L’ARCHITETTO DI DIO di TRENTO VACCA

Barcellona 2019.

Sono dentro o fuori la città? Immerso tra magnolie, gelsomini e camelie sono a Barcellona ma anche in Giappone, Asia e Africa. Vedo scorci di Marrakech nelle palme da dattero in giardino e nella lampada araba appesa al soffitto della sala fumatori di questa magnifica casa, mi sembra di essere dentro la Medina.

Particolare di Casa Vicens

Eppure sono a Barcellona, me lo continuo a ripetere, e me lo ricorda la facciata della casa con i suoi mattoni rossi e le sue piastrelle di ceramica, dove ritrovo tutti i colori della boqueria (1): dei pesci del mare arrivati sulle sue bancarelle a stupire i turisti, della frutta, in guscio, intera, a pezzi, nei bicchieri, frullata, spremuta. E poi dei dolci, la verdura, la carne, i formaggi e la gente, Dio quanta gente! Che a guardarci bene dentro queste piastrelle mi sembra di vederla di nuovo tutta quella gente, brulicante e nevrotica, muoversi nei percorsi da una bancarella all’altra per poi riversarsi sulle Ramblas come le formiche, in fila, nell’andirivieni dalla loro tana.

Sono a Barcellona sì, perché nonostante sono nel quartiere di Gracia sento l’anima della Ribera e l’odore del mare, le prospettive corte del quartiere gotico e il panorama del Montjuic. Persino le oche di Sant’Eulalia che ho visto stamattina nella cattedrale della Santa Croce mi sembra di averle sulla testa, ora, dipinte su questa cupola del primo piano.

Le oche di Sant’Eulalia nella Cattedrale di Barcellona  

                                  

trompe-l’oeil di Casa Vicens

Che strana che è l’arte! Ci sono gli artisti con le loro visioni, che poi trasformano in opere concrete con la tecnica, il sacrificio e la passione e poi mille critici d’arte, che da quel momento fino all’eternità, cercheranno di spiegare cosa hanno fatto questi artisti. Come se quel guizzo di genio venuto da chissà dove si potesse in un qualche modo capire, intuirne l’origine, ricondurlo alla logica e al ragionamento. Nossignore! Quando l’arte è Arte c’è solo lo spazio per la contemplazione.

Nei tuoi confronti Maestro, i critici poi si sono accaniti, perché quella tua potenza di linguaggio capace di parlare a tutti proprio non si riusciva a capire da quale galassia fosse arrivata. E siccome non si trovava parola che potesse esprimere tutta la bellezza che hai creato hanno provato ad inventarsi delle formule: stile mudejar hanno scritto… e anche modernismo catalano. Ma niente, ogni formula, ogni parola creata per spiegare la tua arte impallidisce di fronte alla complessità di casa Batlló, della Pedrera…

Particolare di casa Batlló

Maestro, mi viene in mente un ricordo… il mio Professore di architettura all’università una volta mi ammonì severamente quando al suo cospetto srotolai le tavole del mio primo progetto di una casa unifamiliare con la pretesa di spiegarglielo. “Stai zitto! Tuonò. Il progetto parla da solo, non c’è bisogno che tu aggiunga altro!” Ancora mi pare di sentire il calore salirmi alla testa e le guance rosse dalla vergogna di quel momento. Ecco, ieri sera, di fronte alla facciata della tua casa Batlló ho realizzato in modo assoluto quanta verità ci fosse in quell’ammonizione. Questo, lo considero un altro dei tuoi insegnamenti.

Tutto questo non è stile mudejar né tantomeno modernismo catalano o ancora art nouveaux catalana, no, nient’affatto, so io cos’è. Questo è spirito e sangue di Barcellona impastati nelle murature e nelle piastrelle, nel legno delle travi e nel ferro battuto dei cancelli delle tue architetture. Perché Barcellona sei tu Maestro e tu sei Barcellona, due cose distinte eppure una, proprio come i pesci col mare e uno strumento con la musica.

Ecco Maestro, ora che sono in questa cripta di questa magnifica cattedrale, a cui hai voluto donare tutta la tua vita, e sento forte la tua presenza, ho voluto dirti tutto quello che pensato al cospetto delle tue creazioni, così, sinceramente, per come le ho pensate, per come mi hai ispirato.

Fra poco salirò quelle scale e sarò finalmente dentro la cattedrale e non voglio pensare a niente, voglio tenere la mente e i sensi liberi da tutto per sentire di nuovo il tuo messaggio giungermi dalla pietra scolpita, dai vetri colorati, dalla luce e dalle ombre, dallo spazio che mi avvolgerà e in cui mi voglio perdere, ancora una volta.

Vista dal basso dell’interno della Sagrada Familia

Trento Vacca

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Antoni Gaudì I Cornet riposa nella cripta del Tempio della Sacra Famiglia a Barcellona. Architetto tra i più grandi della storia dell’architettura mondiale ricevette l’incarico di occuparsi della Sagrada Familia nel 1883 a vi dedicò gli ultimi 43 anni della sua vita. Sin dall’inizio si identificò con lo scopo religioso ed espiatorio del Tempio conducendo una vita di preghiera e privazioni. A proposito della lentezza dei lavori con cui procedeva la fabbrica del Tempio ebbe a dire:

“La chiesa cresce poco a poco, ma è normale che le cose destinate a durare a lungo registrino delle interruzioni. Le querce centenarie ci mettono anni e anni a crescere, e talvolta un anno di gelo ne interrompe la crescita; le canne, invece, crescono rapidamente, ma in autunno il vento le uccide e non c’è più nulla da fare”.

La sera del 7 giugno 1926 fu travolto da un tram e non riconoscendolo e giudicandolo povero venne portato all’Ospedale della Santa Croce dove morì tre giorni dopo.

Attualmente è in corso il processo di beatificazione dell’Architetto di Dio, appellativo con cui era noto ai più, e il Tempio a cui ha dedicato quasi tutta la sua vita si prevede possa essere terminato nel 2026.

  • La Boqueria è il mercato più famoso e tra i più antichi di Spagna. Con i suoi 2.583 metri quadrati e con più di 300 bancarelle è uno spettacolo di colori e sapori che lascia senza parole i turisti di tutto il mondo.

ROSALIA DE CASTRO di Miriam Bruni

Nasce nel 1837 a Camino Novo, un sobborgo di Santiago di Compostela, (Galizia) ed è la figlia illegittima di un sacerdote e di una ragazza nubile di nobile famiglia.

Lo scandalo della sua nascita segna profondamente gli anni della sua infanzia, facendola sentire dolorosamente non conforme ai dettami della società del tempo. La sua vita è difficile, ma segnata fin dall’inizio da un amore immenso per la poesia.

Con la sua opera ricca e complessa, questa donna povera e tormentata, è riuscita a riabilitare la lingua gallega, dopo che per secoli era stata sminuita in favore del catalano e del castigliano.

Ella esprime nel suo temperamento malinconico e lirico il genius loci della sua terra, terra di horreos, i tradizionali granai galiziani, di ortensie blu, di boschi e di nebbie, di stregoneria e di mistero. L’atmosfera atlantica evocata dalla sua poesia è la dimensione tragica e fatale di Ananke, la dea del Destino e della Necessità. Sebbene si dedichi alla scrittura di numerose opere in prosa, tra cui Il cavaliere con gli stivali azzurri, pubblicato per la prima volta in Italia da Cliquot, la sua fama è legata maggiormente alla produzione poetica in galiziano e castigliano.

È considerata una delle figure chiave del movimento del Rexurdimento (Rinascimento) e la sua raccolta di versi Cantares Gallegos segna l’inizio della letteratura contemporanea in lingua galiziana. Proprio all’amore per la sua terra sono dedicati la maggior parte dei suoi versi.

In essi la de Castro si fa portavoce dello spirito del popolo, della sua irriducibile gioia di vivere, ma anche del dolore provato dai tanti immigrati costretti ad abbandonare la Galizia a causa delle difficili condizioni economiche.

Intorno al 1867, poco dopo la pubblicazione della sua opera poetica più famosa scritta in castigliano, En las orillas del Sar, inizia una fase più personale in cui Rosalía tocca temi quali la solitudine spirituale, la paura della morte, la precarietà dei sentimenti, la vanità di ogni cosa. Grazie a questi versi, dal carattere intimista e romantico, verrà considerata una pioniera della poesia spagnola moderna.

