apertura cosmopolita (i tanti piccoli borghi visitati da grandi star internazionali),  attaccamento alla tradizione e tentazione di un pensiero nuovo, “meridiano”, come lo concepì ormai quasi trent’anni fa il compianto Franco Cassano. Questa essenza sovra-urbana balena agli occhi dei visitatori specie nei punti di confine della città, cesura e al contempo cucitura tra realtà lontane. Ad esempio il lungomare, dove proprio Franco Cassano amava passeggiare, come racconta il sociologo Franco Chiarello nel suo volume “Franco Cassano. A passeggio sui confini” (Ed. Radici Future 2023). O ancora, la piazza della stazione centrale, dove si toccano provando a congiungersi, provincia e capoluogo e si affiancano i quartieri dei due secoli scorsi, il murattiano razionale e quasi asettico davanti ai binari e il metropolitano caotico e impersonale, alle loro spalle. Quella piazza contiene anche due elementi che per me sono soste fisse ed imprescindibili ogni volta che mi trovo in zona: una edicola molto ben fornita e la stele con il busto di Aldo Moro. Già, Aldo Moro, il martire laico della Prima repubblica, il capro espiatorio sacrificato sull’altare della cattiva coscienza democristiana. A ben vedere, anche nel suo caso si tratta di una personalità profondamente “pugliese”, che ha provato a congiungere due visioni politiche apparentemente inconciliabili attraverso il crinale del “compromesso storico”. Ma non è proprio il caso di scriverne, divagherei troppo e tralignerei rispetto alle tematiche del Blog, che si occupa di letteratura.

Per evitare divagazioni, mi viene in soccorso l’altro mio personale punto di riferimento della piazza, l’edicola ben fornita accanto alla stele di Moro. È lì che un giorno, bighellonando tra spalliere girevoli piene di libri in edizioni datate, incrociai “I vicerè”, rilegatura in brossura economica e tascabile (purché le tasche siano quelle di un pastrano gigante) della Newton narrativa. -Che faccio, comincio a leggerlo senza aver ancora letto “Il gattopardo”?  – mi chiesi. Ora, ripensando a quella domanda, comprendo di aver compiuto inconsapevolmente la scelta giusta, non solo sul piano cronologico. Infatti, aver fatto precedere la lettura de “I vicerè” a quella del “Il gattopardo” mi ha indotto a chiedermi se non vi fosse un rapporto di filiazione tra i due romanzi, così da soppesarli e apprezzarli ancor meglio. Quel giorno (e non solo quello), non seppi dominare la mia curiosità e mi dissi che sì, “Il gattopardo” sarebbe venuto dopo, bisognava prima cimentarsi nella lettura delle 509 pagine del “romanzo terribile”, così definito nell’introduzione di Sergio Campailla.

I viceré” è la saga della nobile famiglia Uzeda di Francalanza, a cavallo di due epoche, la borbonica e la sabauda, lungo quella soglia critica e decisiva della storia risorgimentale che fu l’annessione delle due Sicilie al Regno d’Italia. Vicenda dalle controverse riletture storiografiche fin dagli anni immediatamente successivi ai fatti, quantomeno negli ambienti dell’élite culturale isolana. Periodo di inevitabile transizione, quello post-risorgimentale. I siciliani d’altronde, (in questo affatto diversi da noi pugliesi), mal tollerano l’atmosfera doganale e sospesa di una soglia, di un confine, di un passaggio di stato e di Stati, situazione poco adatta al loro fortissimo senso antropologico di centralità strategica. Tant’è che il romanzo di De Roberto è ricco di un pathos profondo ed inquietante. Tra i numerosi personaggi che lo affollano e le cui storie s’intrecciano, serpeggia una incoerenza di comportamenti dettati da moventi confliggenti, una contraddittoria   nevrosi degli opposti desideri che sfocia in sfoghi verbali, tensioni continue, intemerate improvvise e stravaganti condotte, fino a giungere in qualcuno di loro alla follia, criminale o meno. Quella di De Roberto è una narrazione smisurata, sempre o quasi sopra le righe, sospinta da una sorta di febbrile creatività. Il romanzo è concepito come parte centrale di una trilogia, il ciclo della nobile famiglia Uzeda, nelle cui vene scorre sangue regale spagnolo. De Roberto concepisce e poi costruisce una saga familiare leggibile in molti modi, -vero; ma soprattutto rivelatrice del suo rapporto ambiguo di attrazione-repulsione nei confronti della nobiltà a lui coeva, da lui lambita senza mai sentirvisi integrato. L’autore fa emergere senza filtri la particolare forma di attaccamento al potere di quell’aristocrazia ora scomparsa ma all’epoca viva e vitale. È un potere fatto di latifondi messi a rendita con una mezzadria che sa ancora di vassallaggio medievale. È un potere prevaricante, che usa con disinvoltura i titoli nobiliari come prova di presunta superiorità ontologica e li sbatte in faccia a chi non li possiede affatto o ne ha di minore vaglia per metterlo in soggezione, salvo poi appropriarsi rapacemente dei suoi agi finanziari brigando per un matrimonio conveniente, come quello apparecchiato per Chiara Uzeda, figlia della capostipite Teresa e spinta dalla madre tra le braccia del “marchese” Federico Riolo di Villardita. È un potere che emargina chi non è pronto a sentirne il fascino e l’ebrezza, foss’anche un rampollo di famiglia, come Ferdinando, uno dei quattro figli maschi di Teresa Uzeda “taciturno, timido e mezzo selvaggio per la mala grazia con cui l’aveva trattato la madre” che dopo la lettura del “Robinson Crusoe” donatogli da Don Cono Canalà, “restò sbalordito come da una rivelazione.  Da quel momento la sua selvatichezza s’accrebbe; il suo unico desiderio fu quello di naufragare in un’isola deserta e di provveder da sé al suo sostentamento”. Di fatto, l’isola vagheggiata per il naufragio esistenziale di Ferdinando altro non sarà se non un fondo proprietà di famiglia, dalla terra infima ed improduttiva, chiamato “Le ghiande” perché ricco di querce dei cui frutti son ghiotti i maiali e ciononostante non donato ma affittato al figlio con obbligo di regolare rendita annuale da versare alla madre, impegno impossibile da onorare date le pessime condizioni del terreno e la stravaganza di Ferdinando.

La smania di potere degli Uzeda sa però cambiar pelle e si declina nelle nuove forme imposte dall’unificazione sabauda, pur di resistere alle insidie del tempo e alle sfide della modernità. Ne è un chiaro esempio la figura di Consalvo. Figlio di Giacomo ed unico nipote maschio di Donna Teresa Risà, è il solo esponente di terza generazione della famiglia che possa vantare un albero genealogico in diretta connessione con gli avi spagnoli. Frequenta da ragazzo il monastero di famiglia ma la sua tempra è violenta ed inquieta, ha un’adolescenza turbolenta, ferisce a morte un compagno di bagordi in una rissa, scappa riparando in Piemonte e qui avviene la sua falsa palingenesi moderna e liberale, seguendo le orme dello zio Gaspare, deputato. Torna in Sicilia e diviene egli stesso prima sindaco e poi parlamentare. E nell’epilogo del romanzo, de Roberto ne tratteggia la hybris in poche battute: “Tacque un poco, chiudendo gli occhi: si vedeva già al banco dei ministri, a Montecitorio; poi riprese: – Questo direbbe il Mugnos, redivivo; questo diranno i futuri storici della nostra casa. Gli antichi Uzeda erano commendatori di San Giacomo, ora hanno la commenda della Corona d’Italia – ”.

