SE TOLGO IL NODO di ANNA RITA MERICO: SULLE TRACCE DEL DESIDERIO

A.R. Merico, Se tolgo il nodo
Con uno scritto di Antonio Nazzaro
Postfazione di Claudia Mirrione
Musicaos Editore, Neviano (Lecce) novembre, 2023

Ci sono fili, funi, tentacoli a legarci alla Poesia di Anna Rita Merico in Se tolgo il nodo, ma è il verso stesso a chiedere spazio per riuscire a penetrare l’anima; la pagina appare come segnata dalla parola poetica, scolpita su marmo.

Fili e spazi, come ossimori, sono, tra loro, in perfetta simmetria per riuscire ad esprimere il tutto del pensiero, il tutto della parola: Un movimento ralenty–irreale / mi catapulta in uno spazio violaceo turchino (…)  ora nulla più mi lega / il linguaggio è tentacolo filiforme. (CHIRURGIE p. 15)

È Poesia verticale, discesa, viaggio in profondità che reclama una spogliazione, progressiva perdita di parti del corpo: Perdo parte / una millimetrica chirurgia stacca bordo estasiato di pelle (p. 15) e ancora: un filo potente scuce / un movimento di lentezza imprendibile avvolge / nel fondo in cui scendo / trovo l’inaspettato (DENTEDIBESTIA p. 17). E non stupisce che la scena, come in un dramma teatrale, si apra con lo spazio cosmico lì dove, come shuttle, l’io poetante s’eleva cercando di riafferrare brandelli di sé: Così / perdo parte di me / all’inizio vedo la parte / cerco di riabbordarla / con sempre minor forza e intenso dolore la guardo / impellicciata nell’impossibile del gesto / vengo ritagliata in forma nuova. (p. 15). Tali versi, dicono, in apertura, ciò che sarà il viaggio, l’atto unico della nostra Vita: perdita, dolore, forma nuova.

L’inaspettato, in questo scuro labirinto contemporaneo, senza fiamme, certo, come nel gorgo dantesco, ma con rostri ad uncinare la tenera pelle, è il Minotauro di Dürrenmatt[1] che l’autrice pone in ex ergo. S’accovaccia, il Minotauro, avanza, arretra con noi in un gioco di specchi, un’infinita danza: “scaturì un po’ per volta una ritmica danza della creatura con le sue immagini che erano in parte specularmente inverse e in parte, quali immagini d’immagini identiche alla creatura” (p. 7). Esso rappresenta, dunque, l’incompiuto, l’irrisolto, ciò che non siamo stati capaci di accettare, i nodi che non abbiamo saputo sciogliere.

Il Minotauro ricorre anche in Fenomenologia del silenzio[2], corposa raccolta poetica (2004 -2021), di cui Se tolgo il nodo sembra essere gemmazione. Qui la poeta scrive: Al centro del livido umore / il Minotauro ronzante modellava / spargeva le mancanti vocali dell’incompiuto alfabeto.[3] Estremamente affascinante, l’immagine del Minotauro che sparge le vocali mancanti; la scrittura, o meglio, il suo divenire solca il vuoto cercando le parole per enunciarlo affinché in esse tutto abbia corpo, persino il nulla; ma non mi sembra questo il punto. C’è proprio un vuoto, sembra dirci la Merico, che la parola poetica non sa riempire. “La parola è impotente”, afferma Ungaretti (1888 – 1970)[4], ed è quel segreto, quell’ineffabile che possiamo sfiorare con lo spirito, ma che sfugge al corpo della parola, ad esser essenza della Poesia. Eppure, questa ipotesi non mi convince appieno. Credo che ciò che tormenti la Poeta sia l’Altro nell’assenza. Potremmo affermare, dunque, che la parola poetica sia, in Merico, espressione del desiderio; ella scrive: dietro ad ogni parola c’è un pensiero che non stringo ma che mi si mostra tormentandomi / a volte dei raggi mi trafiggono pupille e mani (Per Claudia Ruggeri, p. 59)

Difatti il desiderio, inteso come assenza o anche attesa di qualcosa che si colloca altrove in un luogo mai pienamente identificato, sembra attraversare come filo rosso, l’intera raccolta, o meglio, le parti, i bozzetti, di cui l’opera è composta.  

Il viaggio dell’essere umano inizia nel cosmo: Tutto avviene nel passaggio dal cosmo alle tube (…) ma quando questo passaggio non è stato / semplice regolare lineare e si occlude il sentiero e qualcosa resta nel buio metallico del cosmo (…) e poi accade che nasco ma ho un pezzo fuori (…) senza quel pezzo non posso / non riesco [5] Per me, questi versi, nei quali è rappresentato il trauma della Nascita, non sono soltanto espressione del desiderio, ma provocano l’anima, raschiandola, chiamandola in causa; così la Filosofia si fa incontrovertibile Verità, non solo idee, pensieri, ipotesi, e la Verità, Poesia. Ed il passaggio dalla Verità alla Poesia è Salvezza.

In FAME l’autrice focalizza l’attenzione sul cibo e scrive: Ululo come lupo         piango come agnella / stasera   stasera     stasera / vorrei    vorrei     vorrei  / cenare con te /  aiutami     ho fame stasera; qui l’evidenza del desiderio non è resa soltanto attraverso la reiterazione del condizionale ma anche tramite una maggiore dimensione degli spazi tra le parole.

Per quei cordami che stringono l’autore al lettore ma anche, tra loro, le varie parti dell’opera, il cibo è legato all’amore, dunque, alla figura materna, centrale in SQUAME: allontanati      vorresti divorarmi / ti sento con le tue squame graffiarmi la pelle (…) allontanati / non vedi che ho caldo durante quest’inverno di albe brinose? (p.37)

In SE TOLGO IL NODO, bozzetto che dà il titolo all’intera opera, l’autrice sembra, invece, delineare il fenomeno del ritiro sociale: Cambio pelle forse   però   se togli il nodo quel borbottio dell’anima si ferma / forse    però    se togli il nodo il tuo gemello siamese svanirà / sai? / lui non è reale (p. 35).

Quel “gemello siamese” con il quale si confronta chi vive in solitudine, solo, nella folla del virtuale, senza saper incontrare veramente l’altro, mi riporta, ancora una volta, al Minotauro che, danzando, ci rispecchia. Se la guarigione è nell’Altro, anche il desiderio può cambiare prospettiva. Freud (1856 – 1939) ci ricorda, a questo proposito, che il sogno è l’appagamento di un desiderio in cui sono presenti anche le voci degli altri.

E nel movimento tellurico dei versi, splendida è SUZIONE in cui, ancora una volta, la voce materna giunge da luogo altro, una dimensione tutta onirica. Ma qui la Merico apre la ferita del non amore poiché tratteggia una relazione distruttiva,  forse simbiotica, piuttosto che d’amore autentico, relazione che, infine, si libera, libera, cioè, il desiderio della madre attraverso il dolore: era lei proprio lei / sbucava dal ventre di una notte archetipa /aveva rapito la libertà della sua origine e ci si era ficcata dentro (…) urticata nel suo progetto distruttivo / bramata d’amore / per lei stanotte ho pianto / per lei stanotte ho tentato di bere il succo amaro del suo latte rancido (…) stanotte ho pianto / per lei          per me / succhiando nuova libertà (p. 63).

Come precipizio a strapiombo sul mare, ritroviamo, nitido, il vuoto d’amore ma anche il desiderio come appagamento del corpo; in Fenomenologia del silenzio, più in particolare, in The process of writing, l’autrice scrive: Bocca affamata / dispettosa / tiranna / regina d’archetipo desiderio /      origine spaccata in due[6]

Se la parola diviene corpo, si dimostra impotente, mancante, ombra ineffabile. È lì, sul ciglio del dirupo, pronta a lanciarsi nel vuoto; è, essa stessa, vuoto, non asettico, fine a sé stesso, ma desiderio dell’Altro, poiché siamo protesi verso l’Altro ed il Poeta, nella sua solitudine, lo è strenuamente. Urla, il poeta, nella fragilità della Parola.

Dall’urlo delle viscere una parola muta

come può tanta mancanza d’ordine

trovare filo ed ordito di trama?

una doppia juta di sillabe si tesse

mentre

la parola mostra

ancora

solo

la sua ombra[7]

È il semiologo francese, Roland Barthes (1915 – 1980) ad associare scrittura, corpo e desiderio scrivendo: “Le langage est une peau: je frotte mon langage contre l’autre. C’est comme si j’avais des mots en guise de doigts, ou des doigts au bout de mes mots. Mon langage tremble de désir[8] e ancora: «Savoir que l’on écrit pas pour l’autre, savoir que ces choses que je vais écrire ne me feront jamais aimer de qui j’aime, savoir que l’écriture ne compense rien, ne sublime rien, qu’elle est précisément, ” là où tu n’es pas,” c’est le commencement de l’écriture… »[9]

Mentre Barthes sfrega il linguaggio contro l’Altro per distaccarne scintille, la Merico se ne sente stordita: Mi sono sempre sentita invasa / allagata intollerante alla parola (…) le mie parole si stordiscono facilmente e mi lasciano dolore acuto insopportabile come una scia di lava (FUTURO p. 53). D’altro canto, il tentacolo filiforme con cui la Poeta apre la raccolta, è qualcosa che avviluppa, involge ed inesorabilmente attrae. Ma è lì, nel peso, in quella dolorosa attrattiva di corpo e senso che la Poesia incendia la Parola.   

Giulia Sonnante


Anna Rita Merico Nata a Nola (Na), attualmente vive in Salento. Inizia la propria attività di ricerca all’interno dell’M.C.E. (Movimento Cooperazione Educativa) e, contestualmente, in ambienti legati al pensiero della soggettività femminile a partire da Laurea in Filosofia e tesi su Carla Lonzi. Molte le collaborazioni con I.R.R.E. Puglia e Ministero per sperimentazioni nazionali (Progetto P.O.LI.TE.) ed europee (Progetto Tam-Tam, Spagna-Grecia-Italia) sul tema della didattica della differenza sessuale.

Lunga attività di ricerca su tematiche inerenti la filosofia della differenza sessuale: collaborazioni con dipartimenti universitari attraverso progettazioni europee, pubblicazioni su riviste di settore e testi collettanei, formatrice in corsi presso enti istituzionali ed associazionismo.