Muore a Padrón nel 1885.

Ecco il primo testo di  En las orillas del Sar, da me tradotto in italiano.

A través del follaje perenne

que oír deja rumores extraňos,

y entre un mar de ondulante verdura,

amorosa mansión de los pájaros,

desde mis ventanas veo

el templo que quise tanto.

El templo que tanto quise…,

pues no sé decir ya si le quiero,

que en el rudo vaivén que sin tregua

se agitan mis pensamientos,

dudo si el rencor adusto

vive unido al amor en mi pecho.

***

Tra il fogliame sempreverde

che fa udire strane voci,

e l’ondulato verde marino,

degli uccelli diletta dimora,

dalle mie finestre vedo

il tempio da me tanto amato.

Il tempio che ho tanto amato,

perché come posso dire di amarlo ancora?

Nella molesta e continua

dei miei pensieri altalena,

io dubito che il cupo rancore

possa vivere nel mio petto assieme all’amore.

Il resto dell’opera lo potete consultare qui:https://www.cervantesvirtual.com/obra-visor/en-las-orillas-del-sar–0/html/fedc3584-82b1-11df-acc7-002185ce6064_2.html

Lettura del testo in lingua originale

Miriam Bruni

Foto di Miriam Bruni in territorio galiziano, estate 2022
Foto di Miriam Bruni in territorio galiziano, estate 2022

Velo di Sposa

Velo di sposa

Portami da Milano

fino a Gerusalemme

per la luna di miele

di api colorate

che posano sui fiori

cresciuti nella guerra

un polline impazzito

che illumina la terra

Testo di Velo di sposa, canzone dei Radiodervish (1)

Esistono opere di straordinaria bellezza che non sono nelle parole dei libri né nelle raffigurazioni dei quadri, non tra le note di un pentagramma o nei marmi muti delle gliptoteche, né tra i colonnati delle chiese o nei fregi dei palazzi. Esistono opere che si risolvono nel gesto, il cui messaggio si consuma nello stesso momento in cui viene creato dall’artista, come fiamma che arde. Opere che non prevedono la loro conservazione, inafferrabili come il soffio del vento e imprevedibili come il volo di una farfalla.

Una sposa in viaggio, rigorosamente in autostop, da Milano a Gerusalemme, attraversando Slovenia, Croazia, Bosnia, Serbia, Bulgaria, Turchia, Libano, Siria, Egitto, Giordania, Israele, tutti Paesi che soffrono o che hanno sofferto la guerra.

La sposa, in questo percorso, si dona all’incontro con l’altro portando con sé un immaginario carico di significati positivi: femminilità, amore, gioia, purezza, vita. È questa l’opera pensata dall’artista, arte itinerante che esige vita ed esperienza per veicolare il proprio messaggio, un messaggio di pace, contro la guerra, contro ogni guerra.

L’artista pensa a tutto, ad ogni particolare, e allora tutto diventa simbolo…

Lungo il viaggio l’abito da sposa verrà indossato sempre, così come sempre verranno indossate le scarpe bianche con i tacchi, perché la costruzione della pace così come l’essere donna e madre comporta inevitabilmente sacrificio. Avrà una gonna a forma di giglio – simbolo di innocenza e di purezza per eccellenza – che sarà composta da 11 veli, come 11 petali, uno per ogni Paese attraversato.

Una mantella, che farà anche da velo e che verrà usata come copricapo nei Paesi islamici, servirà per asciugare i piedi delle ostetriche del posto quando la sposa rievocherà il gesto della lavanda dei piedi di Gesù. In questo nuovo e inaspettato frammento di Cena Domini che improvvisamente riemergerà potente dalla storia sarà una sposa, questa volta, a servire, a prendersi cura di chi fa germogliare la vita laddove gli uomini la spezzano con la guerra e con l’odio.

La sposa impegnata nella lavanda dei piedi ad un’ostetrica
(Fonte: Corriere della sera)

E quando l’abito si sporcherà verrà lavato con la liscivia, un detersivo naturale ricavato dalla cottura della cenere, non una qualsiasi, ma quella generata bruciando un libro, un articolo di giornale interessante, un indumento con una sua storia, una preghiera… insomma qualcosa in grado di arricchire l’abito di sostanza e significato, in modo che il lavare non sia solo azione di sottrazione ma di arricchimento.

Fotografie tagliate

in forma di stupore

son cibo prelibato

per angeli viaggianti

vittime destinate

da chi non sa capire che ha ricevuto rose

e le lascia morire1

L’autostop è scelta ponderata e naturale per l’artista, che vuole entrare in contatto con più persone possibili, di qualsiasi estrazione sociale. Perché il senso del viaggio, si sa, è nel viaggio stesso e in questo pellegrinaggio la sposa fa dono di sé, non può nutrire sentimenti di paura o di sconforto. Al contrario, si consegna, ripetutamente, nella fiducia di trovare nell’altro accoglienza e protezione. Pensa che in un modo o nell’altro la strada verrà percorsa e che la provvidenza le assicurerà sempre un passaggio.

“L’unica cosa che mi spaventa è il freddo… e le bestie feroci, ma dove vado non credo ce ne siano!” Aveva dichiarato l’artista prima di partire.

E così il diario del viaggio si arricchisce di volta in volta dei volti di camionisti e autisti, operai, manager, insegnanti, artigiani, commercianti che condividono con l’artista chilometri e parole, un tratto di vita, seppur breve, assieme. L’artista scatta foto a queste persone, poi ne ritaglia i volti e li incornicia, registrando anche la loro voce quando possibile.

Slovenia, Croazia, Bosnia, Serbia, Bulgaria, Turchia. Il 31 marzo del 2008 Murat Karatas dà un passaggio all’artista, si allontana dalla strada principale fino a raggiungere la località di Ballikayalar. Arrivato in un bosco la violenta e subito dopo la strangola cercando poi di seppellire malamente il corpo. Muore così Giuseppina Pasqualino di Marineo, in arte Pippa Bacca.

Restano le parole

e vuoti da narrare…

Ora di te mi parlerà

la Via Lattea

velo di sposa

la notte imbiancherà1

A questo punto ogni parola potrebbe risultare fuori luogo, poco opportuna, e sarei tentato di chiudere tutto, foglio e computer dal quale sto scrivendo per andare a piangere di fronte al cielo e maledire la carne di maschio che mi porto addosso.

Ma così facendo lo straordinario messaggio di pace dell’artista, in-compiuto e pensato in tutta la sua straordinaria bellezza ne rimarrebbe di nuovo oltraggiato, coperto dal silenzio che impone la morte e la vergogna. E non dev’essere così.

Voglio che il viaggio, il tuo viaggio, Pippa, continui.

Libano, Siria, Egitto, Giordania e finalmente Israele. Voglio che ad attenderti lungo la strada ci siano uomini buoni, che ti accolgano senza dire una parola, non una. E ti aggiustino il velo, sotto cui si scorge il tuo volto, sorridente e rassicurante. E in questo gesto di amorevole cura e in questo silenzio voglio che si riveli in modo dirompente e commovente la misura dello sconfinato mistero che la donna, la sposa, la pace è per l’uomo.

Trento Vacca


“Brides on tour – spose in viaggio – è stato un progetto realizzato nel 2008 da Pippa Bacca e Silvia Moro in collaborazione con Byblos Art Gallery di Verona. Pippa Bacca e Silvia Moro sono partite da Milano vestite in abito da sposa, attraversando in autostop la Slovenia, la Croazia, la Bosnia, la Serbia, la Bulgaria, sino ad arrivare in Turchia, dove il percorso è stato bruscamente interrotto dalla tragica morte di Pippa…” (Fonte: sito internet Pippa Bacca)

I Radiodervish hanno dedicato la canzone Velo di sposa contenuta nell’album Human del 2013 proprio all’artista milanese Pippa Bacca.

Tutto accade per non accadere: Katherine e James nei sentieri del racconto

Greenwich Park, Londra

Katherine Mansfield

Lungo i viali di Greenwich Park scorgo un uomo alto e magro, occhialini e borsalino, parla fittamente con una giovane donna: sguardo di poiana, pelle di cera; lei stringe lo scialle nelle spalle, lui sfiora il baffetto, sembrano essere James Joyce (1882 – 1941) e Katherine Mansfield (1888 –  1923); chissà di cosa parlano, intanto s’incamminano, l’uno accanto all’altra, nei sentieri del racconto.