Dal film: “Il Gattopardo” di Luchino Visconti, 1963

La figura di Consalvo non può non essere accostata a quella di Tancredi Falconeri descritta ne “Il gattopardo” di Tomasi di Lampedusa.  “Homo novus” che annusa il cambiamento nell’aria stantia del vicereame borbonico, Tancredi si fa prima garibaldino, poi sabaudo e grazie alla benevolenza e al sacrificio dello zio Fabrizio, si riscatta dal recente declino nobiliare. Ma lo fa con l’eleganza e la levità di un raro felino (il gattopardo, appunto) e non con la ferocia belluina di uno come Consalvo Uzeda. A ben vedere, però, “Il gattopardo” non è tanto il raccolto di una trasformazione camaleontica come quella di Tancredi, quanto quello di un malinconico declino, quello di suo zio, o “zione”, come amava chiamarlo ironicamente il nipote. È irresistibile il fascino del protagonista, che oggi definiremmo “perdente di successo”, che risponde al nome del Principe Fabrizio di Salina. Figura-chiave dell’intero intreccio, assume tratti semi-divini: “non che fosse grasso, era solo immenso e fortissimo”. La sua bellezza tutta apollinea ed olimpica ed il suo temperamento generoso, franco e non immune da esplosioni d’ira ne fanno una metafora idealizzata a posteriori, della aristocrazia siciliana tardo-ottocentesca di cui l’autore stesso era un rampollo. La forza ed insieme la debolezza de “Il gattopardo”, in fondo sta tutta in questa polarizzazione: da un lato la figura mitologica di Fabrizio Salina, talmente astratta ed iperuranica da essere stata insignita di un riconoscimento dall’accademia di Francia per i suoi studi astronomici; dall’altra, la nobiltà “riciclata” del nipote Tancredi che sposa Angelica, figlia del notabile Don Calogero Sedara. Uomo ricco e potente, Sedara ha cavalcato l’onda delle giube rosse garibaldine, preparando il terreno per la formidabile e repentina presa della Sicilia ad opera dei mille. Tomasi di Lampedusa lo ritrae impegnato da podestà ad orchestrare il rito farlocco del plebiscito e a procurarsi titoli nobiliari che lo rendano degno dei casati Salina e Falconeri. Ma a far gola al futuro genero Tancredi sono piuttosto le migliaia di onze e le numerose terre e proprietà che don Calogero è capace di fornire come dote di sua figlia, la splendida e furba Angelica. Fabrizio Salina comprende che l’unica maniera per garantire all’amato nipote (orfano di padre scialacquatore), un futuro se non glorioso quantomeno roseo, consiste nello spingere Angelica tra le sue braccia. Quindi sacrifica l’immagine di lealtà borbonica che s’era fatto di sé e si convince “obtorto collo” a seguire la corrente, assecondando i nuovi dominanti sabaudi e legando suo nipote ad uno dei maggiorenti del rinnovato sistema di potere. Fabrizio Salina è il personaggio più riuscito dell’intero romanzo ed è talmente ben tratteggiato che, immaginandolo, si ha quasi l’impressione che il connubio aristocrazia-nobiltà possa davvero esistere da qualche parte nel mondo reale, e non solo delle pagine di un romanzo così sapientemente cesellato ed aulico come “Il gattopardo”.

All’opposto, la descrizione dell’aristocrazia ne “I vicerè” sembra il dipanarsi di un bestiario, e la belva più spaventosa di tutte è Don Blasco. Figura talmente eccessiva da risultare grottesca, sorta di Saturno in saio che divora i suoi figli, volendolo accostare al famoso dipinto di Goya. Cognato di donna Teresa Risà, la odia ferocemente poiché alla morte del di lei marito e suo fratello Consalvo VII, nelle mani della vedova Uzeda s’è concentrata tutta la ricchezza della famiglia vicereale, che la donna ha saputo risollevare dalla cattiva gestione del consorte defunto. Ma questo a Don Blasco non importa e non importa per il semplice fatto che quella ricchezza non è più anche sua e pertanto non può esercitarvi l’influenza del suo impetuoso e prepotente carattere. Dirottato fin da giovane, in quanto nobile cadetto, nel monastero dei benedettini dove i monaci facevano “l’arte di Michelasso: mangiare, bere e andare a spasso”, più che al richiamo della fede è incline a quello della carne, sia essa di origine animale o venusiana, da gustare nei lauti banchetti del refettorio monastico o tra le lenzuola di qualche casupola dei borghi vicini, dove il nostro intrattiene rapporti di indole più biblica che evangelica, con prostitute o donne più o meno indigenti, come “la sigaraia”, da cui si vocifera gli sia nato un figlio illegittimo. Alla morte di donna Teresa e all’apertura dei sigilli testamentari, diviene irrefrenabile, torrenziale: sobilla tutti gli eredi a suo dire defraudati, contro il primogenito Giacomo e il prediletto Raimondo, principali beneficiari delle fortune di famiglia. Anche in politica don Blasco non conosce le mezze misure. Alla vigilia dello sbarco in Sicilia, è un borbonico più realista del re e a proposito dei moti del ’48 ringhia: “Ma la colpa più grande credete forse che sia dei sanculotti o di quel ladro di Cavour?”. Poi però, con la nascita del Regno d’Italia, vira repentinamente al liberalismo, non prima di essersi arricchito attraverso la compravendita all’asta dei beni ecclesiastici dopo la soppressione dell’ordine dei benedettini. Un cambiamento solo all’apparenza camaleontico, visto che l’abito monacale è una pura parvenza. Don Blasco resta l’invenzione più ispirata del genio narrativo di De Roberto. La sua parabola (come e più del nipote Consalvo) incarna in modo pratico e volgare quel principio trasformistico che “Il gattopardo” ambientato nello stesso periodo storico ma scritto sessant’anni dopo, fissa nel proverbiale motto “cambiar tutto perché nulla cambi”.  Anche nel caso di don Blasco, è possibile individuare un personaggio in apparenza analogo ma assai più marginale, nella economia narrativa de “Il Gattopardo”, quel padre Pirrone, confessore di Don Fabrizio Salina, decisamente anodino rispetto al vulcanico benedettino, sorta di alter ego conformista di quest’ultimo. Padre Pirrone si accosta al potere per proteggersi ed adoperarlo alla maniera dei gesuiti, cioè in tutte le maniere possibili (Todo modo, direbbe Sciascia) più che bramarlo e seguirne la strada senza scrupoli come fa Don Blasco. Ma il risultato è analogo: sgradevole il primo, disgustoso il secondo.