Silloge: Era un raggio…entrò da Est (2020, Musicaos ed.). Raccolta: Fenomenologia del silenzio (Musicaos ed. 2022)

Presente su blog e riviste online/cartacee (critica letteraria e poesia).


Note

[1]Friedrich Dürrenmatt, in Romanzi e racconti a cura di Eugenio Bernardi, 1993, Einaudi-Gallimard, Torino, trad. di Umberto Gandini

[2] A. R. Merico, Fenomenologia del Silenzio, poesie (2004 -2021) segnate pietre, in the process of writing, Dall’angolo bucato entra memoria, una parola si bea, al sole, pulsando infinita – Musicaos Editore, Neviano (Lecce) 2022

[3] AR. Merico in ibid p. 77.

[4] Intervista a Giuseppe Ungaretti (1961)

[5] A.R. Merico Se tolgo il nodo p. 59 (in Per Claudia Ruggeri)

[6] A.R. Merico, Fenomenologia del silenzio p. 50

[7] A. R. Merico, Fenomenologia del Silenzio, p. 91

[8] R. Barthes, Fragments d’un discours amoureux (1977)  testo in formato digitale al seguente link : https://www.sas.upenn.edu/~cavitch/pdf-library/Barthes_Discours_amoreux.pdf [Il linguaggio è una pelle : io sfrego il mio linguaggio contro l’altro. È come se avessi delle parole a mo’ di dita, o delle dita sulla punta delle parole. Il mio linguaggio freme di desiderio.]

[9] R. Barthes Fragments d’un discours amoureux (1977) [sapere che non si scrive per l’altro, sapere che le cose che scriverò, non faranno innamorare chi amo, sapere che la scrittura non compensa nulla, non sublima nulla, sapere che essa è proprio là dove tu non sei, è là che ha inizio la scrittura.] traduzione di chi scrive.

Giusy Carminucci recensisce UN BACIO E UN GRAFFIO di VINCENZA DI SCHIENA

proposta al Premio Strega – Poesia – 2024

F

T

La poesia di esordio di Vincenza Di Schiena, insegnante e molto altro, è l’esempio più bello di come possa essere sdoganato il lasciapassare dei pensieri alla grandezza di una donna.

Poeta o Poetessa che dir si voglia, la Nostra, con un lungo trascorso di impegno civile, sociale e culturale nel suo territorio, ci offre una a volte ponderata, a volte istantanea lettura di quella dimensione che le origina esperienza: la vita stessa.

Approcciandosi alla silloge “Un bacio e un graffio “si ha l’immediata percezione che non è semplice né immediato e neppure scontato poter entrare in empatia con la sua poesia.

L’Autrice sembra quasi voler “opporre resistenza” alla relazione e alla conoscenza, scegliendo da chi vuole lasciarsi esplorare.

Una volta trovata la password, però, è un continuo fluire di ritratti, di contesti e di porte che si aprono per il lettore, verso il cuore e la mente della Di Schiena, per svelarne la bellezza.

Questa poesia usa un complesso di strutture linguistiche cariche di una propria forza esistenziale, ed è quella che Vincenza possiede e che le permette di rendere vivi i suoi versi con estrema naturalezza.

Il lessico adoperato lambisce continuamente un linguaggio personale, carico di costruzioni fluide, che si vestono ora di ritmi ora di inedite costruzioni sintattiche. La Di Schiena gioca di strumenti stilistici come l’anafora, l’analogia, la rima.

“Piove.

Tu non ci sei.

Faccio le prove

conto sette, otto, nove.

Ti nascondi non so dove.

Piove.

Giro i tacchi

 Cerco un nuovo amore.

Piove.

Era ora di chiudere il portone”.

L’energia, che questa scrittura poetica possiede, nasce da una combinazione di significati legati all’impegno sociale, con imperativi di affermazione di sé, ma anche di vibrazioni erotiche cariche di tensioni precise o soffuse, il tutto sempre sostenuto- con estrema naturalezza- da una decisa ricerca espressiva.

Tutto questo, mentre dipana le matasse di nuclei tematici umani, straordinariamente umani! Dobbiamo considerare, infatti, che la poesia della Di Schiena offre una chiara interpretazione di sentimenti, partendo proprio da cosa li ha originati.

“(…)

Ho scelto il tormento, il filo spinato

per adorare chi non è nato

dentro di me.”

 Per poi dichiarare a chiare lettere

“ (…)

Assedio e guerra

è l’amore vero.”

L’Autrice prova a dare, attraverso i suoi versi, una definizione di elementi vitali, che, come forze motrici, costruiscono le dimensioni reali dell’essere:

            ⁃L’attesa

“Travolta da un’insensata attesa

asciugo la pioggia di novembre.

La testa a posto, i nervi sciolti

il tuo passo sulle scale

le parole distese sul fianco della tua schiena.”

            ⁃ La forza del potere del guardare degli occhi:

 la forza di uno sguardo che cattura “senza nulla afferrare “.

            ⁃Lo spazio/ abisso tra la percezione e il far proprie situazioni, stralci di vita, opinioni

“(…) nessuna proiezione sarà abbastanza

nell’arco delle ciglia

che tutto catturano (…)”.

E poi… il viversi con un

“cambio pelle

tutte le volte

che striscio di dolore”.

E in questo contorcersi di essere e di scegliere chi si è, che si impone, con profondità di significato, il tentativo che la poetessa fa nel delimitare chi siamo :

 “Abbiamo almeno due anime

Una per giocare

L’altra per patire

E mille altre stanze da governare.”

Ed è nell’affermazione dell’essere che acquista particolare significato il potere della voce, a cui la Nostra affida, con precise e ricercate aggettivazioni, la propria poliedrica presenza dell’essere nelle relazioni.

Ed è di relazioni che parla, quando definisce “costellazioni fili invisibili, abbracci, canzoni. “

Sono territori emozionali, che si materializzano nell’intreccio dei sentimenti. Ed è nel gioco di un silenzio che costruisce, che si delinea un amore segreto o celato, quando la Poetessa con la delicatezza di una piuma dice

“ Ti amerò in silenzio.

Non busserò

non lo dirò a nessuno.

Ti chiuderò a chiave nel mio cuore

E mi addormenterò. “

Amerà in silenzio, ma cantandone la bellezza ne” lo spazio azzurro che cerchiamo”, partendo da “ una pagina di quaderno vuota”, dove  ” tratti sottili sono le parole”.

La poesia è il nostro pezzo di cielo.

E quello della Di Schiena è un cielo azzurro, perché la sua è una poesia carica di una lingua che è, anche, confronto fra le varie sfaccettature di un amore, spesso ridotto a strumento o selezione,  ma che esprime sempre, con forza e con il giusto flusso di parole, la consapevolezza delle sue sfumature.

 È nella parola la forza indiscussa del suo impegno civile, sociale e culturale, che ora esprime in versi la coscienza responsabile di una persona attenta a costruire, con i mille sé che le appartengono e i tanti cittadini del mondo, un futuro sostenibile, in cui coltivare relazioni, anche di passione vestite

“Bagnami di dolce saliva

Entra nell’erbario

Fai spazio tra l’ortica.

Fusto di liquirizia accomodati

e metti radici.”

Già a partire dal titolo della silloge si individua la tenerezza di un incontro con una creatura che ha molteplici dimensioni di libertà; il contrasto tra i due lessemi, bacio e graffio, riportano ad una richiesta che i bambini sono soliti fare agli adulti di cui si fidano: un piccolo bacio su un graffio, fa credere loro che la ferita possa guarire, che il dolore possa passare. I bambini ci credono, perché si fidano, senza preconcetti, in modo incondizionato di chi li ama e si prende cura di loro.

Già dal titolo della silloge “Un bacio e un graffio”, inizia, quindi, a delinearsi un progetto che è di per se stesso evento e accadimento; in quanto celebra l’esistenza svelata, di protagonisti impigliati nella rete della comunicabilità, ma pur sempre liberi e determinati nei ritmi delle proprie fragilità.

Giusy Carminucci

Miriam Bruni su TER(R)APEUTICA di LUCA CHENDI

Ho letto questa raccolta poetica dall’inizio alla fine, e poi dalla fine all’inizio. Già alla seconda lettura certi tratti del libro si sono fatti più visibili. L’operazione seguente è stata una ricerca delle parole ricorrenti. Questo perché lo stile di Chendi è piuttosto ermetico, e sarebbe troppo aleatorio commentarlo e discorrere sui significati, senza prima averne soppesato la struttura fisica, il significante.

Il termine più ripetuto è TEMPO, seguito da DOLORE, VITA, STAGIONI.

“Il tempo lo sfoglio a cenere persa”, scrive l’autore già nelle prime pagine…; “sopra il tempo è stagione ostile/ lascia solo deserto sulla pelle” (p.51): attrazione dei poeti per antonomasia, il Tempo qui ritorna davvero in modo martellante. Come se l’io lirico fosse costantemente alle prese con la domanda a se stesso: “Cosa sto vivendo, qui, ora?…”

Nonostante la giovane età, Luca dà mostra di uno sguardo sul mondo già piuttosto maturo e personale, e utilizza il linguaggio in modalità che sono al contempo espressionistiche e musicali.

A livello di contenuti, si confronta con l’esperienza del lutto: la attraversa con coraggio e raggiunge un sentire nuovo, che gli fa dire, verso la fine: “È questa quiete il rimanere/ nel bene, in pochi istanti lunghi/ come anni impressi nella resina.” (p.86). La strofa precedente era stata rivelatoria del cammino fatto: “Solo così saremo nell’estate/ e in tutte le altre stagioni/ che abbiamo perso. / Solo così chiamarsi qui/ non sarà più come/ sparare addosso ai morti.”

In queste pagine ci ritroviamo dinanzi alla sempre vera consapevolezza della fugacità degli istanti, e della necessità quindi di un certo stoicismo, ma siamo anche portati a guardare ai nostri interrogativi esistenziali – spesso ammaccati dal “vuoto” –  , interrogativi che nel nostro autore si aprono piano piano verso la contemplazione delle misure cangianti di ogni cosa: “tutto è dilatato tutto cerca il suo colore.” (p.80)

Per questo Chendi mette in gioco sé stesso, la memoria, e il cuore: per capire qual è il colore del suo destino, e scoprire se – o che –Ci protegge dall’alto un altro cielo/ come la cornice antica di una tela/ che resiste ai colori della sera/ e di fronte espande intero il mare.” (p.83)

Da ciascuna delle tre sezioni della raccolta ho scelto un testo. Un testo che ho trovato particolarmente esemplificativo per la tematica affrontata o stilisticamente riuscito.