Per Katherine e James, l’arte del rappresentare si raccoglie intorno ad oggetti sempre diversi che subito si fanno simboli per rivelarci quel che è nascosto, profondo. Ma occorre scavare a mani nude sotto la neve perché, nei racconti della Mansfield come in quelli di Joyce, si ha la sensazione che nulla accada.

Immaginavo Katherine sulla spiaggia di Piha, in Nuova Zelanda, là dove il suono delle onde dell’amica Virginia1si confonde alle note del pianoforte di Jane Campion2. La pensavo così, Katherine, con la stilografica tra le dita a dipingere il cielo d’un azzurro chiaro, tratteggiare paesaggi, fiori, dolci gorgoglii tra sassi di mare:

Casa sulla spiaggia da At the Bay, Wellington, ph. Maggie Rainey Smith

Ah-Aah! sounded the sleepy sea. And from the bush there came the sound of little streams flowing, quickly, lightly, slipping between the smooth stones, gushing into ferny basins and out again; and there was the splashing of big drops on large leaves and something else–what was it? — a faint stirring and shaking, the snapping of a twig and then such silence that it seemed some one was listening.3

Percepibile nella versione originale, l’autrice crea un effetto sibilante attraverso la reiterazione del suono della “S” che si unisce ad un gioco di assonanze per ottenere uno straordinario riverbero musicale comparabile forse all’antico suono della Kalimba.

Come in “Mrs. Dalloway” (1925) della Woolf o in “Ulysses” (1920) di Joyce, anche in “At the Bay” (1922) della Mansfield, l’azione si svolge in un’unica giornata ma, in effetti, manca, qui, una vera e propria trama; i Burnells e i Trouts sembrano latitare, spingersi leggeri tra prati in fiore e corse in mare: tutto accade per non accadere, è questa l’epifania, la rivelazione.

Mentre in “At the Bay” l’autrice sembra incantata dai suoni della baia come mare in una conchiglia, Il racconto “Prelude” (1920) si apre, invece, con Kezia e Lottie, due bambine, ma è sulle figure femminili della generazione precedente, Linda e Beryl, che si concentra l’attenzione. Linda ha un marito, una casa e dei bambini di cui uno in arrivo; Beryl, la sorella non sposata, invece, cresce sempre più in amarezza per la mancata realizzazione sentimentale. In realtà, Beryl aspira a realizzare il suo sogno d’amore: “a new, wonderful, far more thrilling and exciting world than the daylight one”4 ma, quando Harry Kember le propone di uscire, si ritrae, terrorizzata, non riuscirà ad oltrepassare il cancello di casa: è questa la svolta mancata.

Con Beryl che indietreggia davanti ad una piccola pozza di buio: ‘ a little pit of darkness’, il pensiero corre veloce a Eveline in “Dubliners” (1914) di James Joyce; anch’ella, come Beryl, ha l’opportunità di cambiare la vita, ma alla resa dei conti si dimostrerà incapace di abbandonare la routine familiare.

“She stood up in a sudden impulse of terror. Escape! She must escape! Frank would save her. He would give her life, perhaps love, too. But she wanted to live. Why should she be unhappy? She had a right to happiness. Frank would take her in his arms, fold her in his arms. He would save her”5.

Quando Frank le urlerà di seguirlo, Eveline sarà come paralizzata, “i suoi occhi non gli dettero il minimo segno d’amore o di addio o di riconoscimento.”6

Si dispiegano come sete fruscianti le vite interdette nella silloge Joyciana; nel racconto d’apertura: “The Sisters”, l’attenzione sembra concentrarsi sul paralitico Padre Flynn, eppure il titolo suggerisce che la paralisi sia estesa anche alle sorelle le quali proprio per favorire il fratello James, la sua formazione religiosa e la carriera, conducono una vita non soltanto povera ma anche ingrigita dalle convenzioni sociali che le vogliono non realizzate, in una parola, represse.

Incapace di mutare direzione è anche Jonathan Strout in “At the Bay”: pur sentendosi prigioniero di un lavoro del quale vorrebbe liberarsi, Jonathan, resta seduto sul trespolo a scarabocchiar registri: “Tell me, what is the difference between my life and that of an ordinary prisoner? The only difference I can see is that I put myself in jail and nobody’s ever going to let me out.”7

E come dolce sciacquio, torna alla memoria Little Chandler, in “A little Cloud” di Joyce: qui, il protagonista è consapevole di non poter trasferirsi altrove poiché Londra o Parigi sarebbero ugualmente deludenti per lui. L’epifania del Piccolo Chandler è, dunque, in una nuvoletta da cui cadono soltanto poche gocce sopra la sua desolata esistenza che neppure la nuova paternità riuscirà a ravvivare, anzi sarà motivo di frustrazione.

Ed ecco che, sia nella Mansfield che in Joyce, il senso sembra mancare, ma quel che pare sfocato, in realtà, è ben delineato, quel che appare superficiale, è profondo perché la fuga è la soluzione cui tendono i personaggi come lontano miraggio nel deserto.  

Memoriale a Katherine Mansfield

In “At the Bay”, Kezia vuol che la nonna non la lasci mai: “Promise me! Say never”8. Ma il tema della morte non viene in realtà affrontato; i personaggi rasentano il baratro per poi finire in una bolla di risa e scherno. “Say never, say never, say never, gurgled Kezia, while they lay there laughing in each other’s arms”9. Così è anche in “The Garden Party” (1921) in cui una giornata ideale per una festa in giardino sembra inficiata dalla improvvisa morte del vicino, ma la festa si terrà e Laura, di ritorno dalla casa del defunto, asciugherà le lacrime sfiorando un senso di gratitudine per la vita.

di Giuliana Sonnante

È comprensibile che la Mansfield sfiori soltanto il tema della morte se consideriamo che ella combatte strenuamente contro la tubercolosi. Lo sentiamo nell’amore che prova osservando la vita in tutte le sue più piccole manifestazioni prima di farne parola, disciplinata scrittura. Lei che vuole solo vivere al sole della sua baia e scrivere senza preconcetti. Così Pietro Citati:

Sebbene la tisi non le appartenesse, aveva compreso che la malattia era la condizione più adatta allo scrivere: le faceva sentire acutamente come tutte le cose passino troppo presto: rendeva le figure ricche, importanti e desiderate, come quando un bambino malato è chiuso in esilio nella propria stanza, mentre dalla porta e dalle finestre penetrano i rumori, il frastuono e le luci, tutto quello che accadeva oltre era meraviglioso. […] “Ogni artista” annotò sul diario “si taglia un’orecchia e la inchioda alla porta, perché gli altri vengano a gridarci dentro10

Se la morte s’allunga come ombra fastidiosa, un’apparente immobilità distingue anche “A Man Without a Temperament “in cui un uomo senza carattere sembra essere alle dipendenze di una donna bisognosa d’assistenza pur essendone, in realtà, il marito. Così Robert, marito di Jinnie, non fa che rigirare l’anello al dito in attesa del successivo comando. “He stood at the hall door turning the ring, turning the heavy signet ring upon his little finger while his glance travelled coolly, deliberately, over the round tables and basket chairs scattered about the glassed-in veranda”11. Ma se il lettore non riesce a simpatizzare col protagonista che appare “stiff”, rigido, come il braccio su cui Jinnie si poggia, la narrazione sembra mossa dal ricordo di Londra che coincide per Robert con la vita. Ma il protagonista non cambierà il suo atteggiamento, si desterà ad ogni scalpiccio della moglie pur essendo da lei spiritualmente distante. Crescerà, certo, il suo discontento, straordinaria è la capacità di rendere la tensione psicologica del protagonista, ma non si ha la sensazione che egli possa mutare la sua posizione. Una costante dei racconti della Mansfield è forse proprio la sospensione; l’autrice non cerca un lieto fine come spesso accade nei romanzi ottocenteschi, ma lascia il lettore sospeso, incerto sulla soglia del racconto.