Ma allora cos’hanno di nobile questi personaggi lontani e stranamente aristocratici, specie quelli de “I vicerè”, così visceralmente attaccati alla “roba”? Stando al dipanarsi dell’intreccio di De Roberto, narrato con stile non più tardo-romantico, non certo verista e non ancora contemporaneo, ma personale, quasi risentito, e con l’irriverenza del cronachista di costume che mette in luce la sostanziale amoralità dei loro comportamenti, di nobile agli Uzeda è rimasto solo il sangue, la schiatta. Ma, come spesso accadeva nell’aristocrazia dell’epoca, la genia loro s’era andata deteriorando in seguito ai frequenti matrimoni tra consanguinei. A simboleggiare questa sorta di disfacimento biologico, la sterilità di Chiara Uzeda, che dopo tante gravidanze isteriche, partorisce un feto morto “pezzo anatomico, il prodotto più fresco della razza dei Vicerè”.  L’atmosfera narrativa da vibratile si fa macabra, simile a racconto dell’orrore alla Poe; l’ironia lascia il posto al sarcasmo. Quello stesso sangue nobile è lo stigma della deficienza, la spiegazione dell’abominio. Qui il gioco di rimandi con il Gattopardo è ancora possibile e ruota intorno ad un passo del romanzo di Tomasi di Lampedusa che allude all’impoverimento genetico dell’aristocrazia, con tono elegante e distaccato, da analisi storico-sociologica, attraverso una notazione intorno all’eccessiva frequenza di matrimoni tra consanguinei propria di quell’epoca,  dettata da  “pigrizia sessuale e … calcoli terrieri”,  così che i salotti buoni avevano finito per riempirsi di “una turba di ragazzine incredibilmente basse, inverosimilmente olivastre, insopportabilmente ciangottanti”. Tutto questo senza lontanamente indulgere in macabre descrizioni di feti nati morti.

Sono dunque così tanti i punti di contatto tra le due opere da rendere davvero plausibile l’ipotesi secondo cui “Il gattopardo” rappresenti una sorta di riscrittura postuma de “I vicerè”: edulcorata, distaccata a depurata dagli eccessi del “romanzo terribile”. In definitiva, con i tanti parallelismi ravvisati nei due romanzi tutto sembra orientato a confermarne il rapporto di filiazione. E si finirebbe per prediligere la maggiore originalità del primo rispetto secondo e successivo, magari enfatizzando la narrazione iperrealista de “I vicerè” rispetto alla elegante e malinconica elegia decadente di Tomasi di Lampedusa. Sarebbe la forza contro la debolezza, la passione contro la nostalgia, la denuncia senza sconti contro la ricostruzione oleografica. Sarebbe il riscatto di un romanzo ingiustamente negletto rispetto al successo editoriale dell’opera venuta dopo e, in qualche misura, debitrice alla prima. Se pensassi questo sarei in buona compagnia, visto che Asor Rosa preferiva “I vicerè”. Ma devo fare i conti con me stesso: ho un debole per Giorgio Bassani. (come non impazzire per l’ultima frase de “Il giardino dei Finzi Contini” e per l’attacco de “Gli occhiali d’oro”?); ebbene, se non fosse stato per Bassani, “Il gattopardo” sarebbe rimasto un dattiloscritto perduto in chissà quale consolle di pregio di una dimora siciliana nobiliare e mai avremmo scoperto ed apprezzato l’ideale di nobile decaduto incarnato da Don Fabrizio principe di Salina. Più che un personaggio, sembra una sorta di concetto, di idea platonica; il suo miglior lascito è una sorta di testamento spirituale, il dialogo con Chevalley. Segretario prefettizio giunto direttamente dal Monferrato, il cavaliere Aimone Chevalley di Monterzuolo ha il compito di convincere don Fabrizio a diventare senatore nel futuro regno d’Italia. Il nostro Salina ringrazia ma declina fermamente l’offerta. E lo fa magistralmente, adducendo argomentazioni che delineano il profilo antropologico di una certa “sicilianità”: “Il sonno, caro Chevalley, il sonno è ciò che i Siciliani vogliono, ed essi odieranno sempre chi li vorrà svegliare”. Denunciando l’incapacità di sviluppare una civiltà propria, Don Fabrizio mette in luce che “sono venticinque secoli almeno che portiamo sulle spalle il peso di magnifiche civiltà eterogenee, tutte venute fuori già complete  perfezionate, nessuna germogliata a noi stessi […] Tutte le manifestazioni siciliane sono manifestazioni oniriche, anche le più violente: la nostra sensualità è desiderio di oblio, le schioppettate e coltellate nostre, desiderio di morte, desiderio di immobilità voluttuosa, cioè ancora di morte, la nostra pigrizia, in nostri sorbetti di scorsonera e cannella”. Nel monologo di Don Fabrizio, di rado interrotto da qualche impacciato interludio di un Chevalley sempre più in soggezione, è custodita una verità profonda, il punto di vista di un autore sul suo popolo, sulla sua gente. Ed in questo sta il valore aggiunto, la zampata felina del gattopardo rispetto a “I Vicerè”. Quando la scrittura è così bella e generosa da offrirti questi doni, non puoi che esser grato a vita all’autore dello scritto.

Mentre penso a queste cose, ritorno con la mente ai luoghi dove tutto è cominciato, alle mie passeggiate sul lungomare di Bari e alle soste all’edicola di piazza Moro. Penso all’aria schiva di quel gigante della politica, allo sguardo limpido e lungo, lunghissimo, di Franco Cassano e temo (sì, temo) che nessun autore nostrano sia ancora riuscito a cogliere l’essenza peculiare di noi pugliesi, a differenza di quanto hanno dimostrato di saper fare di loro stessi gli scrittori siciliani. Sarà forse perché la nostra è un’essenza sottile, inconsistente, un’essenza di confine, limpida ma diafana come la luce di Bari e della Puglia tutta? O sarà perché noi pugliesi, così sottili, così inconsistenti, non siamo ancora riusciti fino in fondo a raccontarci? O sarà per entrambi i motivi, accostati (ancora una volta) come i lembi di un margine?

Gianpiero Berardi

TEMPO

Nell’ultimo articolo ho parlato dell’odierna degenerazione del Tempo (che mette in discussione il luogo). Degenerazione che in questo caso attiene al senso matematico del termine, che indica particolarità, anomalia, riduzione di complessità, “…questo nostro tempo, sempre più asintotico verso il futuro (passato e presente sembrano non avere più peso)…”

Ed è proprio questa complessità che sembra ormai persa a chiedere una ulteriore riflessione. “Perché il tempo dovrà ritornare al suo rango”, ho scritto, ma allora qual è il rango del Tempo?

Relatività, di M. C. Escher

Quella del tempo è una cattedrale escheriana le cui scale conducono a molteplici direzioni di pensiero, convergenti, divergenti, parallele, incidenti: orologi molli, storia, memoria, tempo lineare, progressivo, unidirezionale, sospeso, indefinito, Kronos e Kairos, fiume fatto di eventi, assoluto, soggettivo, cosmico, dell’anima, fanciullo che gioca, circolare, ciclico, tempo perduto, indistruttibile metronomo con occhio, pura illusione, eterno… BOOM!

Il tempo è il corto circuito dello scibile umano! Esercizio filosofico impossibile, errore circolare della ragione, terreno che non ammette né tesi né dimostrazioni, nessuna dottrina dunque ma solo esperienza personale.

Come dire, c’è un tempo al di fuori di noi – ogni riflessione in questo senso sarebbe un folle volo – e un tempo dentro di noi, su cui voglio invece riflettere, in cui ogni vissuto singolare può essere considerato verità.