Nel primo sono messi in scena, rappresentati, la struggente nostalgia per la perdita del padre e la fatica emotiva di reggere questa assenza.

Temo il tempo dell’attesa

le pareti spogliate dalle foto. Temo

il lamento in moto delle ore.

Sarà un secondo o forse l’infinito

questo dove si dilata

il futuro delle dita.

Niente riempie il vuoto

tutto scorre nei silenzi

ma io vorrei sentire il tuo rumore

vorrei che mi parlassi

per ore – almeno un’altra volta –

della schiuma del mare

come quando sotto il sole

sentivo la passione farsi marea.

Innaffiare -così- la sabbia

è un gioco fuori stagione

il ricordo è come un fiore

piantato nel deserto.

(p.27)

Nel secondo vi è già un sole che fa capolino tra le nuvole, ed è il sole di una corrispondenza emotiva che aiuta a ritrovare visioni – anche se solo interiori.

Sono barbarie le troppe precauzioni

si resta per ore a guardare.

È la natura che ci concede il luogo

ma non sappiamo come abitarla.

E così siamo capiti nella ferita

in questo tendere all’incontro

dell’amore puro. Ti giuro

è indecifrabile ma lasci

visioni private nel cuore.

(p.64)

Il terzo si chiude su una splendida dichiarazione naturalistico-esistenziale: l’io di questo racconto in tre tempi, ha ormai accolto la ricorsività dei contrari, dei colori, delle stagioni.

È pronto a riconoscersi figlio della terra, addirittura più vicino al mondo vegetale che a quello animale. In vari passaggi del libro infatti, il correre avanti o indietro, il cercare la folla o l’agitarsi per stare a galla, vengono de-scritti come inutili e forse patetici tentativi di stare in vita, essere in vita.

Se siamo

siamo in uno schiocco di dita

in quello spazio incerto

che si fa ospizio

e ci divide

che dice il millimetro

di distanze tra di noi.

Ora non ha senso la corsa

il tempo batte

il tempo del panico. È settembre:

la vita imprimeva – anche lei

sugli alberi – colori caldi

di realtà. Guardarli ora è

ritrovarci nell’attimo che torna,

siamo anche noi i figli della terra.

(p.87)

                                                                                                              MB, febbraio 2024

‘L’usignolo bagnò di luce le labbra del giorno’: Anna Rita Merico su LA SLEGATURA DI MAURA BALDINI

Nel gelo mattutino

acqua velenosa.

Così comincia

il rebus della speranza

che arranca

e sviene

sulla tomba di Dio.

La poesia scorre tra le righe del pensiero e le pieghe del corpo. Trasforma ciò che vede e ne tocca l’ancestrale. Cosa diviene poesia se un momento di vita s’assopisce attendendo svolta in un dove sconosciuto? Un risveglio si trasforma in orologio del tempo che segna attesa e speranza. Un passo incerto dentro un immobile di intenti. Il tempo che rolla aria gelida come fosse trapano e rovello, vuoto e veleno, sospensione e attenzione al diamantino di un gelo aurorale che non prende forma. Dannata quest’alba, evoca fantasmi e getti molli di acque scure.

L’usignolo bagnò di luce

le labbra del giorno.

Al grido di una gola acerba

si defilò sacrificando il canto.

Certezza non crebbe allora

nella musica che il cielo svelava,

e l’occhio della luna giustiziò

l’assassinio scambiato per amore.

Ma poi s’alza tutto, il giorno. E la speranza cuce una fredda certezza. E il tempo continua ad andare. Passi che chiedono giustizia. E’ giorno impilato nel margine di una vita che tesse qualcosa di sgraziato. Inganno svela  inganno. Di menzogna mi ero nutrita ma il giorno svela, con luce bagnata, quel dentro che mi ero negata. E l’orologio continua ticchettio di giornata che scende.

Nella luce sta

la coazione del dolore

e la speranza

che un verbo si levi

dal lago.

E la giornata continua scorre di grano in grano. Ore coatte e attese disattese. Qualcosa piega affanno e volontà. Dalle sponde di questo lago che guardo alle spalle, attendo…

Ho un osso obliquo impiantato nel ventre

e un fiore carnivoro che mi divora.

Mi dicono che fuori è il nemico,

ma fuori c’è il cielo

che svezza albe come perle,

e ci sono alabastri

che raccolgono notti per suonarle ai viandanti.

Di questo vento d’essere non posso cogliere il male

E non posso guardare fuori

col tormento che ho dentro

col bruciare delle stelle fra le mani

e l’inganno dell’acqua

che mi ha dato i natali

e con loro l’abisso.

L’acqua torna nel tempo che lento fiocca. S’avvicinano notti e si cuciono intenti. Al calare sento passi di viandanti che mi suonano come corde e mi risuonano come improbabili presenze. Ormai lo stellato drappeggia questo primitivo orologio. Torno al plancton di un inizio mai innocente. Sfioro la bocca di un taglio incistato nelle memorie di cellule slegate. E guardo queste minuzie le vedo tutte impazzite, minuscole, gelide, taglienti: soglie d’abisso sventrato. Si risvegliano antiche divorazioni, bollore di ancestrali, gorgoglio d’incontrollabile mistero. E’ un dentro che mi avvolge lasciandomi fuori, muta e immobile, a sentire.

Notte per assaporare

una fratellanza

un nodo scorsoio

di braccia e palpebre,

sonnambuli varchiamo

lo stesso sogno,

e stare muti, sigillati,

ad accarezzare la bestia,

ed esserne felici, ingenui,

con occhi sbiancati,

marchiati da un’infanzia comune

una rinascita.

E, nel giro delle lancette fatte tempo, s’agglutina la notte. Scompaiono le lancinanti delle solitudini. Compaiono i corpi di abitanti, quelli che hanno vagato nel niente del nonriposo.  Come trasparenti ombre ricordano e calpestano i suoli d’antichi inferi. Sanno di Ade, sanno di Bocche spalancate in accessi, sanno di Budelli in cui fuoco e ghiaccio s’alternano e lambiscono. E questa giornata nata e giunta a notte ha il sapore dell’infinito. Ha la rasposità dell’inattraversabile. Ha la forma del dolore che, fondo, plasma. E’ stata una visione. Procediamo in frotta, imbacuccati in anime fatte corpo, a piedi scalzi mentre azzanniamo rinascite.

La Slegatura di Maura Baldini è un Diario il cui sismografo registra ogni gamma emotiva legata all’incedere di una situazione limite che dal corpo invade l’intero essere. Il tema della luce indica a tratti la speranza, a tratti la gioia di bearsi nella speranza, talaltra il mondo che torna. Nulla di più attento al tema del dolore tratteggiato con linee di delicate incursione negli esiti di ricaduta sul pensiero e nel corpo. Una poesia in cui ogni sguardo è decentrato e tutto è guardato dalla soglia di una distanza che è prossimità al mondo e, al contempo, distacco da esso. Il dolore del corpo dinanzi cui si è impotenti, slega dal mondo e lega ad altre connessioni. Lega alla sfera del profondo, sfera nella quale il sentire diviene crepaccio del percepire, regressione ad un sé che si sente mite e si ritrova muto pronto ad uscire dall’ombra.

Anna Rita Merico


Tutti i testi sono tratti da

Maura Baldini, La Slegatura ed. Il Convivio 2022

“La collina dei treni” di Martino Sgobba: La Forza dell’Insieme

Martino Sgobba, La collina dei treni, Giovane Holden Edizioni, Viareggio, 2023

“La collina dei Treni” di Martino Sgobba, attento osservatore delle dinamiche relazionali, è il romanzo delle individualità, individualità che cercano di avvicinarsi, di mischiarsi l’una all’altra per sentire, succoso ma aspro, il morso della vita.

Esso ruota intorno ad un gruppo di persone emotivamente bloccate che tentano di superare lo stallo emotivo di cui, purtroppo, sono vittime perché dal gruppo ognuno tragga la forza ed il necessario sostegno attraverso il confronto con l’altro.

Non è un caso, a questo proposito, che le informazioni circolino molto velocemente all’interno del gruppo lasciando che ciascuno se ne senta parte imprescindibile.

C’è Marta, la protagonista femminile, che vive un’esistenza ingrigita dalla routine quotidiana, una vita senza scosse di cui comincia ad essere stanca; Lorenzo, il brillante chirurgo, Paolo, l’amico prete, Sabino, il mistico, e Carlo, l’adolescente disabile.

Fortissima dunque la caratterizzazione dei personaggi che viaggia sicura lungo traiettorie psicologiche, non tanto fisiche; una caratterizzazione che si serve di particolari simboli per essere pienamente resa e compresa. Così il fascio di luce dell’abile narratore illumina Marta in una “macchia grigia, appena lambita dal bagliore delle vetrine (…) le tristezze erano rimaste con lei: nessuna aveva perso i suoi passi”. (p.11) Sulla riva opposta del viale, ella osserva il carcere su cui proietta le sue ansie, le sue più recondite tristezze, mentre un rivolo di consapevolezza, pur timido, riga la terra riarsa della sua esistenza. Ecco, ogni personaggio è legato, direi abbinato, ad un particolare edificio cittadino che diviene metafora di ciascuna condizione. Così l’autore scrive: “Marta osservava la fila delle celle, una per ogni luce. Non poteva scorgere le figure oltre le grate delle finestre, ma quelle esistenze segrete le pensava più interessanti della sua; era sicura che per quei prigionieri il tempo progettasse, in ogni istante, di evadere verso il futuro.” (p. 12)

Per Lorenzo, invece, è l’ospedale, il luogo che più lo rappresenta perché salvare, e dunque salvarsi, è la sua missione: “E non occorre evadere per andarsene, completò Marta, ma il suo vero pensiero era differente: in quel luogo, in quella fabbrica di guarigioni, qualcuno si era recluso volontariamente, per salvarsi, combattere contro i suoi fantasmi, espiare la colpa.” (p.168)

Dunque, i personaggi trovano rifugio in particolari luoghi che diventano vere e proprie nicchie interiori; non solo, in essi s’indentificano completamente ed è significativo che, al termine del romanzo, Marta visiti il quartiere e la casa in cui ha abitato fino a poco tempo prima, ma stenti a riconoscerli, nell’ammalorata bruttezza, proprio perché ella è profondamente cambiata: “Non riconobbe gli alberi e la loro sequenza; solo di qualcuno riconsiderò la robusta deformità del tronco, l’irregolare calvizie delle fronde, l’assalto delle radici contro l’asfalto, ma con il distacco di chi scruta le cicatrici e non ha interesse per i volti deturpati. (…) Il campanello era rotto; il suo cognome era stato raschiato. Toccò il portone con le nocche e in quell’istante la casa morì, in silenzio. Non si udì nemmeno il guaito di un estremo respiro. (p. 183)

E affiorano alla memoria alcuni versi di Andrée Chedid: « Ce n’est pas de mourir que nous mourrons / Mais de porter le jour en mille échardes / D’être la proie d’un seul de nos visages / De tenir nos maisons pour le lieu »[1]

Ci esorta a non esser preda di noi stessi, la poetessa, a non considerare la casa come luogo unico, in una parola, ad essere aperti al cambiamento.