Il cielo è carico di neve mentre Katherine e James s’incamminano verso la strada collinare di Maze Hill che delimita il confine orientale di Greenwich Park. James sistema il borsalino sulla testa di lei per ripararle il capo e intanto non può non pensare a Michael Furey, morto per amore della sua Gretta: il primo amore di cui suo marito Gabriel non sapeva e che forse così intenso non aveva mai vissuto. Non può non pensare alla sua gente, alla gente di Dublino, paralizzata dalla spessa coltre delle abitudini, delle convenzioni sociali, della ritualità delle feste religiose sempre uguali a loro stesse.

“C’era neve dappertutto in Irlanda, cadeva ovunque nella buia pianura centrale, sulle nude colline; cadeva soffice sulla palude di Allen e più a ovest sulle nere, tumultuose onde dello Shannon. Cadeva in ogni canto del cimitero deserto, lassù sulla collina dov’era sepolto Michael Fury. S’ammucchiava alta sulle croci contorte, sulle pietre tombali, sulle punte del cancello, sugli spogli roveti. E la sua anima gli svanì adagio adagio nel sonno mentre udiva lieve cadere la neve sull’universo, e cadere lieve come la discesa della loro estrema fine sui vivi e sui morti.“12

È calda la neve per Gabriel perché egli è forse l’unico a destarsi dal lungo sonno nel quale Dublino è piombata. E la calda neve, mi riporta a quello straordinario ossimoro che brucia sotto un candido oblio:

Winter kept us warm, covering

Earth in forgetful snow, feeding

A little life with dried tubers13.

Castello di Vanbrugh 1699-1712

Presso il castello di Vanbrugh, in lontananza, Katherine e James si fanno invisibili all’orizzonte, ma, di certo, giganti tra le pagine mentre, uscendo dalla stazione di Maze Hill, mi ritroverò in Tom Smith Close e da lì potrò percorrere la strada in discesa e raggiungere Trafalgar Road…

Giulia Sonnante


1. Virginia Woolf (1882-1941)

2. Jane Campion, regista, sceneggiatrice e produttrice neozelandese nasce a Wellington il 30 aprile 1954

3.[Ah – Aah! Echeggiò il mare tranquillo. E più in là da quel cespuglio giungeva il suono di ruscelletti che scorrevano veloci, leggeri, scivolando tra sassi levigati per riversarsi in bacini di felci e poi, di nuovo, zampillare; ed il tuffarsi di grandi gocce su ampie foglie e ancora—- cos’era? Qualcosa si agitava debolmente e crepitava, lo spezzarsi d’un ramoscello e poi un tale silenzio che sembrava qualcuno stesse ascoltando”] traduzione di chi scrive: K. Mansfield, The Garden Party and Other stories, Penguin Twentieth Century Classics, London, 1997 p. 5.

4. [Un mondo nuovo, meraviglioso, di gran lunga più emozionante ed eccitante della luce odierna] traduzione di chi scrive.

5. [Balzò in piedi spinta da un terrore improvviso. Fuggire! Doveva Fuggire! Frank l’avrebbe portata in salvo, le avrebbe dato la vita e forse anche l’amore. Lei voleva vivere davvero. Perché avrebbe dovuto essere infelice? Aveva diritto anche lei alla felicità. Frank l’avrebbe presa tra le braccia, l’avrebbe stretta: l’avrebbe salvata.] Trad. di Attilio Brilli in J. Joyce, Gente di Dublino, Classici Mondadori, Milano, 1987.

6. Ibid. pag. 33.

7. K. Mansfield, in op. cit. [“Dimmi, quale differenza c’è tra la mia vita e quella di un comune prigioniero? L’unica differenza che riesco a vedere è che sono io stesso a mettermi in prigione e mai nessuno mi tirerà fuori da lì] trad. mia p. 31

8.K. Mansfield, in op. cit. [Promettimelo, di’ mai] p. 23. Traduzione di chi scrive

9. Ibid. [di’ mai, di’ mai, di’ mai barbugliò Kezia mentre restavano lì a ridere ognuna nelle braccia dell’altra] p. 23 traduzione di chi scrive.

10. Pietro Citati, Vita Breve di Katherine Mansfield, Adelphi Edizioni, Milano, 2014 p. 83-4.

11. A Man Without a Temperament (1920) il racconto in formato digitale è disponibile sul sito della Katherine Mansfield Society http://www.katherinemansfieldsociety.org [stava all’entrata della hall, rigirando l’anello, rigirando il pesante anello con sigillo, intorno al dito mignolo, mentre il suo sguardo vagava freddamente, deliberatamente, sui tavoli rotondi e sulle poltroncine di vimini sparpagliate intorno alla veranda vetrata. ] p. 1. Traduzione di chi scrive.

12. James Joyce Gente di Dublino, Oscar Mondadori, Milano, 1987 – I Morti –  p. 208 nella traduzione di Attilio Brilli.

13.T.S. Eliot, La sepoltura dei morti in “La terra desolata” 1922 [L’inverno ci mantenne al caldo, ottuse / con immemore neve la terra, / nutrì Con secchi tuberi una vita misera] traduzione di Roberto Sanesi, in La terra Desolata Classici Moderni, Rizzoli, Milano, 2013

LA POESIA È LA CURA

Grotta di “Sa Nurre de su Hoda”, a Oliena, Sardegna

Ho scoperto che esiste al mondo un modo di curarsi con la parola, ma non quella usuale, come molti di voi potranno immaginare.

Aldo Carotenuto, nell’introduzione al libro “Manuale di arte terapia poetica” di Giuseppe Bartalotta, avvicina la poesia alla psicoanalisi, affermando che esse hanno delle linee comuni, così come lo stesso Freud ha più volte dichiarato, la capacità del poeta e degli artisti, in generale, di trascendere la realtà ed attraversare i territori dell’anima. La psicoanalisi ha molto a che fare con la poesia e con la sua capacità di introspezione, azione capace di generare un ripiegamento su sé stessi, permettendoci di conoscere quelle parti che ci compongono, ma ci sfuggono, tutte le voci che ci abitano, anche in silenzio.

La poesia terapia è, dunque, una pratica di cura, contemplata tra le Arti terapie, in grado di riattivare vissuti dimenticati, che, tuttavia, continuano, in qualche modo a determinarci perché rimasti inascoltati.

L’arteterapia è in grado di generare strumenti per l’energia psichica al fine di formare simboli in varie produzioni, dice Jung, in grado di attivare la comunicazione tra l’inconscio e il conscio. La parola poetica è simbolo per eccellenza, dunque, il verso ha la capacità di far emergere ricordi e vissuti, ma anche emozioni e sofferenze legate a traumi passati. Il verso ha la potenza evocativa in grado di liberare forze nascoste e indagare l’animo, aiutarci a fare luce nelle nostre stanze buie. Allora, come nella terapia psicoanalitica, si compie un viaggio nell’animo umano e con l’uso delle parole poetiche si parla all’uomo nella sua totalità, raggiungendo ogni strato del suo essere, quello cognitivo e quello emotivo, risvegliando qualcosa di sopito o di ancora sconosciuto.

Giuseppe Bartalotta, psicoterapeuta analista del Centro italiano di Psicologia analitica e dell’International Association of Analitical Psychology C. G. Jung di Zurigo, arte terapeuta, prima della sua morte nel 2001 stava lavorando a quello che fu, in seguito, pubblicato come il primo Manuale di arte terapia poetica in Italia. A curare il volume postumo, con prefazione di Aldo Carotenuto, come anzidetto,  furono la figlia Angela Maria Bartalotta ed alcuni componenti del gruppo di ricerca da lui guidato a Roma. Il manuale, di un centinaio di pagine, anche se rimasto incompiuto e composto di appunti di lavoro di Bartalotta, presenta metodologie e pratiche di uso della poesia nella terapia e nella relazione di cura, ponendo Bartalotta tra i pionieri italiani della  poesiaterapia. Egli dà alcune indicazioni su come usare la poesia nella terapia e come strumento di cura nelle relazioni d’aiuto e nelle pratiche di gruppo, perché la poesia terapia è, come lui stesso afferma, una “vera e propria psicoterapia di gruppo”.

Si potrà scegliere di leggere un un solo poeta, seguendone la storia e la sua crescita come uomo e come autore; così come si potranno scegliere differenti poeti legati da un filo conduttore, per accompagnare il percorso di crescita dell’individuo e del gruppo.