Joseph Conrad, Ucraina, 1857 – Regno Unito 1924

Nel mondo della letteratura, un’opera in particolare ha saputo indagare magistralmente questo rapporto intimo e introspettivo tra Uomo e Tempo, un’opera dall’eleganza assoluta, una storia di mare, di velieri e di viaggi, dall’atmosfera coloniale, pregna di aromi di tabacco e fumo di pipa, e del suono dello sciabordare delle onde e della spuma di mare. È la Linea d’ombra, (The Shadow Line: a Confession, 1917), romanzo breve di Joseph Conrad.

Al di là della trama – le vicende di un giovane primo ufficiale di una nave a vapore che solca i mari d’oriente che improvvisamente rinuncia al suo lavoro per poi ritrovarsi, inaspettatamente e dopo un breve periodo di inattività, al comando di un veliero fermo a Bangkok per via della morte del suo capitano – ai fini della presente riflessione risulta illuminante l’incipit:

“Quando si è molto giovani, a dirla esatta, non vi sono momenti.

È privilegio della prima gioventù vivere d’anticipo sul tempo a venire, in un flusso ininterrotto di belle speranze che non conosce soste o attimi di riflessione.

Ci si chiude alle spalle il cancelletto dell’infanzia, e si entra in un giardino di incanti. Persino la penombra qui brilla di promesse. A ogni svolta il sentiero ha le sue seduzioni. E non perché sia questo un paese inesplorato. Lo sappiamo bene che l’umanità tutta è passata di lì…

Già. Si va avanti. E anche il tempo va, fino a quando innanzi a noi si profila una linea d’ombra, ad avvertirci che bisogna dare addio anche al paese della gioventù.”

Ecco subito rivelata l’architettura del romanzo, la chiave di lettura che sgombera il campo da ogni ambiguità interpretativa e che rende esplicito l’implicito annidato nella storia. C’è una fase della vita di ognuno – semplificando, la gioventù – in cui il problema del Tempo semplicemente non esiste. Il giardino dell’incanto è così ricco di seduzioni da appiattire il Tempo e ridurlo ad entità adimensionale; un punto, che ammette solo e soltanto il presente.

Sarà solo il caso, un incontro, un evento positivo o negativo capace di lasciare il segno, insomma l’hazard di rousseauiana memoria – nel romanzo è proprio l’incontro casuale del protagonista con il capitano Giles, nell’albergo dell’ufficio portuale, ad aprirgli la strada verso il suo primo comando di un veliero – a decretare la fine di quest’incanto, di questa illusione, segnando il passaggio dalla giovinezza all’età matura.

Attenzione però a non traslare il discorso dalla questione temporale, che rimane centrale, a quella più banale dell’essere giovane o adulto o addirittura alla casualità degli eventi che possono segnare la vita di ognuno – i fatti che accadono non sono forse figli del tempo che li porta?

La questione viene ben spiegata dal critico Ian Watt: con la linea d’ombra “Conrad non si sta riferendo a quegli ovvi indicatori temporali…legali o politici come la maggiore età o biologici come la maturità sessuale… ma ad un concetto sociale e personale. Avvicinandola si è consapevoli solo di un vago cambiamento d’atmosfera di cui non si comprende neanche la causa”. Ed è proprio in questo cambiamento di atmosfera che si annida la questione Uomo/Tempo che qui si vuole indagare, nella sua dimensione più intima e soggettiva.

Eh sì, perché in realtà più che una linea d’ombra, ad un certo punto della vita, ci troviamo al cospetto di uno spazio d’ombra dalla profondità imperscrutabile, in cui la percezione del Tempo cambia irreversibilmente rivelandosi in tutta la sua profondità. D’ora in poi non esisterà più solo il presente, ma si comincerà ad avvertire forte il passato così come la preoccupazione per il futuro.

Nel rapporto intimo tra Uomo e Tempo, dunque, più che il continuo presente in cui si risolve la vita, ad un certo punto, è il passato a divenire prevalente, è il passato che non passa a costruire identità, con i suoi eventi significativi che restano intrappolati nella rete della memoria e che orientano l’ago della bussola delle decisioni suggerendo direzioni di vita, non le banalità e le ripetizioni in cui si perde buona parte della nostra quotidianità.

Ma ritorniamo al romanzo.

Il primo comando, accolto con entusiasmo dal protagonista, si rivela ben presto un inferno: la mancanza di vento che immobilizza il veliero, l’equipaggio che si ammala di febbre gialla, il sabotaggio del chinino a bordo sostituito da chissà chi con altra mistura che ne rende impossibile la cura, il profilarsi di una sorta di maledizione legata alla figura del vecchio capitano morto… Eppure, tra mille difficoltà e senza possibilità di chiedere e ottenere aiuto, il protagonista riesce a portare il veliero a destinazione e l’equipaggio in salvo. E così, giunto finalmente a terra, quando il capitano Giles gli dirà: “Dovete avere addosso una stanchezza considerevole” il protagonista risponderà “No, non è stanchezza. Vi dirò invece come mi sento… mi sento vecchio. E credo di esserlo.”

In realtà il protagonista non può essere vecchio – l’inaspettata impresa non ha richiesto poi così tanto tempo! Nel suo sentirsi vecchio c’è il peso di un passato che lo ha forgiato e che è rimasto dentro di lui. È questo passato che per continuare ad esistere ha bisogno di profondità temporale, di una diluizione del Tempo che da punto adimensionale deve diventare spazio per riuscire a contenerlo, proprio come l’ombra ha bisogno di profondità spaziale per potersi stagliare sulle superfici, ecco la geniale intuizione metaforica che ha consegnato alla storia questo romanzo.

Nella linea del Tempo è il passato dunque la vera dimensione temporale che costruisce identità, sia sul piano individuale che sociale e che si pone in diretta comunicazione con il nostro intimo. È il passato immateriale dei fatti accaduti, è il passato materiale che arriva sino a noi dalle testimonianze storiche, una chiesa medievale, un libro del 700, un reperto…

È per questo che dovremmo averne cura e custodirlo:

“Io sono una forza del Passato.

Solo nella tradizione è il mio amore.

Vengo dai ruderi, dalle chiese,

dalle pale d’altare, dai borghi

abbandonati sugli Appennini o le Prealpi,

dove sono vissuti i fratelli…”

10 giugno, Pier Paolo Pasolini

Trento Vacca

29 Note – Poesie di Antonella Vairano: nell’ampia periferia dell’amore

Amedeo Modigliani
Jeanne Hébuterne

Gli occhi cerulei di Jeanne Hébuterne, giovane pittrice parigina, (1898 – 1920) trafissero quelli di Amedeo Modigliani (1884 – 1920) quando, per la prima volta, s’incrociarono per le vie d’una vitalissima Montmartre in una Parigi di inizio Novecento, lì dove, tra caffè letterari illuminati dalle luci della Belle Époque, locande dell’ultima ora e laboratori d’arte, s’incontravano, per caso o per destino, pittori quali Marc Chagall (1887 – 1985), Maurice Utrillo (1883 – 1955) o scrittrici quali Geltrude Stein (1874 – 1974) con Alice B. Toklas (1877 – 1967)1

A. Vairano, 29 Note – Poesie, Youcanprint, 2018

Nella sua casa di Montmartre, Modigliani amò dipingere quegli occhi, tanto chiari da sembrare vuoti, sopra un viso variamente reclinato così come tante sono le declinazioni dell’amore. Ed è proprio la sfrenata passione tra Modì e Jeanne, terminata tragicamente, ad ispirare Antonella Vairano nell’opera d’esordio: 29 Note – Poesie. 