Ed è proprio il cambiamento, al centro del romanzo, significativo, seppur minimo: il narratore tratteggia “round characters”, vale a dire, personaggi che crescono e si evolvono all’interno della storia.

Così la grigia esistenza di Marta si tinge, piano, di un colore più vivace ed intenso; quella felpa rossa, dimenticata in auto, è certamente un indizio di come la sua vita presto muterà. E in fondo, anche il figlio che Marta dice d’avere per ottenere un lavoro migliore, può considerarsi manifestazione del desiderio di maternità.

E c’è ancora un altro luogo, lontano dal carcere e ben al di là di ogni limite o chiusura, a rappresentare, più di ogni altro, il desiderio, il nuovo, la bellezza ed è quella magica collina dove Lorenzo conduce Marta perché possa guardare i treni passare:

“La collina attendeva il loro arrivo, controllando il suo territorio. Luci, tutte di diverso scintillio, punteggiavano l’oscurità: prima rade, poi sempre più numerose, fino ad ammassarsi in galassie, una per ogni paese disteso sulla costa a poca distanza. Lo splendore del buio declinava verso il mare, che si lasciava intuire oltre i lampioni della litoranea: bastava il brillio di qualche barca.”[2]

Disseminati ad arte, gli indizi, ci conducono, leggeri e curiosi, al turning-point: il punto di svolta che segna l’inizio del cambiamento. Per Marta, la svolta è rappresentata dalla notte d’amore con Lorenzo; per il mistico, Sabino, sarà la morte della madre a determinare il mutamento; per Carlo, il ragazzo disabile, è, invece, un primo sfortunato approccio.

Attraverso Carlo, l’autore tocca il tema della disabilità tratteggiando, con sensibilità e garbata ironia, la psicologia di un adolescente che si ritrova a fronteggiare i cambiamenti di quell’età di mezzo stretta tra desiderio e limite. Intensa la scena con la madre, divisa tra amore e senso di colpa.

Come, spesso, accade nella vita, anche nel romanzo, colpa e senso di colpa si sciolgono l’una nell’altro come sale in acqua per non distinguersi più. Così la madre che si sente in colpa per la condizione del figlio Carlo, intorpidisce il dialogo col silenzio.

Ma il tema della disabilità, affrontato con l’anima a fior di pelle, è, nell’opera di Martino Sgobba, un fil rouge che parte da lontano; già presente in “il nano”, racconto della silloge “Destini” (2015), attraversa il bel romanzo “La stanza dei racconti” (2018) fino a lambire la nostra collina dei treni.

Veniamo alla scrittura: è un po’ come un sole obliquo all’orizzonte di un paesaggio norvegese…Sì, perché la cifra stilistica di Martino sta tutta in quella malinconia che, pagina dopo pagina, si fa poesia senza prendere, però, la forma del verso, ma questo poco importa! Scava nei volti e nelle apparenze, Martino, percependone le incertezze, le fragilità; si sofferma sullo sguardo truccato di una ragazzina rinvenendone nel fondo una pagliuzza di verità.

E carezza i paesaggi, lenti, al passar dei treni sulla collina: “quella volta celeste rovesciata nascondeva macchie di arbusti, anarchici lecci, che presidiavano l’ultima terra pietrosa, plotoni di mandorli e, alla fine del declivio, battaglioni di ulivi, le cui avanguardie schierate a ridosso del mare, opponevano le robuste e intricate deformità dei tronchi agli assalti, gonfi di salsedine, del vento.” (p. 15)

Quella campanella natalizia, poi, a tintinnar puntuale lungo i viali ultimi del romanzo, malinconica, sì, ma anche minacciosa! “Il Natale non lascia scampo, splende ovunque, ti segue in ogni via, entra con te in ogni negozio, ti piantona mentre lavori, invade il foglio del tuo calendario, avviene, avvolge, ti trascina nella sua corrente, o, come spesso era accaduto a Marta, può strisciarti ai lati, forse appena sfiorarti, ma sempre ti colpisce al cuore.” (p. 181)

E con gli occhi pieni di vento, riusciamo a gustarci la scena in cui Paolo e Lorenzo, tra ironia e creatività, si lanciano, sfrenati, nel “gioco dei destini”, sollevando i lembi del sorriso, immancabile.

Il romanzo del cambiamento, “La collina dei treni”, del passaggio, della crescita attraverso l’autenticità della relazione; sposta la prospettiva e s’incammina saggiamente dal sé all’altro, non soltanto perché, in tal modo, s’allentano le stringhe della solitudine e delle più granitiche tristezze, ma perché tale è la via, sicura, dell’amore, l’unica possibile. E chiudo con due righe che ho nel cuore fin da quando le ho lette e carezzate con lo sguardo: “Capita che la tristezza per gli altri riesca a sopraffare quella che cammina con le nostre gambe”.

Giulia Sonnante


Nota bio-bibliografica

Nato a Monopoli (BA) nel 1957, Martino Sgobba risiede a Bari. Nel 1980 si è laureato in Filosofia. Dal 1981 al 1984, ha insegnato Materie Letterarie nelle scuole della provincia di Belluno. Dal 1985 al 2002, ha insegnato Storia e Filosofia in provincia di Bari. Dal 2003 al 2019 è stato dirigente scolastico, negli ultimi nove anni presso il Polo Liceale di Putignano. La sua prima esperienza di scrittura è stata quella filosofica e si è concretizzata nella pubblicazione di saggi su diversi filosofi, fra cui Schelling, Hegel, Husserl, Marx, Heidegger. Chiusa l’esperienza filosofica, ha cominciato a praticare la scrittura narrativa. Dal 2010 ha pubblicato quattro raccolte di racconti e tre romanzi.

Pubblicazioni di narrativa:

LE PAROLE RESTANO, GIOVANE HOLDEN EDIZIONI, Viareggio 2010 e 2013 sec. ed.  (raccolta di racconti);

IL MARE È SOLTANTO ACQUA, GIOVANE HOLDEN EDIZIONI, Viareggio 2011 (raccolta di racconti);

UN LICEO DA SUICIDIO, ROBIN EDIZIONI, Roma 2013 (romanzo);

DESTINI, ROBIN EDIZIONI, Roma 2015 (raccolta di racconti).

LA STANZA DEI RACCONTI, GIOVANE HOLDEN EDIZIONI, Viareggio, 2018 – (romanzo);

GLI ULTIMI SARANNO I PRIMI, Dialoghi Edizioni, Viterbo 2020

LA COLLINA DEI TRENI, GIOVANE HOLDEN EDIZIONI, Viareggio, 2023 (romanzo)

Pubblicazioni più rilevanti di filosofia:

  1. Le misure dell’uomo. Studi di filosofia, Lacaita Editore, Manduria – Bari – Roma, 1989, pp. 173;
  • Sul problema teologico in Heidegger, in AA. VV., La cosa stessa. Seminari fenomenologici, a cura di Giuseppe Semerari, Dedalo, Bari 1995, pp. 111-41;
  • La didattica della filosofia, in <<Paradigmi>>, n. 28, 1992, pp. 75-93; poi inserito in Calcaterra R. M., L’insegnamento della filosofia oggi. Prospettive teoriche e questioni didattiche, Schena Editore, Fasano 1994;
  • La neoscolastica e il problema della storia della filosofia in Francesco Olgiati, in AA. VV., Pensiero e narrazioni. Modelli di storiografia filosofica, a cura di Giuseppe Semerari, Dedalo, Bari 1995, pp. 177-201;
  • L’autocostituzione dell’io trascendentale in Husserl, in <<Annali della Facoltà di Lettere e Filosofia>> dell’Università degli Studi di Bari, 1981, pp.287-316;
  • Alienazione e liberazione nel “Discorso sull’economia politica” di C. Napoleoni, in <<Paradigmi>>, n. 11, 1986, pp. 383-97;
  • Libertà e impotenza della ragione in Schelling, in <<Paradigmi>>, n. 15, 1987, pp. 509-32;
  • La fondazione debole, in <<Paradigmi>>, n. 19, 1989, pp. 75-93;

[1] A. Chedid: Je t’aime, hostile oiseau   – T’amo, ostile alato – [Non di morte moriamo / Ma del ridurre il giorno in mille frantumi / Dell’essere preda d’uno solo dei nostri volti / Del prendere le nostre case per il luogo] in G. Dotoli, Poésie Mediterraneenne D’Expression Française, – Comunità delle Università Mediterranee – Schena / Nizet, Bari, 1991 –  Trad. di G. Sonnante

[2] M. Sgobba, La collina dei treni, Giovane Holden Edizioni, Viareggio, 2023. P. 14.

CHIUDIAMO IL CERCHIO

Sabrina Linsalata, Chiudiamo il cerchio, Funtasy Editrice, (Monterotondo, RM) 2022

                      “Ringrazio Paola per aver avuto il coraggio di fidarsi di me

                                          e avermi accolto come sua madre,

                        per aver creduto che insieme saremmo potute rinascere

                                   illuminando il passato con colori pastello.