La poesia viene letta ad alta voce, soffermandosi prima sul testo e sul suono delle parole, lasciando che queste scorrano e attivino un vissuto, portando a galla le emozioni ad esso legate. Durante il lavoro è possibile che i partecipanti producano poesie, queste conterranno elementi utili alla lettura del processo personale e di gruppo.

La poesia diviene il mediatore per eccellenza che permette all’inconscio di esprimersi attraverso l’uso di simboli, immagini, fantasie per portare poi, piano, ad un livello di comunicazione tra la nostra parte razionale e quella irrazionale, ognuno potrà stare nel flusso e raccontarsi e raccontare, per ri-conoscersi e ri-significarsi. Anna Achmatova è una delle poete scelte da Bartalotta in alcuni lavori con i gruppi di poesia terapia, accompagnando la lettura delle sue poesie alla luce della sua biografia e dei momenti cruciali della sua vita.

“Domani sarà un mattino
di serenità.
La vita è splendida,
sii saggio, cuore.

Sei così stanco,
rallenta, batti piano…
Pensa, ho letto
che l’anima è immortale.”

Quanto il nostro cuore è vicino a quello della Achmatova?

La poesia terapia è un sollievo per il cuore, una cura per l’anima ferita, una possibilità di crescita e di liberazione.

Mariatina Alò

Recensione di VIAGGIO MEDITERRANEO di Gino Locaputo e Maria Sportelli, Secop edizioni

Gino Locaputo è attore regista scrittore poeta. Nato in Conversano nel 1953. È stato ideatore e direttore artistico della Rassegna internazionale Festival Mediterraneo. All’attivo, numerose pubblicazioni tra cui anche una raccolta poetica.

Maria Sportelli, giornalista professionista, docente, scrittrice, è nata in Conversano. Nel 1973 laureata in scienze politiche. Ha seguito in molte delle sue avventure Gino Locaputo: una di queste è proprio Viaggio Mediterraneo”.

Si tratta di un viaggio in luoghi percorsi effettivamente nello spazio e nel tempo, in territori calpestabili del nostro paesaggio Mediterraneo, permeati dall’intreccio avvolgente di suoni lontani, come ci suggerisce giustamente nella prefazione del libro, Pasquale Daniele. Dicevo, l’intreccio avvolgente di suoni, nel turbinio suadente dei colori e dei profumi, che inebriano, è un viaggio che attraversa “ il peregrinare” dei due protagonisti tra le emozioni e le dune del deserto. È un viaggio, che vibra nella malinconia e si perde, sfinito, nel desiderio di armonia. In questo viaggio Gino e Maria hanno conosciuto e apprezzato il porto sicuro della fraterna accoglienza e della convivialità.  … Nomadi anch’essi in terre di civiltà ataviche in cui perdersi, per poi ritrovarsi, con tutta l’anima. Secondo me, mai, come in questo momento storico, parlare di Mare Nostrum come luogo di incontro e di abbraccio, in cui riconoscersi fratelli, apre ad alcune riflessioni. Se si considera che, per una mancata accoglienza, facilmente il nostro mare può trasformarsi in un mostruoso cimitero delle speranze dei più deboli o – semplicemente – dei più bisognosi, che cercano un approdo sicuro in un viaggio, ma a volte senza un faro che da lontano si prodighi a segnare luminosamente l’arrivo in una terra serena, in un mondo migliore….  … che per alcuni è l’anima, per altri la quotidianità, per altri ancora una visione del futuro capace di assicurare armonia o, quantomeno, tranquillità.

Per questo, “Viaggio Mediterraneo” a volte appare come un diario di bordo di capitani coraggiosi, che si avventurano verso approdi oscuri e sconosciuti, ma pur sempre affascinanti. A volte è, chiaramente, un diario scritto a quattro mani e una voce narrante. Altre volte ancora risulta avere, proprio, l’aspetto di un diario personale, pervaso di sogni, desideri, versi poetici, foto, narrazioni individuali ed intime rivelatrici di pensieri reconditi e di sentimenti sottaciuti. È questo il caso, ad esempio, della poesia “Parole” di Gino lo Caputo. ”Parole “.  Parole distrutte /recitate da freddi colloqui/ che solo la notte trasforma in universi di stelle./ Tutto questo è il mio mondo /con le mie solitudini notturne /ai porti delle memorie /ai racconti di queste vecchie pietre /tra un po’ di terra / e un poco d’ombra oltre la proda degli assilli umani /dove il rosario delle ore/ si sbriciola tra le dita del tempo /nel triste approdo delle nostalgie… / Si riprende il cammino / nella pena dei giorni consumati sull’altare della speranza /sulla terra che si fa pace / su un ponte  verso l’infinito.” C’è storia e ci sono storie, narrazioni e narrazione, in “Viaggio Mediterraneo” : è un viaggio delicato e intenso nelle culture, attraversate dai sensi e dall’intelligenza dei due autori, Maria Sportelli e Gino Locaputo. È un viaggio a due dimensioni: il tempo che scivola addosso e lo spazio che i corpi percorrono e occupano. È un libro che racconta storie di pane e di olive nere di uva passa e pinoli tostati. È un libro che si lascia attraversare da tutti i sensi, compresa la propriocettività della pelle.

Efficace nei dialoghi, spesso attraversati ed espressi dai versi poetici di Gino Locaputo posti a prologo o ad epilogo dei vari capitoli.

La forza delle descrizioni è nell’essersi lasciate permeare dai sentimenti che dimoravano o che transitavano, anch’esse a volte viandanti altre esploratori dell’Essere, nelle profondità delle anime inquiete e curiose di Maria e di Gino.

Il tutto è contenuto in poco più di 100 pagine, scritte con uno stile fluido ed immediato, semplice, ma al tempo stesso ricercato, dal livello comunicativo efficace, forte e tecnicamente corretto.

Mi piace concludere questa mia recensione con un interrogativo, a cui sembra dare quasi una risposta la scrittrice Maria Sportelli, quando si imbatte nella “conoscenza” del Mar Morto.

La domanda che viene spontaneo porsi, leggendo “Viaggio Mediterraneo“  è:

“Di cosa è fatto, ora, il mio mondo?”

L’autrice pare rispondere così: “Ci sono incontri che ti cambiano la vita, ci sono mondi che ti insegnano vivere. A volte il caso, a volte il destino traccia la strada, io ho seguito la mia. Così, piano piano, le nostre parole sono scivolate su questi fogli come baci d’amore per tutti coloro che avranno l’ardore di leggerle, sospendendo ogni forma di giudizio.”     

Giusy Carminucci

                              

TEMPO

Nell’ultimo articolo ho parlato dell’odierna degenerazione del Tempo (che mette in discussione il luogo). Degenerazione che in questo caso attiene al senso matematico del termine, che indica particolarità, anomalia, riduzione di complessità, “…questo nostro tempo, sempre più asintotico verso il futuro (passato e presente sembrano non avere più peso)…”

Ed è proprio questa complessità che sembra ormai persa a chiedere una ulteriore riflessione. “Perché il tempo dovrà ritornare al suo rango”, ho scritto, ma allora qual è il rango del Tempo?

Relatività, di M. C. Escher

Quella del tempo è una cattedrale escheriana le cui scale conducono a molteplici direzioni di pensiero, convergenti, divergenti, parallele, incidenti: orologi molli, storia, memoria, tempo lineare, progressivo, unidirezionale, sospeso, indefinito, Kronos e Kairos, fiume fatto di eventi, assoluto, soggettivo, cosmico, dell’anima, fanciullo che gioca, circolare, ciclico, tempo perduto, indistruttibile metronomo con occhio, pura illusione, eterno… BOOM!

Il tempo è il corto circuito dello scibile umano! Esercizio filosofico impossibile, errore circolare della ragione, terreno che non ammette né tesi né dimostrazioni, nessuna dottrina dunque ma solo esperienza personale.

Come dire, c’è un tempo al di fuori di noi – ogni riflessione in questo senso sarebbe un folle volo – e un tempo dentro di noi, su cui voglio invece riflettere, in cui ogni vissuto singolare può essere considerato verità.