Abbiamo l’impressione di elevarci, di salire ad alta quota dove l’aria si fa rarefatta, il respiro corto e tremanti le ginocchia, perché l’autrice scrive d’amore.    

Ci chiediamo se sia possibile scrivere d’amore, oggi tra le macerie delle città martoriate o nei sotterranei affollati delle metropolitane. Ed in quale modo?

L’autrice raccoglie la sfida: scende in strada, percorre caliginosi vicoli, si spinge negli anfratti più bui dell’amore, città eternamente cinta da alte mura imbrattate di vita: “S’ingorda di bianche pareti / e s’affolla di rosso potente. (…) Sono i miei azzardi / che si sciolgono / nell’ordine / di due lune allineate.” (dalla lirica: Vita).

Max Jacob, Château des Brouillards, 1918, olio su tavola (collezione Le Vieux Montmartre)

Ella non esalta l’amore inteso come valore da preservare, ma lo osserva nella relazione amorosa tratteggiandone le emozioni. Per questo, esso non cede mai a vani sentimentalismi o inutili smancerie, è sostanza prima, sale della terra. Così ella scrive: “S’affaticano le parole / e d’essere ne vorrebbero dell’amore / pane carne e sangue. […] S’infiammano le parole / e d’essere sono la riga profonda / del pregevole marmo.” (da: Cos’è l’amore). L’amore dunque si fa sanguigno, essenziale ed il suo verso, carnale. Non una poesia imbellettata, sentimentale, ma del sentire d’amore nella quale il corpo, involucro dell’anima, diviene doloroso bersaglio: “Brucia. / E quanto brucia. / Lacrime ingravidano / nel ventre, / raccolte da voli stanchi.” (da: Brandelli)

Si scorge, dunque, nei versi d’amore della Vairano, la stessa impetuosa carnalità che rintracciamo in Marina Cvetaeva: “Vandalo in un’aureola / di vento! Riconosco / l’amore dallo strappo / delle più fedeli corde / vocali: ruggine, crudo sale / nella strettoia della gola.” (da: Scusate l’Amore. Poesie, 1915-1925)

L’amore dunque può essere bruciante: “Squarci invalidi / infettati / da lame arrugginite / Sotto la colonna di carne. / Sola. / Già trita.” (da: Brandelli) Ma, qui, gli strati di senso sembrano sovrapporsi, anzi, il significato letterale sembra scalzare quello metaforico poiché abbiamo l’impressione che l’autrice rappresenti il parto nel suo doloroso divenire: “Passione necessaria / che non vuole finire.” (da: brandelli)

     È un viaggio, l’amore, nel quale l’autrice perde sé stessa per divenire nell’altro: “Costruiamo corpo tuo e corpo mio. […] Fa’ che mi perda / come la partenza senza il viaggio. / Sei l’iscrizione marchiata / nel mio osso. (da: Fly high). Ma l’amore è anche contraddizione, moltitudine di pensieri ed emozioni: “La mia porta sarà la tua / fortezza alloggiata. / Non mi perdo, amore. / Alberi d’aranci intorno. (da: Alberi d’aranci) Sembra essere centrata sulla distanza, questa nota poetica, nella quale l’autrice, lontana dalle facce sfogliate velocemente, sperimenta il vuoto di giorni inutili in assenza dell’amato: “Non voglio il mondo di facce. / Misura colma. / Sbandati giorni / che non uso. / Appendo il solco. / Mastico vita e mangio amore.” (da: Alberi d’aranci)

Percorrendo le vie di quest’amore, ci imbattiamo in una lirica che è un’impetrazione, accorata supplica nella quale l’autrice chiede che si spengano le luci, si chiudano i rossi sipari, si ammainino le vele perché ella possa sentire il proprio dolore nel profondo di sé: “Ed ora per favore / per favore vi chiedo / spegnete le luci / serrate sicure le chiavi / nelle serrature. / Chiudete i sipari /dal pesante velluto di porpora.” (da: Preghiera). Risuonano, qui, lontani echi di un altro intenso dolore perché, nel cielo ultimo della Poesia, i versi possono stringersi contaminandosi: “Stop all the clocks, cut off the telephone, / Prevent the dog from barking with a juicy bone, / Silence the pianos and with muffled drum / Bring out the coffin, let the mourners come.” (W. H. Auden, Funeral Blues, 1938)2

L’amore è anche e soprattutto coraggio ed ecco che l’autrice invoca l’amato affinché la spinga fuori dalla sua tana: “Stanami dal sedimento. / Stanami dall’inerzia / Prendi l’acqua che sazia l’argine e il desiderio / brucia la tana che corre l’ombra al contrario”. (da: Sole obliquo) Solo l’amore, dunque, può risvegliarci dal lungo sonno, trarci dalle nostre nicchie interiori, dalle caverne buie nelle quali scorgiamo soltanto un barbaglio, una tremula ombra, non la piena luce. “I slept, say: a snake / Masked among black rocks as a black rock / In the white hiatus of winter – “(da: Love Letter, 1962)3

È questo il sonno di Sylvia Plath dal quale ella riesce a risvegliarsi grazie all’amore. Per la Vairano, invece, è l’inerzia, la stanchezza, l’ignavia, l’altra faccia dell’amore; così, illuminato il volto, l’autrice scrive: “E m’investe l’amore. / Ed io ubriaca / m’involgo / nella città prima. / Scalza d’amore, / sulla via dell’amore.” (da: Inside)

Come pagliuzza d’oro è, l’amore, e noi, cercatori di Jamestown, lo inseguiamo quasi disperatamente. Per questo, quando, per incanto, lo stringiamo tra le mani, anche solo per un attimo, non sappiamo più dimenticarlo. È questo il senso, la pagliuzza dorata che rinveniamo sul greto di “La ballata della poesia”: “Non credi / devi / tocchi e senti / ad antiche promesse / di non essere / pensiero e memoria. / Il tempo ti ha tradito / e la poesia ha perso”. Promettiamo, ci imponiamo di non ricordare quell’amore ormai finito ma, il tempo ci tradisce, sgambetta, rovesciando in terra il sacchetto dei ricordi.

Tra memoria e oblio, rabbia e gioia, nella grande periferia della città eterna, scorgiamo una bambinetta vestita di rosa, ha scarpe di pezza e bocca ancora sporca di latte.  È incerta sulle fragili caviglie ed inciampa in un foglio di giornale: è la lirica “Mani” che s’incammina, lenta, sulla via della tenerezza e del sogno: “M’importa del sogno. / Stordisci la mia sentenza / e la mia virtù / E facciamo questa scena: / tu abbracciami delicato.”

Sole obliquo

(di Antonella Vairano da: 29 note – Poesie, 2018)

Stanami amor mio

Stanami dal sedimento

Stanami dall’inerzia.

Prendi l’acqua che sazia l’argine e il desiderio

Brucia la tana che corre l’ombra al contrario.

Sei meraviglia

E danza semplice

E anche eco

E affanno forte.

Sei dimora

E confine notturno.

Moriamo dentro….

In questo sole obliquo

Di città e distanze.

Periferia urbana, Torino

Slanting Sun

(traduzione in inglese di Giulia Sonnante)

Drive me out my love

Drive me out of sediment

Drive me out of idleness

Take water that satisfies banks and desire.

Burn the den that edges shadows inside out  

You are a marvel

and mere dance.

Also an echo

and deep concern as well.