                                 Per avermi regalato emozioni autentiche…”

                                                     Sabrina Linsalata

“Chiudiamo il cerchio “, di Sabrina Linsalata, lascia scorrere dalle parole accurate, che sgorgano come acqua sorgiva, il delicato tema dell’adozione. “Sembra il copione di un film, ma io vi assicuro che questa vita piena di imprevisti, di cadute, di risalite, di sorprese, l’ho vissuta davvero. E voglio continuare a viverla intensamente, Avvolta dal tuo vellutato e caldo amore, fino al tuo ultimo respiro, come tu mi hai sempre promesso. Spero di averne immagazzinato tanto nel mio cuore e di saperlo regalare al mondo, fino al mio ultimo respiro.”

Così si determina nel suo libro, Sabrina Linsalata attraverso le parole di Paola, sua figlia.

Per questo è consequenziale considerare

“Chiudiamo il cerchio” come una sorta di diario, che dipana, tra sofferenze e preziosità, il racconto di una famiglia, caparbiamente voluta dall’Autrice. Il libro si presenta come una sorta di scenario complesso di vita vissuta, in cui ogni genitore adottivo ed adottante può ritrovare il proprio angolo di realtà. È come se Sabrina Linsalata, partendo dalla ricostruzione di un album di fotografie, avesse immortalato, in una serie di frame, la voglia, il desiderio, le paure, i dinieghi, il sentirsi “diversi”: spesso caratteristiche che centrifugano una delle tante coppie che, biologicamente, incontrano difficoltà a diventare genitori. Solo in seguito ad un lungo e sofferto percorso/ processo di crescita, l’Autrice diviene consapevole di quella che è la chiave di lettura non solo di una qualsiasi adozione, ma di una qualsiasi relazione affettiva e/o di attaccamento: il “prendersi cura “, inteso nel suo senso più vero e più profondo. Quello del “prendersi cura “è, infatti, è il leitmotiv del libro e trova la sua ragion d’essere, un vero e proprio stile di vita, e fonda le basi della costruzione di una nuova esistenza sul rispetto di sé e dell’altro, sulla fiducia reciprocamente riconosciuta, sulla capacità di accogliere e di sentirsi accolti, sul sacrificio di sé, che si è disposti a mettere in gioco per la costruzione di una relazione autentica, che nasce, sempre, da una scelta, spesso dolorosa.

In fondo, azzardando una creativa ricostruzione etimologica della parola adozione ci troviamo di fronte a questi due termini, legati a filo doppio tra loro. Abbiamo proprio… Ad-ozione: AD, nel senso di “in direzione” e ozione, in linea con il trovarsi in corrispondenza di un’opzione, una scelta. Quindi, l’Adozione è proprio un “Modus Vivendi”, in direzione di una scelta, che è, sostanzialmente, quella di una vita che si apre ad un voler essere “accuditori speciali”, facilitatori di vite, genitori di elezione.

Il prendersi cura è un atto creativo, è un gesto che modifica l’esistente, generando bellezza. È un atto rivoluzionario che modifica lo scorrere grigio delle cose con i colori dell’attenzione, dell’ascolto, dell’amore. È, come l’arte, unico, irripetibile, inciso nella storia e nello spazio, e, come l’arte, è un bisogno pienamente umano.

L’Autrice ci fa riflettere sul fatto che siamo esseri fallibili e per questo meravigliosamente preziosi, come gli oggetti più fragili e perfetti. Siamo, inesorabilmente, fragili. Tutti.

Chiunque abbia fatto un trasloco o ricevuto per posta un pacco contenente degli oggetti di vetro o di cristallo o di porcellana avrà visto scritto sulla scatola “Fragile”.

Accanto all’etichetta fragile, però, è apposta un’altra etichetta “maneggiare con cura”. È così che comincio a pensare a quanto dolore provochiamo nell’altro quando non cogliamo il senso delle sue ferite. E spesso sono le ferite altrui, il luogo in cui nasce la speranza, che persone, ugualmente fragili, possono sollevarsi a vicenda. Dice Battiato ne ”La cura”: “Ti solleverò dai dolori e dai tuoi sbalzi d’umore, dalle ossessioni delle tue manie.”

Ma per sollevare l’altro, devo, innanzitutto, farmi vicina, diventare a lui/lei, prossimo. Devo mettermi a fianco al cuore dell’altro.

“la maternità come la paternità è una semplice e genuina necessità di amare, un forte desiderio di accompagnare la creatura che entra a far parte della tua vita, lungo un percorso il meno accidentato possibile, insegnando a conoscere la segnaletica e le scorciatoie per evitare il più possibile gli ostacoli.” Ci suggerisce l’Autrice.

Per sollevare, devo necessariamente prima chinarmi, cambiando, così, prospettiva e livello, a volte inginocchiandomi, per potermi risollevare insieme a chi mi ha chiesto di prendermi cura della sua persona. È la manovella che ci permetterà di rialzarci sarà la speranza. Che è secondogenita dell’Amore.

“L’adozione implica da ambo le parti un’intuizione imprescindibile di un dato di fatto che possiede un   prima, un adesso e un dopo.

Situazione pregressa: grande carico di dolore.

Stato di bisogno: necessità di offrire amore.

Obiettivo da perseguire: salvezza reciproca.”

Sabrina e Licio si sono aperti all’altro, ai loro figli, le creature speciali a loro affidate, con la propria verità, svestendo i paradigmi miopi del ruolo genitoriale a loro affidato.

È proprio questo il percorso che Sabrina, Licio, Paola e Wendy hanno fatto per chiudere il cerchio ed entrare nella spirale della Vita.

Giusy Carminucci

L’assioma del vuoto di Gianpiero Berardi: il Nulla si fa Poesia

Gianpiero Berardi, L’assioma del Vuoto (Cosmo – agonia / Noi Due) I Quaderni del Bardo, Lecce, 2020 – Prefazione di Pasquale Vitagliano

Una sera ch’era già sceso il buio sulla provinciale e le luci, sugli usci, indicavano la strada, guardai, in copertina, quella goccia sospesa nel vuoto; pensai subito che sarebbe stato difficile leggere le poesie di Gianpiero Berardi, per me che ho la fobia del vuoto. Piegai le dita per afferrare la goccia ma quella mi sfuggì lasciando, ineluttabile, il vuoto.

Ed è il vuoto il punto focale intorno al quale ruota l’intera raccolta: il Poeta non solo non lo teme, ma lo ricerca ed in esso sprofonda per risalire al Principio dell’Universo nel viaggio verso l’antimateria fino all’attimo prima del Big Bang, fino all’attimo prima della Poesia “Uno stagno verdastro / ha allagato il mio petto / (…) Ho visto aprirmisi fori / partizioni / voragini / lutti / sepolture di popoli interi / crollare vantati costrutti / colare miracolato / il sangue coagulato”1

È imploso il paesaggio interiore lasciando il poeta quasi impotente di fronte alla saga degli ultimi, degli emarginati, degli sfortunati a nascere. “Io sussisto come arreso / ed assisto come arredo / alla saga degli esclusi / degli sfortunati a nascere / alla storia della patria / ipotetica del margine”2. È come se il colpo inferto in pieno petto, pur impedendogli di muoversi, avesse consentito di vedere l’invisibile, di allungare sulle persone, sulle cose, un rivelante sguardo.

S’aprono così meravigliose panoramiche che dicono del nostro vivere vacuo e superficiale: “Così andiamo afferrando / senza afferire a nulla / penetriamo il mondo / perpetrando lo scempio”3 e ancora: “E pensiamo di scivolare sulle cose / di farci senza prima disfarci”4. Ma sono le onde infrante che ci insegnano a vivere: “Corro in auto sulla statale e vedo / venusiane spume d’onda infrante / che s’offrono  e soffrono e s’attristano”5. Qui uno straordinario gioco di parole rivela il Senso che il poeta va cercando nel vuoto: le onde infrante si fanno avanti così, autentiche e umili, nella sofferenza.

E avanzando lenti, accogliamo la lirica “Scegli la parola” che, per affinità di senso, si getta in quelle venusiane spume d’onda illuminando ancor più l’intera raccolta perché:

Non morire del tutto

più che un verso antico

è l’innato dell’anima6

Qui il poeta intende privarsi del tutto per raggiungere il nulla ed ecco che gli ossimori, sfrenati, si rincorrono, sgomitano, urtano l’uno contro l’altro fino a che il Nulla vince su Tutto.

C’è ancora una lirica: “Deserto invoca senso” in cui il Tutto, da cui siamo soggiogati nella corsa spasmodica al possesso: “L’idea che esista un Tutto / rimane imprigionata / nei riti dissacranti che officia il mercato degli istanti”7, si misura col Senso del nostro esistere ed alla sera soffia solo il vento sulle cose e gli affanni.

E alla sera soffia solo il vento

pulviscoli di sabbia venuti piovendo

e nuove nuvole di deserto

riporta a sfaldarsi

nelle strade disertate.8

Questo vento sabbioso pare rafforzare quel vento lasco che percorre svogliato la lirica “Dopo la notizia” di Giorgio Caproni a cui il Berardi s’ispira in “Il cane di Nessuno”. E proprio sul cane si concentra la sua attenzione: “il cane di nessuno, che al vespro / sgusciava anche lui in chiesa /  in questua d’un padrone”9; “Quest’animale al trotto storto / che va ramingo intorno e speranzoso / di mettere il suo muso dietro a un capo / sempre alla ricerca di qualcuno / perché non ha padroni / è di nessuno.”10, scrive il Berardi.

Dunque, sembra essere l’abbandono, la tematica centrale della raccolta e il vuoto la sua naturale conseguenza. Ci chiediamo, allora, quale ruolo rivesta il trascendente per il poeta che sente il vuoto dentro di sé? Quel vuoto che dal didentro raggiunge l’esterno proiettandosi sulle cose e, attraverso la pelle come “pronai di templi11, torna interno nutrendosi di sé stesso?