Joseph Conrad, Ucraina, 1857 – Regno Unito 1924

Nel mondo della letteratura, un’opera in particolare ha saputo indagare magistralmente questo rapporto intimo e introspettivo tra Uomo e Tempo, un’opera dall’eleganza assoluta, una storia di mare, di velieri e di viaggi, dall’atmosfera coloniale, pregna di aromi di tabacco e fumo di pipa, e del suono dello sciabordare delle onde e della spuma di mare. È la Linea d’ombra, (The Shadow Line: a Confession, 1917), romanzo breve di Joseph Conrad.

Al di là della trama – le vicende di un giovane primo ufficiale di una nave a vapore che solca i mari d’oriente che improvvisamente rinuncia al suo lavoro per poi ritrovarsi, inaspettatamente e dopo un breve periodo di inattività, al comando di un veliero fermo a Bangkok per via della morte del suo capitano – ai fini della presente riflessione risulta illuminante l’incipit:

“Quando si è molto giovani, a dirla esatta, non vi sono momenti.

È privilegio della prima gioventù vivere d’anticipo sul tempo a venire, in un flusso ininterrotto di belle speranze che non conosce soste o attimi di riflessione.

Ci si chiude alle spalle il cancelletto dell’infanzia, e si entra in un giardino di incanti. Persino la penombra qui brilla di promesse. A ogni svolta il sentiero ha le sue seduzioni. E non perché sia questo un paese inesplorato. Lo sappiamo bene che l’umanità tutta è passata di lì…

Già. Si va avanti. E anche il tempo va, fino a quando innanzi a noi si profila una linea d’ombra, ad avvertirci che bisogna dare addio anche al paese della gioventù.”

Ecco subito rivelata l’architettura del romanzo, la chiave di lettura che sgombera il campo da ogni ambiguità interpretativa e che rende esplicito l’implicito annidato nella storia. C’è una fase della vita di ognuno – semplificando, la gioventù – in cui il problema del Tempo semplicemente non esiste. Il giardino dell’incanto è così ricco di seduzioni da appiattire il Tempo e ridurlo ad entità adimensionale; un punto, che ammette solo e soltanto il presente.

Sarà solo il caso, un incontro, un evento positivo o negativo capace di lasciare il segno, insomma l’hazard di rousseauiana memoria – nel romanzo è proprio l’incontro casuale del protagonista con il capitano Giles, nell’albergo dell’ufficio portuale, ad aprirgli la strada verso il suo primo comando di un veliero – a decretare la fine di quest’incanto, di questa illusione, segnando il passaggio dalla giovinezza all’età matura.

Attenzione però a non traslare il discorso dalla questione temporale, che rimane centrale, a quella più banale dell’essere giovane o adulto o addirittura alla casualità degli eventi che possono segnare la vita di ognuno – i fatti che accadono non sono forse figli del tempo che li porta?

La questione viene ben spiegata dal critico Ian Watt: con la linea d’ombra “Conrad non si sta riferendo a quegli ovvi indicatori temporali…legali o politici come la maggiore età o biologici come la maturità sessuale… ma ad un concetto sociale e personale. Avvicinandola si è consapevoli solo di un vago cambiamento d’atmosfera di cui non si comprende neanche la causa”. Ed è proprio in questo cambiamento di atmosfera che si annida la questione Uomo/Tempo che qui si vuole indagare, nella sua dimensione più intima e soggettiva.

Eh sì, perché in realtà più che una linea d’ombra, ad un certo punto della vita, ci troviamo al cospetto di uno spazio d’ombra dalla profondità imperscrutabile, in cui la percezione del Tempo cambia irreversibilmente rivelandosi in tutta la sua profondità. D’ora in poi non esisterà più solo il presente, ma si comincerà ad avvertire forte il passato così come la preoccupazione per il futuro.

Nel rapporto intimo tra Uomo e Tempo, dunque, più che il continuo presente in cui si risolve la vita, ad un certo punto, è il passato a divenire prevalente, è il passato che non passa a costruire identità, con i suoi eventi significativi che restano intrappolati nella rete della memoria e che orientano l’ago della bussola delle decisioni suggerendo direzioni di vita, non le banalità e le ripetizioni in cui si perde buona parte della nostra quotidianità.

Ma ritorniamo al romanzo.

Il primo comando, accolto con entusiasmo dal protagonista, si rivela ben presto un inferno: la mancanza di vento che immobilizza il veliero, l’equipaggio che si ammala di febbre gialla, il sabotaggio del chinino a bordo sostituito da chissà chi con altra mistura che ne rende impossibile la cura, il profilarsi di una sorta di maledizione legata alla figura del vecchio capitano morto… Eppure, tra mille difficoltà e senza possibilità di chiedere e ottenere aiuto, il protagonista riesce a portare il veliero a destinazione e l’equipaggio in salvo. E così, giunto finalmente a terra, quando il capitano Giles gli dirà: “Dovete avere addosso una stanchezza considerevole” il protagonista risponderà “No, non è stanchezza. Vi dirò invece come mi sento… mi sento vecchio. E credo di esserlo.”

In realtà il protagonista non può essere vecchio – l’inaspettata impresa non ha richiesto poi così tanto tempo! Nel suo sentirsi vecchio c’è il peso di un passato che lo ha forgiato e che è rimasto dentro di lui. È questo passato che per continuare ad esistere ha bisogno di profondità temporale, di una diluizione del Tempo che da punto adimensionale deve diventare spazio per riuscire a contenerlo, proprio come l’ombra ha bisogno di profondità spaziale per potersi stagliare sulle superfici, ecco la geniale intuizione metaforica che ha consegnato alla storia questo romanzo.

Nella linea del Tempo è il passato dunque la vera dimensione temporale che costruisce identità, sia sul piano individuale che sociale e che si pone in diretta comunicazione con il nostro intimo. È il passato immateriale dei fatti accaduti, è il passato materiale che arriva sino a noi dalle testimonianze storiche, una chiesa medievale, un libro del 700, un reperto…

È per questo che dovremmo averne cura e custodirlo:

“Io sono una forza del Passato.

Solo nella tradizione è il mio amore.

Vengo dai ruderi, dalle chiese,

dalle pale d’altare, dai borghi

abbandonati sugli Appennini o le Prealpi,

dove sono vissuti i fratelli…”

10 giugno, Pier Paolo Pasolini

Trento Vacca

29 Note – Poesie di Antonella Vairano: nell’ampia periferia dell’amore

Amedeo Modigliani
Jeanne Hébuterne

Gli occhi cerulei di Jeanne Hébuterne, giovane pittrice parigina, (1898 – 1920) trafissero quelli di Amedeo Modigliani (1884 – 1920) quando, per la prima volta, s’incrociarono per le vie d’una vitalissima Montmartre in una Parigi di inizio Novecento, lì dove, tra caffè letterari illuminati dalle luci della Belle Époque, locande dell’ultima ora e laboratori d’arte, s’incontravano, per caso o per destino, pittori quali Marc Chagall (1887 – 1985), Maurice Utrillo (1883 – 1955) o scrittrici quali Geltrude Stein (1874 – 1974) con Alice B. Toklas (1877 – 1967)1

A. Vairano, 29 Note – Poesie, Youcanprint, 2018

Nella sua casa di Montmartre, Modigliani amò dipingere quegli occhi, tanto chiari da sembrare vuoti, sopra un viso variamente reclinato così come tante sono le declinazioni dell’amore. Ed è proprio la sfrenata passione tra Modì e Jeanne, terminata tragicamente, ad ispirare Antonella Vairano nell’opera d’esordio: 29 Note – Poesie. 

Abbiamo l’impressione di elevarci, di salire ad alta quota dove l’aria si fa rarefatta, il respiro corto e tremanti le ginocchia, perché l’autrice scrive d’amore.    

Ci chiediamo se sia possibile scrivere d’amore, oggi tra le macerie delle città martoriate o nei sotterranei affollati delle metropolitane. Ed in quale modo?

L’autrice raccoglie la sfida: scende in strada, percorre caliginosi vicoli, si spinge negli anfratti più bui dell’amore, città eternamente cinta da alte mura imbrattate di vita: “S’ingorda di bianche pareti / e s’affolla di rosso potente. (…) Sono i miei azzardi / che si sciolgono / nell’ordine / di due lune allineate.” (dalla lirica: Vita).