You are a dwelling place

and a night boundary.

We die deep inside….

Under this slanting sun

of cities and distance.

Giulia Sonnante

Antonella Vairano

  1. All’amore di Geltrude e Alice è ispirata la poesia di Antonella Vairano “Lettera di Stein”, disponibile per l’ascolto sul canale Youtube dell’autrice.
  2. [Fermate tutti gli orologi, isolate il telefono, / Fate tacere il cane con un osso succulento, chiudete i pianoforti e con un rullio smorzato / portate fuori il feretro, lasciate che giungano i dolenti] traduzione di Giulia Sonnante
  3. [Diciamo che ho dormito, un serpente/ Mascherato da sasso nero tra i sassi neri / nel bianco iato dell’inverno] traduzione di Anna Ravano.

LA POESIA COME ATTO RIBELLE

La poesia è un atto generativo, un atto feroce, a volte, che si spinge oltra la parola, generativa di mondi, per dirla alla Celan, e, nello stesso tempo, ribelle nel suo umile e audace modo di resistere al mondo.

Non c’è atto poetico che non sia anche atto ribelle, ancor più quando la poesia viene da quelle poete che hanno dato un contributo importante alla costruzione di una visione politica della poesia: la poesia è atto eversivo e, quindi, politico nel momento in cui provoca le coscienze e genera azioni, è azione della parola, o parola in azione e si fa istanza dialogica tra il poeta e la sua comunità. Mi vengono in mente alcune poete americane, come Adrienne Rich, poeta, saggista ed insegnante, vicina alle donne ed agli emarginati, mi vengono in mente le poete afroamericane, come Audre Lorde, Maya Angelou, Lucille Clifton.  Le ho scoperte per caso, queste poete, da una poesia di A. Rich, dedicata alla gente, la Rich descrive, in alcuni fotogrammi, la vita delle persone normali, che si fermano a leggere una poesia, seppur immerse nella loro quotidianità.

Adrienne Rich, 1929 – 2012

“So che stai leggendo questa poesia

in una stanza in cui è accaduto troppo che non puoi sopportare

dove i vestiti giacciono sul letto in cumuli stagnanti

e la valigia aperta parla di fughe ma non puoi ancora partire.

So che stai leggendo questa poesia in attesa di udire qualcosa, divisa tra amarezza e speranza, per poi tornate ai compiti che non puoi rifiutare.

So che stai leggendo questa poesia perché non c’è altro da leggere,

lì dove sei approdata, nuda come sei.”

Qualcuno aspetta il treno, all’uscita dall’ufficio, dopo una giornata di lavoro, una madre tiene in braccio suo figlio che piange, qualcun altro è davanti alla tv ad ascoltare le solite notizie ed in questa routine, qualcosa accade: la persona prende una pagina di libro e legge una poesia. E questo cambia ogni cosa, la poesia è capace di aprire uno squarcio, un momento di astrazione dalla vita, che procede deterministicamente, e quel momento in cui gli occhi sono sul testo, l’anima si solleva. Allora la poesia è un atto eversivo anche se per un solo momento ci permette di staccarci dalla corporeità del vivere, dal guardare senza davvero vedere, dal sentire senza alcun ascolto, ci permette di centrarci, di darci attenzione. Tutte queste poete hanno in comune la scelta di fare della propria poesia un atto ribelle, con stili differenti, ma in qualche modo vicini, hanno dato parola alla donna, alla donna nera, alla donna lesbica, all’emarginata, alla donna giovane, inesperta difronte alla vita, restituendole voce e dignità.

Audre Lorde, 1934 – 1992

«Per le donne la poesia non è un lusso. È una necessità vitale. Forma la qualità della luce all’interno della quale noi affermiamo le nostre speranze e i nostri sogni per la sopravvivenza e il cambiamento, prima sotto forma di linguaggio, poi di idea, infine di azione». Afferma Audre Lorde, la poeta «Nera, Lesbica, Madre, Guerriera, Poeta» come si autodefiniva.  La Lorde vive sulla sua pelle il razzismo ed il peso della diversità, perché nera, perché lesbica, perché donna. Pronuncia la sua audace parola nelle strade, generando un movimento di lotta per l’emancipazione femminile.

Bisognerebbe restituire fiducia alla parola, riconoscerle il potere di agire davvero il cambiamento, “ora prendi la mia parola come un gioiello in piena luce», dice la Lorde, la parola e la luce, la parola che illumina. E non finisce mai il tempo della rivolta, il tempo eversivo, in cui la parola si fa impegno civile per affermare i diritti e denunciare le ingiustizie, non finisce mai il tempo delle ingiustizie e, in ogni epoca, bisogna trovare gli strumenti per combatterle.

Tra questi vi è certamente la parola poetica, il suo valore educativo e pedagogico, quando si fa strumento per arrivare alle giovani generazioni, quando parla la loro lingua, quando rivendica il superamento del pregiudizio e dell’intolleranza.

Maya Angelou 1928 – 2014

Maya Angelou, poco conosciuta in Italia, è invece una delle poete afroamericane più amate, impegnata politicamente come militante ed attivista dei diritti degli afroamericani con Malcom X e Martin Luther King, una donna che viene dalla miseria, costretta a prostituirsi, divenne madre a soli 17 anni. La sua opera letteraria è stata molto prolifera, viene considerata un’influente intellettuale, una personalità che è riuscita ed ergersi, nonostante tutto, come nella sua famosa poesia ripete:

“…

In un’alba meravigliosamente chiara, mi sollevo.

Portando i doni che i miei antenati mi diedero,

io sono il sogno e la speranza dello schiavo.

Mi sollevo, mi sollevo, mi sollevo.”

Mi sollevo” ripete la poeta, come una litania, un canto di liberazione e di lutto insieme, un inno eversivo contro chi ha schiacciato nei secoli, le donne, i neri, le donne nere, gli emarginati, gli ultimi. Allora queste parole di resurrezione, di rinascita sono la vittoria dei deboli, la rivincita contro i soprusi e le ingiustizie del mondo, contro gli ingiusti.

«Appena sei guarito, va’ a guarire qualcun altro» afferma Maya Angelou, ed a me piace molto l’idea del prendermi cura dell’altro con la poesia, attraverso la parola poetica che è  parola terapeutica e liberatoria, parola che salva e ci porge la nostra fragilità come un bene prezioso di cui occuparci.

Lucille Clifton, 1936 – 2010

Ed infine, c’è lei, Lucille Clifton, poetessa, scrittrice ed educatrice, convinta femminista, ha parlato una lingua semplice e meticcia, nata dalla strada e di questa lingua rotta ha cantato la donna e la sua fragilità. La Clifton ripudia le maiuscole, vuol riportare la lingua all’uso quotidiano senza ambizioni di potere, le sue poesie sono brevi e fortemente evocative. Nella poesia dal titolo Qui ci sono draghi tuttora, la Clifton dice:

“…nella bocca del drago. da qualche parte

ci sono mostri i cui denti

sono affilati e luccicanti di gente

perduta. poesie perdute.”

In un tempo faticoso, come il nostro, dovremmo andare a riprenderci le parole dalla bocca di quel drago e salvarle, per salvarci con loro.

Mariatina Alò

Martin Luther King, 1929 – 1968 (insignito del Premio Nobel per la Pace, 1964)

Nelly Sacks: Ma chi vi tolse la sabbia dalle scarpe, quando doveste alzarvi per morire?