Per Gianpiero Berardi tale interrogativo si fa ricerca; in “Raggelato sulla via di Damasco”, egli esprime il suo pensiero: “Pur non negandolo io / non ci credo”12accentandolo però di una vivace ironia che, a partire dal titolo, pervade l’intera lirica: “Invece Lui ci ha proprio abbandonato / Starà puntando verso qualcos’altro. / Ormai s’è convinto che / ha battezzato l’angolo sbagliato / dell’Universo”13. E torna l’abbandono come percorrendo un’antica mulattiera, ma prima di perdere completamente le tracce di Dio, il poeta schiude una perla:

Se un tempo Dio si fece Cristo

per mostrarci che ogni uomo

può essere salvato, penso ora

si sia fatto Nulla a ricordarci

che il vuoto non va colmato.14

Illuminato dalla luce della Poesia, Gianpiero Berardi ci suggerisce che il vuoto non va colmato, che occorre sottrarre, anziché sommare, e considera quanto possa essere grande la magia di un amore non corrisposto che cade nel vuoto o, mi permetto io, nel silenzio “come capita al petalo / quando se ne cade / in braccio al silenzio”15. Perché quel vuoto, scrive il Berardi, si rischiara di una luce intensissima, la Speranza: “Pensa a quanto son densi / i singoli gesti dei compresi / nell’amore incompreso / nell’amplesso al vuoto / sguardi soli disperati / ai soli sguardi sperati.(…)Pensa se al solo vederti / mi veda in te perduto”16

Raccolgo le pagine. La goccia è ancora lì, sospesa. Ma adesso il vuoto fa un po’ meno paura, adesso che è diventato Poesia.

Giulia Sonnante


Gianpiero Berardi è nato ad Ivrea nel 1975 e risiede a Terlizzi. Esordisce nel 2020 pubblicando la silloge “L’assioma del vuoto” per I quaderni del Bardo. Del 2023 è la seconda raccolta intitolata “Desistenza poetica” per Terre d’ulivi, alla cui rivista “Menabò on line” collabora come redattore. 


  1. La patria ipotetica del margine in G. Berardi, L’assioma del vuoto (Cosmo – agonia / Noi Due) I Quaderni del bardo, Lecce, 2020 p. 32.
  2. Ivi pag. 33
  3. Spume d’Onda infrante in Berardi op.  cit. p. 71
  4. Ibid. pg. 72
  5. Ibid. pg72
  6. Scegli la parola” in Berardi, opere cit. pag. 61
  7. Deserto invoca senso in Berardi, op. cit. pag. 69
  8. Ibid. p. 69
  9. G. Caproni, Dopo la notizia, da Il muro della Terra, Garzanti, 1975
  10. Il cane di nessuno in Berardi, op. cit. p. 49
  11. Berardi, Deserto invoca senso, in op. cit. pag. 69
  12. Raggelato sulla via di Damasco, Berardi in op. cit. pag. 56
  13. Ibid. pag. 56
  14. Omokenosousia (della stessa sostanza del vuoto) Berardi, in op. cit. p. 26
  15. Berardi, Sembianze di fiore, in op. cit. p. 34
  16. Berardi, Se mi innamorassi, in op. cit. pag. 91

Intime distopie: distopie dalla parte di lei…

Fernanda Garcia Lao, Donne da macello, Musicaos, Lecce, 2020
 

“È stata diffusa la notizia del Progetto… La Giunta si rinnova, ha idee di avanguardia. Le donne che salveranno l’esercito… le migliori femmine, vaccinate contro ogni male, si preparano per compiere la rivoluzione farmaceutica. Carne fresca… Alla notizia, diverse ragazze scendono in piazza… Si offrono davanti al palazzo del Governo. Siamo state escluse, urlano. Ci sono favoritismi…”1

La distopia si muove nei territori opposti a quelli dell’utopia: entrambe mostrano punto di vista rispetto al luogo e rispetto al legame con l’altro. Entrambe, però, risolvono diversamente tempi della connessione e luoghi della rappresentazione. È l’esito delle narrazioni intorno al luogo e delle relazioni messe in scena ciò che fa la differenza. Entrambe le dimensioni sono sempre pronte a deflagrare l’una nell’altra. Nessuna delle due è posizione definitiva. Entrambe sono il massimo della provvisorietà temporale e narrativa pur presentandosi, sia nell’utopia che nella distopia, come dimensioni rigidamente immutabili nella loro costruzione ed elaborazione.

Inizio la lettura. Mi colpisce il niente denso del paesaggio di Donne da macello. Ne resto sconcertata: è un testo che mi obbliga a ri-posizionarmi continuamente nel dentro degli eventi narrati. Eppure sento la sfida del ri-posizionamento nel fluire dei mutamenti narrativi.

Come ti sentiresti se invece di vivere nel tuo mondo, nella tua realtà fossi dentro alla macchina di un potere che decide senza interpellarti per e su nulla? Come ti sentiresti se nella tua storia ci fosse il recente di un governo golpista, di torture, di sparizioni? Ti occorrerebbe tempo per elaborare ciò? Come sarebbe il tuo sguardo sulla realtà? Ti sentiresti o non ti sentiresti senza nome? Senza corpo? Senza luogo?

Iperrealismo iniziale. La narrazione apre il proprio sipario sulla macelleria in cui il protagonista ha trascorso infanzia e adolescenza. Immagini in bilico tra tele di Francis Bacon e interni da squarci di cucina nella pittura fiamminga. La ripetizione ossessiva che lì aveva a che fare con la sottolineatura della ricchezza accumulata, qui ha a che fare con il vuoto nullificante dell’ossessione. La notte è il primo attacco di tempo.  


lotto n. 68 artista: FRANCIS BACON (1909-1992)
Titolo: Second Version of Painting 1946 (1971)

Il corpo si presenta subito irretito tra ripetizione e indifferenza. La scena cambia. La narrazione procede a salti. Il cambio è repentino quasi che l’ambientazione nella macelleria paterna fosse solo uno sprazzo randagio di memoria. La dimensione della narrazione diviene narrazione di dentro. La città di Rawson è apocalittica, custodisce corpi tranciati e lucide descrizioni di come le donne vengono sempre più immesse e connesse al progetto della Giunta al governo. Unici testimoni un uomo e una bambina che irrompono intorno e dentro ad un autobus, per due volte, due trasparenze che vanno senza meta né riferimento.

Selezione, analisi, test, esame, vaccino. Tutto incalzante eppure collocato in un gelido fermo immagine. 

Il protagonista inizia, man mano che le pagine procedono, a dirsi nelle sue forme: Jacinto Cifuentes, miope, burocrate, beve gin, battito cardiaco accelerato, imprintato dall’essere stato per anni una sorta di arrotino, vegetariano nel suo odio per ciò che è carne, padre macellaio, madre abbandonica che non lo vede né lo riconosce, semplicemente lo by-passa nella sua fisicità e nel suo essere scavandogli dentro un dolore che lo anestetizza. Jacqueline il suo gatto. Jacinto agisce e si osserva come sdoppiato. Agisce e si annulla come inesistente. Naviga, al di sopra di tutto, il suo occhio svezzato a tagli, a carne, a odore ferroso di plasma, a vuoto di presenze.

La stanza in cui vive è allucinata da perdite d’acqua, infiltrazioni e ticchettii. Di Jacqueline che vive con lui, una traccia appena. Un sogno: il sogno della donna perfetta. In seguito la sua stanza sarà una cella frigorifero rimessa e trasformata per lui. Uteri freddi, percolanti.

Il vaccino: millimetrica descrizione del liquido che entra in vena. Maniacale descrizione di cosa sia il sentirsi “invasi” da madre onnivora, da sguardo di padre giudicante. Jacinto cerca di sfuggire ma il liquido lo raggiunge, allagandolo.  

Cinque donne escono vittoriose dalla trafila del protocollo, trasformate in numeri senza nomi, il loro compito è quello di superarsi, ancora: partorire la perfezione!

Tredici, una delle donne “vaccinate”, vuole partorire il suo Frankenstein: tanto per onorare la Giunta con uno sfregio che mostra l’impotenza del suo poter affermare la criticità al Progetto. Tredici non può manifestare dissenso, Tredici può dire dissenso solo partorendo un mostriciattolo. Tredici snoda intorno alla “prostituzione patriottica” il proprio essere corpo, respiro, intento. La parte centrale del romanzo si anima di trama e prende corpo la non aderenza al progetto sottilmente tessuta ma non dichiarata. La realtà è ferrea, non ammette critiche.  Afferma di sé, Jacinto:

“Quando apro gli occhi sembro un altro. Un idiota in esilio da se stesso.”2

Il progetto vendicativo nei confronti della madre si dispiega in tutta la sua potenza al momento della partenza… “La mia assenza (per te, madre) non avrà limiti.”3

Io cerco, intanto, nella trama che evolve il motore che la anima.

Il dove della storia, in questo punto zero della narrazione, ha dietro –mai nominata- lo zero del riconoscimento dell’origine e la disperazione per l’essere nel “senza origine”. Ad esclusione di Jacinto, nessuno viene da dove, il non tempo diviene tempo della Storia, degli eventi. Sono personaggi che si muovono e animano luoghi a partire dal proprio non avere origine. L’origine, guardata dal punto di vista del simbolico che si perde nel tempo passato, è anche origine-nascita-definizione di uno Stato. Patria, in alcune lingue, Matrìa. Se quello Stato ti avesse lasciato al disordine della sua stessa inesistenza? Cosa genera quel disordine?

Quale il tema dell’Origine di una scrittrice in America Latina? Nel fondo di ogni sostrato cosa farne di un’Europa, terra madre, che ha macellato cultura del/nel continente americano? Dal punto di vista dei periodi storici, questa è storia recente, quanto continua a lavorare questa Storia se pur in aspetti apparentemente rimossi? Letteratura internazionale, dunque, come necessità di inforcare occhiali che ci indichino dinamiche di fondazione di una scrittura letteraria. Un grande cambiamento ha a che fare, sempre, con il ripatteggiamento del tema della maternità ossia dell’elaborazione dell’origine. Di ciò il testo ci dice.

“Le gravidanze sono modi di narrare il tempo.”4

Per traversie varie, intanto, il Progetto spiaggia, si arena.

Emerge, come fuori dal plancton primordiale, Jacinto. Finalmente umano. Ha attraversato tutto il suo essere alla ricerca di sé, ha affrontato gli sbranamenti materni, le unghiate del freddo di chi conosce il folle perdersi nel nulla di sé stesso. In questa narrazione è presente tutto il tema della maternità, del corpo femminile: luogo della prima alterità e della prima radice di umanizzazione. Tra le righe è narrato tutto l’odio covato nel progetto vendicativo con cui inseminare la Vita.  Jacinto ha navigato tra odori pungenti, visioni scabre, architetture misere e caleidoscopiche come paesaggi di Escher. Si è fatto largo tra i “pezzi”, lacerti di carne senza interezza di corpo. Ha attraversato le proprie scissioni con movimenti da animale ferito, movimenti nascosti dietro una sessualità cruda, felina.  