Max Jacob, Château des Brouillards, 1918, olio su tavola (collezione Le Vieux Montmartre)

Ella non esalta l’amore inteso come valore da preservare, ma lo osserva nella relazione amorosa tratteggiandone le emozioni. Per questo, esso non cede mai a vani sentimentalismi o inutili smancerie, è sostanza prima, sale della terra. Così ella scrive: “S’affaticano le parole / e d’essere ne vorrebbero dell’amore / pane carne e sangue. […] S’infiammano le parole / e d’essere sono la riga profonda / del pregevole marmo.” (da: Cos’è l’amore). L’amore dunque si fa sanguigno, essenziale ed il suo verso, carnale. Non una poesia imbellettata, sentimentale, ma del sentire d’amore nella quale il corpo, involucro dell’anima, diviene doloroso bersaglio: “Brucia. / E quanto brucia. / Lacrime ingravidano / nel ventre, / raccolte da voli stanchi.” (da: Brandelli)

Si scorge, dunque, nei versi d’amore della Vairano, la stessa impetuosa carnalità che rintracciamo in Marina Cvetaeva: “Vandalo in un’aureola / di vento! Riconosco / l’amore dallo strappo / delle più fedeli corde / vocali: ruggine, crudo sale / nella strettoia della gola.” (da: Scusate l’Amore. Poesie, 1915-1925)

L’amore dunque può essere bruciante: “Squarci invalidi / infettati / da lame arrugginite / Sotto la colonna di carne. / Sola. / Già trita.” (da: Brandelli) Ma, qui, gli strati di senso sembrano sovrapporsi, anzi, il significato letterale sembra scalzare quello metaforico poiché abbiamo l’impressione che l’autrice rappresenti il parto nel suo doloroso divenire: “Passione necessaria / che non vuole finire.” (da: brandelli)

     È un viaggio, l’amore, nel quale l’autrice perde sé stessa per divenire nell’altro: “Costruiamo corpo tuo e corpo mio. […] Fa’ che mi perda / come la partenza senza il viaggio. / Sei l’iscrizione marchiata / nel mio osso. (da: Fly high). Ma l’amore è anche contraddizione, moltitudine di pensieri ed emozioni: “La mia porta sarà la tua / fortezza alloggiata. / Non mi perdo, amore. / Alberi d’aranci intorno. (da: Alberi d’aranci) Sembra essere centrata sulla distanza, questa nota poetica, nella quale l’autrice, lontana dalle facce sfogliate velocemente, sperimenta il vuoto di giorni inutili in assenza dell’amato: “Non voglio il mondo di facce. / Misura colma. / Sbandati giorni / che non uso. / Appendo il solco. / Mastico vita e mangio amore.” (da: Alberi d’aranci)

Percorrendo le vie di quest’amore, ci imbattiamo in una lirica che è un’impetrazione, accorata supplica nella quale l’autrice chiede che si spengano le luci, si chiudano i rossi sipari, si ammainino le vele perché ella possa sentire il proprio dolore nel profondo di sé: “Ed ora per favore / per favore vi chiedo / spegnete le luci / serrate sicure le chiavi / nelle serrature. / Chiudete i sipari /dal pesante velluto di porpora.” (da: Preghiera). Risuonano, qui, lontani echi di un altro intenso dolore perché, nel cielo ultimo della Poesia, i versi possono stringersi contaminandosi: “Stop all the clocks, cut off the telephone, / Prevent the dog from barking with a juicy bone, / Silence the pianos and with muffled drum / Bring out the coffin, let the mourners come.” (W. H. Auden, Funeral Blues, 1938)2

L’amore è anche e soprattutto coraggio ed ecco che l’autrice invoca l’amato affinché la spinga fuori dalla sua tana: “Stanami dal sedimento. / Stanami dall’inerzia / Prendi l’acqua che sazia l’argine e il desiderio / brucia la tana che corre l’ombra al contrario”. (da: Sole obliquo) Solo l’amore, dunque, può risvegliarci dal lungo sonno, trarci dalle nostre nicchie interiori, dalle caverne buie nelle quali scorgiamo soltanto un barbaglio, una tremula ombra, non la piena luce. “I slept, say: a snake / Masked among black rocks as a black rock / In the white hiatus of winter – “(da: Love Letter, 1962)3

È questo il sonno di Sylvia Plath dal quale ella riesce a risvegliarsi grazie all’amore. Per la Vairano, invece, è l’inerzia, la stanchezza, l’ignavia, l’altra faccia dell’amore; così, illuminato il volto, l’autrice scrive: “E m’investe l’amore. / Ed io ubriaca / m’involgo / nella città prima. / Scalza d’amore, / sulla via dell’amore.” (da: Inside)

Come pagliuzza d’oro è, l’amore, e noi, cercatori di Jamestown, lo inseguiamo quasi disperatamente. Per questo, quando, per incanto, lo stringiamo tra le mani, anche solo per un attimo, non sappiamo più dimenticarlo. È questo il senso, la pagliuzza dorata che rinveniamo sul greto di “La ballata della poesia”: “Non credi / devi / tocchi e senti / ad antiche promesse / di non essere / pensiero e memoria. / Il tempo ti ha tradito / e la poesia ha perso”. Promettiamo, ci imponiamo di non ricordare quell’amore ormai finito ma, il tempo ci tradisce, sgambetta, rovesciando in terra il sacchetto dei ricordi.

Tra memoria e oblio, rabbia e gioia, nella grande periferia della città eterna, scorgiamo una bambinetta vestita di rosa, ha scarpe di pezza e bocca ancora sporca di latte.  È incerta sulle fragili caviglie ed inciampa in un foglio di giornale: è la lirica “Mani” che s’incammina, lenta, sulla via della tenerezza e del sogno: “M’importa del sogno. / Stordisci la mia sentenza / e la mia virtù / E facciamo questa scena: / tu abbracciami delicato.”

Sole obliquo

(di Antonella Vairano da: 29 note – Poesie, 2018)

Stanami amor mio

Stanami dal sedimento

Stanami dall’inerzia.

Prendi l’acqua che sazia l’argine e il desiderio

Brucia la tana che corre l’ombra al contrario.

Sei meraviglia

E danza semplice

E anche eco

E affanno forte.

Sei dimora

E confine notturno.

Moriamo dentro….

In questo sole obliquo

Di città e distanze.

Periferia urbana, Torino

Slanting Sun

(traduzione in inglese di Giulia Sonnante)

Drive me out my love

Drive me out of sediment

Drive me out of idleness

Take water that satisfies banks and desire.

Burn the den that edges shadows inside out  

You are a marvel

and mere dance.

Also an echo

and deep concern as well.

You are a dwelling place

and a night boundary.

We die deep inside….

Under this slanting sun

of cities and distance.

Giulia Sonnante

Antonella Vairano

  1. All’amore di Geltrude e Alice è ispirata la poesia di Antonella Vairano “Lettera di Stein”, disponibile per l’ascolto sul canale Youtube dell’autrice.
  2. [Fermate tutti gli orologi, isolate il telefono, / Fate tacere il cane con un osso succulento, chiudete i pianoforti e con un rullio smorzato / portate fuori il feretro, lasciate che giungano i dolenti] traduzione di Giulia Sonnante
  3. [Diciamo che ho dormito, un serpente/ Mascherato da sasso nero tra i sassi neri / nel bianco iato dell’inverno] traduzione di Anna Ravano.

RISVEGLIO

La verità è che non avrei voluto più scrivere in un tempo che non lascia spazio ai sentimenti, che non si eleva in purezza, un tempo che non riesce a metterci in ascolto con noi stessi e con gli altri, in un infinito stallo di idee e di immagini, ma con assurde ideologie come conquiste quotidiane dell’assurdo.

Poi all’improvviso uno squarcio di luce, una lettura e poi un’altra, la poesia “E lo sognavo, e lo sogno” dello scrittore Arsenij Tarkovskij e il testo di Anna Oxa della canzone che presenterà al prossimo festival di Sanremo intitolata ” Sali (canto dell’anima) ” e mi sono lasciata trasportare da quei versi che ci rimettono in contatto con l’essenza più pura e ancestrale del nostro essere, l’Amore è la risposta, sempre, in un sogno come in un risveglio.