Nelly Sachs nasce a Berlino, figlia di due ingegneri ebrei, nella Germania di fine Ottocento.

Da ebrea berlinese l’autrice sperimentò gli anni della persecuzione hitleriana e sfuggì agli orrori dello sterminio grazie all’aiuto dell’amica scrittrice Selma Lagerlöf che ottenne per lei un permesso di soggiorno in Svezia. Iniziarono anni di fervida creazione poetica, imparò a conoscere i motivi della mistica ebraica che costituiscono il riferimento costante di tutta la sua poesia che unisce con singolare naturalezza due termini apparentemente contrastanti: una chiara leggibilità e una evidente inclinazione mistica.

Dopo avere ricevuto l’ordine di presentarsi a un campo di lavoro, nel 1940, riesce a fuggire in Svezia, dove si stabilisce e vivrà per tutta la vita.

Nel 1947 viene pubblicato il suo primo libro di poesia. Nel 1950 inizia una serie di lunghi periodi di ricovero in ospedali psichiatrici.

Le raccolte poetiche degli anni Cinquanta la segnalano all’attenzione del pubblico tedesco. Tra i suoi estimatori spicca Paul Celan con il quale intreccia un rapporto epistolare nutrito da reciproca ammirazione e destinato a sfociare in una intensa amicizia. Si incontreranno solo nel 1960 a Zurigo e a Parigi.

Dagli anni Sessanta la fama di Nelly Sachs diventa internazionale e nel 1966 riceve il Premio Nobel. Muore a Stoccolma nel 1970.

Deserto del Sinai

Ma chi vi  tolse la sabbia dalle scarpe,
quando doveste alzarvi per morire?
La sabbia che Israele ha riportato,
la sabbia del suo esilio?
Sabbia rovente del Sinai,
mischiata a gole di usignoli,
mischiata ad ali di farfalla,
mischiata alla polvere inquieta dei serpenti,
mischiata a grani di salomonica sapienza,
mischiata all’amaro segreto dell’assenzio.

O dita,
che toglieste ai morti la sabbia dalle scarpe,
domani già sarete polvere
nelle scarpe di quelli che verranno!
1

Quando il giorno al crepuscolo si svuota

e il tempo non ha più immagini

e si uniscono le voci solitarie –

gli animali altro non sono

che cacciatori o cacciati –

solo profumo i fiori –

quando ogni cosa diventa innominata

                                                   come all’inizio –

scendi nelle catacombe del tempo,

che si aprono a chi è prossimo alla fine –

là dove crescono i germogli del cuore –

cali

nell’interiorità oscura –

sfiorando la morte

che è solo un passaggio turbinoso –

e nell’uscire

apri rabbrividendo gli occhi

gli occhi dove una nuova stella

ha lasciato il suo riflesso2

Se i poeti irrompessero

per le porte della notte,

lo zodiaco dei demoni

come orrida ghirlanda

intorno al capo –

soppesando con le spalle i misteri

dei cieli cadenti e risorgenti –

per quelli che da tempo lasciano l’orrore –

Se i profeti irrompessero

per le porte della notte,

accendendo di una luce d’oro

le vie stellari impresse nelle loro mani –

per quelli che da tempo affondano nel sonno –

Se i profeti irrompessero

per le porte della notte,

incidendo ferite di parole

nei campi della consuetudine,

riportando qualcosa di remoto

per il bracciante

che da tempo a sera ha smesso di aspettare –

Se i poeti irrompessero

per le porte della notte

e cercassero un orecchio come patria –

Orecchio degli uomini

ostruito d’ortica

sapresti ascoltare?

Se la voce dei profeti

soffiasse

nei flauti-ossa dei bambini uccisi,

espirasse

l’aria bruciata da grida di martirio –

se costruisse un ponte

con gli spenti sospiri dei vecchi –

Orecchio degli uomini

attento alle piccolezze,

sapresti ascoltare?

Se i poeti entrassero sulle ali turbinose dell’eternità

se ti lacerassero l’udito con le parole:

chi di voi vuole far guerra a un mistero,

chi vuole inventare la morte stellare?

Se i profeti si levassero

nella notte degli uomini

come amanti in cerca del cuore dell’amato,

notte degli uomini avresti un cuore da donare?3

Nelly Sacks 10 dicembre 1891 Berlino, 12 maggio 1970 Stoccolma, Svezia

A cura di

Antonella Vairano


  1. (Traduzione di Ida Porena) da “Nelle dimore della morte”, in “Al di là della polvere”, Einaudi, Torino, 1966
  2. Nelly Sachs – Le stelle si oscurano, 1944-46 – trad. Ida Porena
  3. Nelly Sachs, Poesie, a cura di Ida Porena, Einaudi 2006

IOLANDA INSANA: Una Ruminante della Parola   

Parole dense in un’esistenza ancora più densa, scorticata sino all’inverosimile. La guerra, i bombardamenti di Messina, il terremoto, le bestemmie, il dialetto acceso di sensi, la parola sempre affacciata nel nuovo di un’invenzione linguistica cucita dentro lo stomaco delle emozioni e dei significati.

Una ruminante della parola e del verso. Una fune sempre allungata nella tensione accesa verso pesi nuovi e schiuse ancora mai pensate.

vagarono per due giorni

cercandosi in mezzo alle rovine

della città morta

al terzo giorno arrivarono al Duomo

caduto per terra

Santuzza sbucando da corso Cavour

e Bastianu da via I Settembre

fu lui che la vide per primo

ed ebbe un colpo al cuore

ma corse e la baciò e l’abbracciò

lacrime e baci si mischiarono

e caddero a terra

e per la prima volta si amarono

nel disastro rinasceva la vita1

Lo scavo agito da Iolanda Insana alla ricerca della parola la tiene nel preciso spazio che unisce parola e storia, parola e passione per l’umano andare, per le umane vicissitudini. Ogni rimando ne chiama altri, ogni rimando sposta verso altro: è un’antropologia sommersa e sommessa che si nutre di pietas verso quella piena conoscenza di radici che conosce e di cui ha cura fonda. La sua dissacrazione della parola è intimo gesto d’amore per una realtà misera, sofferente, abbrutita ma – proprio per questo – profondamente viva, attuale, intramata di un indicibile che lei sa, con arte, irretire in poesia dai toni viscerali e accesi. Leggere Iolanda Insana è calarsi in una tonnara di rossi ferrosi.