Ciò che resta in sottofondo in Donne da macello, è – dunque- la Storia, sia la storia legata agli anni del regime, delle sparizioni, del valore zero dato ai corpi dei dissidenti, sia la storia che ha dato la stura alla nascita degli Stati nel continente americano.   

Fernanda Garcia Lao si è assunta parola che intaglia i movimenti della distruttività e dell’auto distruttività. Lo ha fatto con maestria e, soprattutto, lo ha fatto ricordandoci il pertugio d’uscita.

“Questo progetto fallito mi sta trasformando in meglio. Il cinismo e l’ipocrisia della Giunta sembrano racconti della preistoria. Lontano dalla vita pubblica mi sento imprevedibile. Sembro quasi una persona”5 …conclude Jacinto riportandoci fuori da una distopia che prima ancora di essere nerbo di luogo e situazioni è desiderio di rinascita dopo aver attraversato il nero di dentro dell’esistenza.

Anna Rita Merico


Fernanda García Lao (Mendoza, Argentina, 1966), vissuta in Spagna tra tra il 1976 è il 1993. Scrittrice, drammaturga e poeta. Ha studiato recitazione, drammaturgia, musica, danza e giornalismo, in Spagna e in Argentina. Da notare i suoi romanzi “Muerta de hambre” (Primo Premio del Fondo Nacional de las Artes, 2004), “La perfecta otra cosa”, (terzo premio Cortázar), “Vagabundas” (finalista Premio Sur de Novela), “Fuera de la jaula” e “Donne da macello” (Nación vacuna, 2017). Ha pubblicato due libri di racconti, “Cómo usar un cuchillo” e “El tormento más puro”, ben accolti dalla critica argentina. Come poeta ha pubblicato “Carnívora y Dolorosa”, per le edizioni della Universidad de La Plata. Insieme a Guillermo Saccomanno ha pubblicato il romanzo erotico-epistolare “Amor invertido” e la raccolta di narrazioni brevi “Los que vienen de la noche”. È stata invitata a Fiere internazionali di Letteratura in diversi Paesi dell’America latina e d’Europa. Suoi testi sono stati tradotti in francese, portoghese, inglese, svedese e greco per riviste digitali e cartacee. I suoi libri sono pubblicati in Francia, Spagna, Messico, Perú, Bolivia, Costa Rica e altrove. Alla Fiera Internazionale del Libro di Guadalajara (Messico) del 2011 è stata celebrata come “uno dei segreti meglio custoditi della letteratura latinoamericana”.


  1. Fernanda Garcia Lao, Donne da macello, Musicaos ed. 2020, pg. 56
  2. Ivi pg.92
  3. Ivi pg. 109
  4. Ivi pg. 145
  5. Ivi pg 127

CUANTO CUESTA VIVIR di MIRIAM BRUNI: LA POESIA DELLA SORELLANZA

Autori: Miriam Bruni – (per la poesia)
Nicola Claudio Palermo (per le immagini)
copertina: opera di Lia Fantoni, veste grafica di
Maria Grazia Vai
Youcanprint, Lecce, 2022

Ma noi sprofondiamo

ben più in alto del suono

che fa strada ai pipistrelli1

Leggendo i versi di Miriam Bruni, contenuti nella silloge Cuanto cuesta vivirQuanto costa vivere -,  ho la sensazione di trovarmi a largo di Linosa, di nuotare lentamente come piccola tartaruga verso Cala Pezzolana di Ponente, sì, verso quella spiaggia nera, pelagica, fatta di ceneri e lapilli che non respinge, ma, inesorabilmente, attrae. E la poetessa, anch’ella è in alto mare a fronteggiare i colpi d’una malattia che stanca l’anima e il corpo: Così stanche / le mie braccia / – di tenere / fuori d’acqua /queste fiaccole / di senso / mentre affogo /senza traccia (!)”2

È racconto intimo, scandaglio di emozioni e stati d’animo quando scrive: “sbando spesso e mi ritrovo / soffocata, l’occhio rosso, e privata / di ogni alito di vento”3 oppure “Vorrei non più temere / lo svuotarmi di clessidra”4 , che si fa subito universale: “Sono per qualcuno, sì, sono per qualcuno / questi capelli morbidi / e questa mano. / E questo sguardo / che fluisce ancora / fino alla compassione”5

Ma, allo stesso tempo, confessa: “Anch’io però / come il profeta / che chiese a Dio di poter morire / perché stanco delle troppe stonature, / anch’io sono gravata / di fatiche, di giorni scuri.”6Sente forte, la poetessa, la responsabilità del dire prima e per gli altri mantenendo salda la propria individualità:

“Io credo che mantenga la propria identità proprio chi evolve, chi continua a camminare, a interessarsi, a confrontarsi. Chi avverte come una responsabilità il fatto di essere stato chiamato alla vita e ad una vita unica, irripetibile.”7

Una poesia personale, dunque, che, scavando nel profondo, non teme di esporsi in versi scabri ed essenziali, versi che ricercano nella parola poetica la massima potenza espressiva. La poesia della Bruni è, dunque, una poesia verticale, “Silenziosa / avanzatissima trivella” che sola può “raggiungere il cuore / irritato / infuocato / delle genti e della terra”8 per consolarlo e donare dolcezza. “Tu che metti insieme questa cronica / e truce stanchezza, / con carrelli / d’incantevole dolcezza”9.

Mi sovviene, a questo proposito, una lettera di Antonia Pozzi (1912 – 1938) in cui l’autrice evidenzia la capacità della poesia di carezzare il dolore, asciugare le lacrime e sollevarci dai pesi.

La poesia ha questo compito sublime di prendere tutto il dolore che ci spumeggia e ci romba nell’anima e di placarlo, di trasfigurarlo nella suprema calma dell’arte, così come sfociano i fiumi nella vastità celeste del mare.10

Ma il dolore trova anche un altro sbocco, un’altra uscita, se così possiamo dire, per perdersi nella bellezza della natura; l’autrice volge lo sguardo al Signore perché la sollevi dalla sofferenza: “è a Te che io chiedo protezione / profonda, l’incursione del Bene /nelle mie piazze, e la pace tua dolce / sulle mie pene.”11

Ho così tanta stanchezza,

Signore, che esco a cercare

le braccia del sole,

sapendo – o sperando –

che è Tuo il suo calore.12

Gli elementi naturali riescono, dunque, ad allentare quelle terribili “funi di morte”13che furiosamente la stringono; così ella, che sa snidare il vento attendendone l’inchino, osserva una foglia tramutata in farfalla semplicemente affacciandosi al balcone. Ma i versi possono confondersi nel cielo ultimo della Poesia e così, sulla costa frastagliata dei ricordi, s’erge, ancora una volta, Antonia Pozzi che, tra le guglie delle sue montagne azzurre e lungo i suoi sentieri, tra i giunchi, ascolta il vento:

Corre incontro al sereno il folle vento

recando nelle aeree braccia

una tremante attesa di gemme.14

Ciò che accomuna la Bruni alla Pozzi è l’osservazione della natura che diviene subito rispecchiamento, immagine di sé. Così la Pozzi  “io fui sui monti / come un irto fiore – e guardavo le rocce, / gli alti scogli / per i mari del vento _15.

Malinconica è anche l’immagine della “ninfa boschiva” che la poetessa desidera presto ritrovare; così la Bruni: “Ma c’è chi ricorda / la ninfa boschiva che ero /che sono Se me lo / racconti di nuovo”16 e ancora: “ Una città io sono / Un cielo che scurisce / Una bandiera bianca / Un volo che nitrisce”17.

Ben conscia della fatica di vivere, la poetessa non s’abbandona, non cede e quelle onde alte, altissime, solca perché, scrive: “ho radici lungo il fiume della Vita. / E in quelle tasche d’acqua / immergo la mia lotta”18

Così allo scialbore di un istante in cui ella fatica a ricominciare “Il cielo / stamattina / è una miscela / di acqua e urina.  / La volontà di vivere / come una boa lontana.”19 , si oppone la Vita che non si lascia sabotare: “ma lei è più grande / sotto sotto infinita”20.

Se la Poesia è un volo, quando i versi s’avvolgono del suono straniero eppur materno di lingue romanze altre, francese e spagnola, amate dalla poetessa, quel volo non accenna ad atterrare. Perché questa poesia della sorellanza richiama alla vita su giacigli di morte, richiama genti straniere ma non estranee, altezze dagli abissi, grano dalla cenere, neve dalla notte.

Laissez moi

s’il vous plait

que j’écoute

le murmure des déserts

et des doutes

Laissez moi que je parle

et je goute

de la Vie et de la Mort

toutes émeutes21

Ed alla musicalità d’una lingua sorella che pettina il verso sciogliendo i nodi, si desta ancora e sempre Antonia che, sulla via del ritorno, cerca anime affini nella comunanza dei destini:

Sorelle, a voi non dispiace

ch’io segua anche stasera

la vostra via?

Così dolce è passare senza parole

per le buie strade del mondo22_

Qui, sebbene la poetessa raggiunga strati d’ angoscia profondissimi e cerchi la solitudine: “O lasciate lasciate che io sia / una cosa di nessuno / per queste vecchie strade / in cui la sera affonda”23, l’atto stesso dello scrivere prediligendo la parola poetica, di certo, la proietta verso l’altro. E nella poesia della Bruni come nella Pozzi, il bisogno di comunicare attingendo alla propria esperienza personale è elevato all’ennesima potenza:

(…)

Da questa terra rotta

Da tutti i miei confini

Io sfodero splendore

sui miei regni piccini24

Meravigliosa l’immagine che ho negli occhi mentre giungo al termine di questo straordinario viaggio nell’anima. Ritorna la poetessa sulla via delle fagiane avanzando tra spighe di grano: “Ci passi anche tu / sulla via delle fagiane / e levi una preghiera / alle nuvole lontane. / Ti aggrappi alle spighe / come fossero ringhiere: / hanno forza dorata / pur sottili e leggere.”25

E mancano pochissime miglia perché quella piccola tartaruga tocchi la spiaggia di Cala Pezzolana di Ponente; è vero, qualche volta, per paura, ha nascosto il capo nel suo spesso carapace, ma è giunta alla meta perché anche la lettura ti insegna il coraggio.