Bocche piene di falsità che nutre il mondo Mani prive di dignità, votate a Dio

Sali, uomo, sali e dimentica

Sali e ritorna alla (tua) nascita

Occhi dell’ambiguità dei nostri tempi Vite frammentate senza verità

Sali, donna, sali e resuscita

Sali e ritorna alla (tua) nascita Libera l’anima

Come rondini la sera Vola libera

Nitida come il canto dell’anima Come stella dell’aurora

Di un mattino che non c’è E che non ha nome

Arca dell’umanità andata a fondo Cuori puri mangiati dall’avidità

Sali e poi un’altra vita tu Vivrai, Vivrai, Vivrai, Vivrai, Vivrai, Vivrai, Vivrai, Vivrai, Vivrai

Libera l’anima

Come stella dell’aurora Di un mattino che non c’è Sali… sali… Rosa… sali

Come stella dell’aurora Di un mattino che non c’è E che non ha nome… oh… Che non ha nome

Oh… oh… oh… oh… oh… oh… oh… Nitida l’anima

Come stella dell’aurora Di un mattino che non c’è E che non ha nome”

Anna Oxa


E lo sognavo, e lo sogno,

e lo sognerò ancora, una volta o l’altra, e tutto si ripeterà, e tutto si realizzerà,

e sognerete tutto ciò che mi apparve in sogno.

Là, in disparte da noi, in disparte dal mondo un’onda dietro l’altra si frange sulla riva,

e sull’onda la stella, e l’uomo, e l’uccello,

e il reale, e i sogni, e la morte: un’onda dietro l’altra.

Non mi occorrono le date: io ero, e sono e sarò. La vita è la meraviglia delle meraviglie,

e sulle ginocchia della meraviglia solo, come orfano, pongo me stesso

solo, fra gli specchi, nella rete dei riflessi di mari e città risplendenti tra il fumo. E la madre in lacrime si pone il bimbo sulle ginocchia”

Arsenij Tarkovskij

Testo e Immagine di

Gloria Sannino

LA POESIA COME ATTO RIBELLE

La poesia è un atto generativo, un atto feroce, a volte, che si spinge oltra la parola, generativa di mondi, per dirla alla Celan, e, nello stesso tempo, ribelle nel suo umile e audace modo di resistere al mondo.

Non c’è atto poetico che non sia anche atto ribelle, ancor più quando la poesia viene da quelle poete che hanno dato un contributo importante alla costruzione di una visione politica della poesia: la poesia è atto eversivo e, quindi, politico nel momento in cui provoca le coscienze e genera azioni, è azione della parola, o parola in azione e si fa istanza dialogica tra il poeta e la sua comunità. Mi vengono in mente alcune poete americane, come Adrienne Rich, poeta, saggista ed insegnante, vicina alle donne ed agli emarginati, mi vengono in mente le poete afroamericane, come Audre Lorde, Maya Angelou, Lucille Clifton.  Le ho scoperte per caso, queste poete, da una poesia di A. Rich, dedicata alla gente, la Rich descrive, in alcuni fotogrammi, la vita delle persone normali, che si fermano a leggere una poesia, seppur immerse nella loro quotidianità.

Adrienne Rich, 1929 – 2012

“So che stai leggendo questa poesia

in una stanza in cui è accaduto troppo che non puoi sopportare

dove i vestiti giacciono sul letto in cumuli stagnanti

e la valigia aperta parla di fughe ma non puoi ancora partire.

So che stai leggendo questa poesia in attesa di udire qualcosa, divisa tra amarezza e speranza, per poi tornate ai compiti che non puoi rifiutare.

So che stai leggendo questa poesia perché non c’è altro da leggere,

lì dove sei approdata, nuda come sei.”

Qualcuno aspetta il treno, all’uscita dall’ufficio, dopo una giornata di lavoro, una madre tiene in braccio suo figlio che piange, qualcun altro è davanti alla tv ad ascoltare le solite notizie ed in questa routine, qualcosa accade: la persona prende una pagina di libro e legge una poesia. E questo cambia ogni cosa, la poesia è capace di aprire uno squarcio, un momento di astrazione dalla vita, che procede deterministicamente, e quel momento in cui gli occhi sono sul testo, l’anima si solleva. Allora la poesia è un atto eversivo anche se per un solo momento ci permette di staccarci dalla corporeità del vivere, dal guardare senza davvero vedere, dal sentire senza alcun ascolto, ci permette di centrarci, di darci attenzione. Tutte queste poete hanno in comune la scelta di fare della propria poesia un atto ribelle, con stili differenti, ma in qualche modo vicini, hanno dato parola alla donna, alla donna nera, alla donna lesbica, all’emarginata, alla donna giovane, inesperta difronte alla vita, restituendole voce e dignità.

Audre Lorde, 1934 – 1992

«Per le donne la poesia non è un lusso. È una necessità vitale. Forma la qualità della luce all’interno della quale noi affermiamo le nostre speranze e i nostri sogni per la sopravvivenza e il cambiamento, prima sotto forma di linguaggio, poi di idea, infine di azione». Afferma Audre Lorde, la poeta «Nera, Lesbica, Madre, Guerriera, Poeta» come si autodefiniva.  La Lorde vive sulla sua pelle il razzismo ed il peso della diversità, perché nera, perché lesbica, perché donna. Pronuncia la sua audace parola nelle strade, generando un movimento di lotta per l’emancipazione femminile.

Bisognerebbe restituire fiducia alla parola, riconoscerle il potere di agire davvero il cambiamento, “ora prendi la mia parola come un gioiello in piena luce», dice la Lorde, la parola e la luce, la parola che illumina. E non finisce mai il tempo della rivolta, il tempo eversivo, in cui la parola si fa impegno civile per affermare i diritti e denunciare le ingiustizie, non finisce mai il tempo delle ingiustizie e, in ogni epoca, bisogna trovare gli strumenti per combatterle.

Tra questi vi è certamente la parola poetica, il suo valore educativo e pedagogico, quando si fa strumento per arrivare alle giovani generazioni, quando parla la loro lingua, quando rivendica il superamento del pregiudizio e dell’intolleranza.

Maya Angelou 1928 – 2014

Maya Angelou, poco conosciuta in Italia, è invece una delle poete afroamericane più amate, impegnata politicamente come militante ed attivista dei diritti degli afroamericani con Malcom X e Martin Luther King, una donna che viene dalla miseria, costretta a prostituirsi, divenne madre a soli 17 anni. La sua opera letteraria è stata molto prolifera, viene considerata un’influente intellettuale, una personalità che è riuscita ed ergersi, nonostante tutto, come nella sua famosa poesia ripete:

“…

In un’alba meravigliosamente chiara, mi sollevo.

Portando i doni che i miei antenati mi diedero,

io sono il sogno e la speranza dello schiavo.

Mi sollevo, mi sollevo, mi sollevo.”

Mi sollevo” ripete la poeta, come una litania, un canto di liberazione e di lutto insieme, un inno eversivo contro chi ha schiacciato nei secoli, le donne, i neri, le donne nere, gli emarginati, gli ultimi. Allora queste parole di resurrezione, di rinascita sono la vittoria dei deboli, la rivincita contro i soprusi e le ingiustizie del mondo, contro gli ingiusti.

«Appena sei guarito, va’ a guarire qualcun altro» afferma Maya Angelou, ed a me piace molto l’idea del prendermi cura dell’altro con la poesia, attraverso la parola poetica che è  parola terapeutica e liberatoria, parola che salva e ci porge la nostra fragilità come un bene prezioso di cui occuparci.

Lucille Clifton, 1936 – 2010

Ed infine, c’è lei, Lucille Clifton, poetessa, scrittrice ed educatrice, convinta femminista, ha parlato una lingua semplice e meticcia, nata dalla strada e di questa lingua rotta ha cantato la donna e la sua fragilità. La Clifton ripudia le maiuscole, vuol riportare la lingua all’uso quotidiano senza ambizioni di potere, le sue poesie sono brevi e fortemente evocative. Nella poesia dal titolo Qui ci sono draghi tuttora, la Clifton dice:

“…nella bocca del drago. da qualche parte

ci sono mostri i cui denti

sono affilati e luccicanti di gente

perduta. poesie perdute.”

In un tempo faticoso, come il nostro, dovremmo andare a riprenderci le parole dalla bocca di quel drago e salvarle, per salvarci con loro.

Mariatina Alò

Martin Luther King, 1929 – 1968 (insignito del Premio Nobel per la Pace, 1964)