Iolanda non scansa mai l’inafferrabile dell’esistenza, ama accarezzare il dannato del dentro del verso. La Sua parola ci giunge, sempre, dal fondo venoso di una lotta giocata all’interno di sonorità straziate e – dopo – ricomposte sapientemente.

la rotativa sussult

ondeggiò

e si fermò

a pagina

28

della rivista

<La rinascita della Sicilia e delle Calabrie>

mai più stampata2

Ogni suo titolo di raccolte, sillogi è punta di fioretto giocata su nastri rocamboleschi del significare: Sciarra amara, Fendenti fonici, Coltellate di bellezza, Schiticchio e Schifio, La Clausura, Medicina carnale, La tagliola del disamore, Satura di cartuscelle…

In continua e operosa fuga verso un universo linguistico che La dica, nomina la tradizione poetica mentre ne disfa ogni aulicità. Il Suo è movimento denso verso la corporeità e lo spessore vellutato delle combinazioni foniche.

s’imbriacau e vomitau

la terra

poteva farsi venire il mal di pancia

da un’altra parte

in mare aperto

contorcersi e spaccarsi

e invece ha sfiatato veleni

e s’è rimpallata con l’onda

ai piedi della Madonna della Lettera3

Tutto, nella parola di Iolanda Insana è tellurico: Lei sa cosa sia un movimento di terra che diviene movimento di viscere del sentire così come conosce il rapporto tra maceria e memoria ed è incredibile il modo in cui riesca a coniugare movimento di terra e movimento di parola. Ogni Sua parola è ciottolo, scheggia, pietra divelta. Ma Lei conosce le fiumare e le corse verso i rifugi durante i bombardamenti e i giochi tra le macerie e la ricerca dello spazio all’aperto. Ogni movimento esistenziale, in Insana, è di tensione in avanti, è la sua vita a sguantare grammatica e lei segue ritmo e respiro annodando l’impensabile.

Tra gli strumenti del Suo andare nell’universo linguistico, centrale il ruolo avuto dagli studi di filologia che rendono possibile smussare ma –soprattutto- trattenere l’animalità come eco profondo all’interno della parola, animalità come cassa primigenia della comunicazione tra umani. Ogni parola pare giungere sempre da lontano e mantenere il suono che l’ha definita mentre l’amigdala ne segnava segno sulla roccia di pareti-ventre.

Nunziatina

la mia bisnonna

scampata bambina al cataclisma

dalla Puglia emigrò in Piemonte

e per tutta la vita

ebbe nostalgia della città

e nessun desiderio mai di tornare tanta fu la paura4

La Sua poesia è dentro la radice dell’esperienza vissuta, attraversata, bestemmiata. Nella Sua esistenza sperimenta la libertà e la bellezza del primigenio all’interno di una fanciullezza in cui l’ordine disfatto dalla guerra la obbliga a stare nel precario, nei luoghi aperti, nella geometria della natura con le sue forme precise d’esplosione cromatica. Saranno questi elementi a costituire una memoria cellulare cui attingere impavida, una vora di selvaggio che andrà al di là della fine formazione classica appartenutaLe.

Leggere segni e pieghe dell’esistenza, indagare la vita come sacerdote su di una ziqqurat, sempre sprofondata ad indagare buio di notte, indagare nella Sua poesia è perdersi in rotte inusuali dell’anima.

Gli affreschi dei Frammenti di un oratorio per il centenario del terremoto di Messina, sono equivalente dei calchi in gesso realizzati tra gli scavi della Pompei del 79 d.C. grazie alla tecnica di indagine di Amedeo Maiuri. La vita si ferma nell’attimo preciso in cui viene fissata nel verso e consegnataci nella torsione del dolore estremo.

Accurrìti accurrìti gente/ me figghia me figghia/ portate una scala/ me figghia/ accurrìti accurrìti7 u focu u focu sa mancia/ viva/ a fini du munnu/ a fini da so vita/ viniti curriti/ ‘na scala/ tièniti tièniti/ figlia5

Di bellezza sfrenata il sentire di Iolanda Insana, un Sud dell’anima tutto consono e interno alla radice magno-greca quale filtro del sentire e del comprendere in un orizzonte in cui nulla è sbiadito e sussurrato, tutto e accesso e urlato con un contenimento che rende la Sua scrittura di fine drammaticità, di imponente passione nella Sua capacità di fare propria l’intera coralità della mediterraneità.

Anna Rita Merico

Iolanda Insana, Messina, 1937 – Roma, 2016


  1. Iolanda Insana, Cronologia delle lesioni 2008-2013, Luca Sossella ed. 2017, pg 60
  2. Ivi pg 40
  3. Ivi pg 36
  4. Ivi pg 37
  5. Ivi pg 31

IL LOCKDOWN: TRA ANALISI DEI SOGNI E ISPIRAZIONE POETICA

Alessia Marconcini è una psicoterapeuta, ha raccolto i sogni di amici e pazienti durante il confinamento della primavera 2020 e li ha trascritti, analizzati: uno sguardo attento sulle nostre fragilità, i timori, le speranze.

Alessia Marconcini

Ricchissimo il materiale onirico che ne emerge: carestie, cieli neri, guerre e altre catastrofi, finanche il suicidio di Lorella Cuccarini; ma anche nuovi e vecchi amori, viaggi e mare, conchiglie e luoghi incontaminati, donne che si spogliano e candidi cigni. Non pare esservi un denominatore comune, quanto piuttosto la ricorrenza di alcuni topoi: fra questi la casa e la presenza di animali.

La casa non è quella propria (e viene in mente Casa d’altri, il «racconto perfetto» di Silvio D’Arzo): o ci si trova in una casa estranea o, se propria, non corrisponde all’abitazione reale. Viene a mancare il guscio che protegge, spiega l’autrice, e la casa – archetipo di sicurezza e di calore – cede il posto al venir meno delle certezze, all’espropriazione della vita quotidiana.

E poi gli animali. Cani, rane, lumache, api, ratti, cavalli, felini di ogni sorta e un grande cigno bianco. Presenze – avverte Marconcini – che lasciano «ipotizzare l’inevitabile venire a contatto con parti profonde e primitive di sé, nonché il timore di non tenerle a bada».

Uno studio puntuale ma non criptico, divulgativo senza banalizzazioni. Un libro bello e autorevole, accattivante, singolare.

Esprit de finesse ed esprit de géometrie coesistono in queste pagine di Aurora Castro, il primo racchiuso nel perimetro del secondo.

Geometrico – simmetrico – è infatti l’impianto dell’opera, divisa in quattro sezioni introdotte ciascuna da una citazione in esergo, seguita da un preambolo. Poi una serie di versi, o meglio frammenti di prosa poetica numerati in crescendo, tra i quali si incuneano (brusca e voluta cesura) le Notizie del giorno. Fitte, queste, di numeri e percentuali, impietosamente algide nella loro materialità: i contagi e i decessi da coronavirus nei giorni più bui della sua diffusione, i settanta giorni di confinamento o lockdown – di coprifuoco, preferisce chiamarli l’autrice.

Se la struttura è compatta, costrittiva quasi, come la pandemia istituzionalizzata, la versificazione non ne soffre; e costruisce ritmi cadenzati e densi, pregnanti e sobri, muovendosi lungo una linea sinusoidale che alterna scenari di resa e di speranza, vitalità e sgomento:

Nuvole sparse / farfalle contratte al sole / rovesciate nell’acqua

Il cielo nel sangue di un fiore

Il nulla di una tomba nera / morsicata dai calabroni d’agosto


Rondini che cantano / la sera che canta / sopra le nostre vite

Il corpo in cui ogni sera cade / una strofa d’amore

Tre madri / che allattano i figli nel buio di una stanza, l’odore d’agrumi

Aurora Castro

Ordine e disordine, pena e sollievo abitano questi versi (predomina lo stile nominale, cifra consona alla forma breve). E non traspare angoscia nel dolore, né euforia nei momenti felici: la tensione tra i poli opposti si risolve in una sorta di coincidentia oppositorum, il fiducioso rimettersi a una volontà superiore.

Ché questo piccolo libro è colmo di religiosità e apertamente s’ispira – l’affermazione è dell’autrice – a I trentatré nomi di Dio della Yourcenar.

Alfredo Dell’Era