Giulia Sonnante

Fotografia di Miriam Bruni, maggio 2023

Miriam Bruni (1979) è nata e cresciuta a Bologna, ha due figli e ama raccogliersi frequentemente passeggiando e fotografando la Natura.

Ha frequentato il Liceo Linguistico Malpighi e la Facoltà di Lingue e Letterature straniere moderne, abilitandosi per l’insegnamento della Lingua Spagnola.

La passione e la pratica poetica la caratterizzano da sempre: scrivendo mette a fuoco le esperienze vissute, cercandone e restituendone l’essenza profonda e risonante. Tende alla massima concentrazione. Traduce poesie dallo spagnolo all’italiano e ha dato alle stampe otto libri: “Cristalli” Booksprint 2011,“Coniugata con la vita. Al torchio e in visione” Terra d’Ulivi 2014, “Credere nell’attesa” Terra d’Ulivi 2017, “Così” Ed. Poetry 2018, “Falesìa” Ed.Folli 2019, “Concentrati sul cromosoma celeste” Controluna 2022, “Cuanto cuesta vivir”, Youcanprint 2022, “Guardarlo ancora” Youcanprint 2022.

Negli ultimi anni si è adoperata come direttrice artistica dell’Officina Culturale di Livergnano (Pianoro, Bo) e del Jardìn de Palabras di Bazzano in Valsamoggia (Bo), organizzando incontri e presentazioni di libri e di mostre…

Attualmente collabora con la rivista web Millecolline e sta escogitando maniere multimediali per far conoscere non solo i suoi testi poetici e le sue traduzioni dallo spagnolo, ma anche i suoi scatti fotografici, la seconda sua passione creativa!


1.M. Bruni, M. C. Palermo, Cuanto Cuesta Vivir, Youcanprint, Lecce, 2022 p.11

2. Ibid. p. 14.

3. Ibid. p. 32

4. Ibid. p. 14

5. ibid. p. 29

6. Ibid. p. 29

7. Dalla intervista per RENONEWS del 20/04/2020 La Cultura (NON) si ferma in Appennino: Miriam Bruni.

8. Ibid. p. 10

9. Ibid. p. 22

10. A. Pozzi, Lettera a Tullio Gadenz (Milano, 11 gennaio 1933) in Ti scrivo dal mio vecchio tavolo… Lettere 1919-1938, a cura di O. Dino, G. Bernabò, Ancora Ed. Milano, 2014.

11. Ibid. p. 16

12. Ibid. p. 37

13.Ibid. p. 33

14. A. Pozzi, L’orma del vento in Poesie, Garzanti, Milano, 2021 p. 59

15. A. Pozzi, Nevai in Op. cit. p. 217

16. M. Bruni in Op.cit. p. 38.

17. M. Bruni, Ibid. p. 48

18. Ibid., p. 32

19. Ibid. p.21

20. Ibid. p. 21

21. Lasciate che io ascolti / se non vi spiace / il brusio dei deserti /e dei dubbi / Lasciate che io parli / e assapori /della Vita e della Morte / ogni sommossa / traduzione di Miriam Bruni in op. cit. p. 62.

22. A. Pozzi, Sorelle, a voi non dispiace… in op. cit. p. 52

23. A. Pozzi, Largo in op. cit. p. 48

24. M. Bruni in op. cit. p. 48.

25. M. Bruni, in Op. cit. 78.

Recensione di SOLO UN RAGGIO DI SOLE di Cinzia Cofano

C. Cofano, Solo un raggio di sole, Les Flaneurs, Bari, 2021

Si tratta di una vera e propria “carezza per il cuore” come la definisce la scrittrice Teresa Antonacci, che ne cura la prefazione. “Solo un raggio di sole “, edito da Le Flaneurs, è un agile romanzo, in cui Cinzia Cofano ci offre, su un tessuto di stelle, i sogni delle sue protagoniste, come accessorio indispensabile, legato da un filo conduttore che è la libertà. Dice l’Autrice nella nota introduttiva:” Ogni volta che osservo un cielo stellato, torno indietro con il pensiero di circa trent’anni, quando mio padre (…), osservando il cielo, intonava sempre un canto scout che noi bambini ascoltavamo in silenzio: Quante stelle… Quante stelle! Dimmi tu, la mia qual è? Non ambisco alla più bella, ma che sia vicina a Te.”

 “Solo un raggio di sole” è, senza dubbio, un romanzo di ricerca quotidiana delle piccole cose, con una grande apertura a temi di una profondità straordinaria come quelli dell’ascolto, dell’accoglienza, dell’autenticità, della sorellanza, dell’amicizia.

 Il componimento letterario della Cofano si colloca nel nostro tempo e ci offre un romanzo davvero contemporaneo, dove il ritmo temporale è un interludio critico, che permette all’autrice di mettersi nei panni del lettore medio e di alzare l’asticella verso un aulico proiettarsi di valori.

La narrazione parte da Milano, per poi, essere ambientata nella Puglia tra il 2011 e il 2018, nei meravigliosi contesti di Brindisi, Martina Franca, Torre Rinalda, Torre Canne. In questi spazi si dipanano i nuclei essenziali della fabula, attraverso brevi episodi che l’autrice inserisce in capitoli, rendendo così agile la lettura e la storia stessa.

Anche la qualità della scrittura, fluida, scorrevole, ricca di parlato, ma anche di alti riferimenti letterari, offre un ritmo gradevole al lettore. La struttura della storia stessa rende lo stile narrativo attento a quello che deve essere un romanzo di facile lettura, ma anche di profonda verità. La storia permette di fare domande, esternare riflessioni su come ci si sarebbe posti di fronte a determinati argomenti, che l’Autrice presenta come racconto di vita quotidiana, permeato di profondità filosofiche.  Come fa, ad esempio, quando entra nel nucleo tematico della violenza sulla donna o di un amore ritrovato. E pone, chi legge, di fronte al dilemma di come ci si sarebbe comportati di fronte a una determinata situazione. Questo, proprio perché, sia la caratterizzazione dei personaggi che lo snodarsi delle tipologie argomentative, che delineano e che caratterizzano la storia, sono pregni di significato e portano tutti ad un punto, in cui confluiscono il rispetto della libertà, il coraggio dei propri sentimenti, la resilienza e la speranza: elementi vitali che passano come fili a doppia tesa, attraverso la cruna dell’amicizia e dell’amore. Tutto questo, la scrittrice Cinzia Cofano lo fa con un’attenzione particolare a descrivere sia scenari psicologici che scenari relazionali di personaggi, che riflettono la quotidiana esistenza e che potrebbero avere il mio nome… il tuo… il suo…

Il profilo psicologico dei personaggi si delinea, strada facendo, nello svolgersi proprio di quelle ambientazioni che l’autrice ci prospetta, capitolo dopo capitolo, con amorevole delicatezza. E tutto questo avviene attraverso una lettura critica delle relazioni, che ne contraddistinguono l’esistenza.

Una profonda verità è sottesa in questa affermazione, che traspare in ogni capitolo: l’amore porta a coltivare le passioni, ma solo attraverso il dolore ci si eleva ad un cambiamento di vita.” Ci facciamo vittime senza pensare che a volte ciò che ci blocca è la mancanza di fiducia in noi stesse”. Come lascia dire l’Autrice ad una delle sue protagoniste. Il dolore, come consapevolezza di una rinascita, che riesce ad attraversare il mistero della vita stessa e che porta a scegliere quello che fa stare bene, sembra quasi un controsenso. In realtà, la vita passa attraverso il dolore e la resilienza nasce dal dolore stesso: è proprio dalla resilienza che, poi, si può arrivare ad illuminare, con un raggio di sole una nuova vita.

Lo comprende bene Silvia, quando decide di abbandonare, finalmente, la sua vita fatta di violenze con un uomo che non la stima.” Le sembrava di essere un’ospite inopportuna sulla terra come quelle persone che, come parassiti, stazionano in casa di qualcuno che le ospita senza far nulla per ricambiare. Completamente inutile. Non riusciva a prendersi cura neanche di se stessa. Aveva perso la sua identità … “. Silvia inizia a capirlo bene quando, grazie ad un dolore profondo, causato dalla perdita di una vita, riesce ad abbandonare e a denunciare una situazione che, stancamente, continuava a portare avanti con una relazione apparentemente legata a un sentimento, pressoché univoco.

Lo dice benissimo la nostra Cinzia Cofano con queste parole “ (…) una voglia continua di dare, a prescindere da ciò che si riceve, un desiderio costante di veder sorridere senza mai imprigionare “. È proprio questo il sentimento profondo, che non segue logiche e che Amira scopre a un certo punto, nella sua vita, credendo proprio di sognare. Certamente, quando Marco l’abbraccia per rassicurarla, riceve energia positiva, sente di ricevere vita. Amira, in quell’abbraccio ci stava bene, tanto che avrebbe voluto non sciogliersi mai da quella stretta “Con questo abbraccio mi hai lasciato l’infinito dentro al cuore”.

La sensazione che si avverte, e che rimane nell’anima del lettore, è ben espressa ed è scelta dall’Autrice per introdurre la figura emblematica e complessa di uno dei suoi personaggi: Silvia. Si affida a Majakovskij, per delineare la sagoma della protagonista di un amore “malato”, come, purtroppo, se ne incontrano nelle nostre realtà quotidiane.

Come una fune ho teso l’anima sul precipizio e vi ho fatto l’equilibrista, giocoliere di parole”.

Assaporando con gusto “Solo un raggio di sole”, ci si sente di liberarsi dalle catene, dopo aver trovato la luce nelle tenebre e aver creato un caos sublime, lungo il viaggio della vita e ci si chiede se noi ci ricordiamo di noi stessi e siamo pronti a tuffarci empaticamente, come un dardo di luce, in un sentimento o in un’emozione, tenendo presente che “l’amore non si spiega”, lo si vive.

Giusy Carminucci


Cinzia Cofano, laureata in filosofia a Bari e in Scienze Filosofiche a Lecce, ama leggere per viaggiare con la mente e scrive per passione. È insegnante presso l’istituto comprensivo Chiarelli di Martina Franca e presenta libri per passione nell’ambito della rubrica Librinstreaming dell’Associazione COMMUNICA, in collaborazione con suo marito Toni Vinci e con diverse associazioni culturali.