FIORELLA E IL PESCATORE di Alfredo Dell’Era

La canzone è bella ma la storia non è – diciamo così – particolarmente edificante.

Una giovane coppia, un’epoca e un luogo imprecisati: facciamo un borgo in Salento tre o quattro secoli fa, tanto le cose non cambiano.

Lui fa il pescatore, parte, starà via un bel pezzo. Parte e va in mare, quel mare che dà cibo e lavoro, ma può dare morte.

Lei prega il suo dio di proteggerlo, di farlo tornare.

E fin qui, niente di che.

Poi il tempo passa, lui ancora non fa rientro. La tipa è giovane e bella, forse è pure primavera; ma anche se primavera non è, la carne grida forte lo stesso.

Si fa avanti uno, le regala una rosa rossa. La passione fa il resto.

Anche fin qui, niente di che: una storia di corna, non la prima né l’ultima.

Il bello – il brutto – viene adesso.

La nostra Fiorella (chiamiamola così, visto che è Fiorella Mannoia a darle voce), Fiorella nostra ci prende gusto assai, al punto da invocare il suo dio di non farlo tornare più, il marito: «è troppo forte questa catena, io non la voglio spezzare».

Male, signora mia, male: non si augura la morte a un povero cristo che rischia la pelle per campare casa.

Ma il chewing-gum – si sa – dopo un po’ perde sapore, e senza pensarci troppo chi lo mastica lo sputa.

Così fa quello della rosa rossa con Fiorella, Fiorella la bella.

Male, giovanotto, male: mai usare gli altri come mezzi, diceva Kant che vanno considerati sempre e soltanto fini (o forse Kant non lo diceva ancora, forse questi fatti son avvenuti prima, chissà).

Intanto Fiorella nostra non s’è persa d’animo, né ha perso tempo.

Eccola qua che invoca di nuovo il suo dio:

– Senti, avrei cambiato idea…

– Ancora? Son tre volte!

– Ti giuro che è l’ultima.

– Sentiamo.

– Fammelo tornare mio marito, sano e salvo.

– Benedetta ragazza…

Piuttosto che niente, è meglio piuttosto, dicono a Milano.

Alfredo Dell’Era

SOLA A PRESIDIARE LA FORTEZZA

“Sola a presidiare la fortezza” è un epistolario di Flannery O’Connor, una scrittrice americana, nota soprattutto per i suoi racconti, prendo in prestito questo suo titolo per raccontarvi una storia che, come nei migliori racconti della O’Connor, nello svolgersi delle vicende quotidiane, c’è sempre sotto il cielo qualcosa che annuncia l’evolversi degli eventi ed un fatto scontato, come un temporale, in una notte d’inverno, si fa premonitore d’un accadimento che cambierà per sempre quella narrazione. Il racconto americano ha un fascino originale perché ti tira con forza nella storia, anche se sembra tanto lontana da noi.

Cos’è un racconto? “…il racconto è un ‘azione drammatica compiuta, e in quelli più riusciti i personaggi si svelano attraverso l’azione e l’azione è, a sua volta, condotta mediante i personaggi: il significato che se ne trae deriva dall’esperienza nel suo complesso.” 

La storia che sto per raccontarvi risale a molti anni fa, era la vigilia dell’Immacolata del ’52 in una casa del centro storico di una città pugliese, le famiglie si preparavano ad accogliere la festa. Pioveva da giorni ormai e non accennava a smettere e cadeva, la pioggia, come una punizione sulla terra e su quelle case. E le case erano stanche, stanche e tremanti, ad un certo punto, vicino alla mezzanotte, quelle pietre non tennero più ed ogni cosa crollò, sotto la pioggia impietosa, i muri si frantumarono come un castello di sabbia e mentre tutto intorno s’infrangeva, il cielo restò muto e indifferente.

Smisero di lampeggiare le luci di Natale, sul balcone, ancora sospeso, smisero di suonare le campane per la messa della veglia, ogni cosa intorno smise di esistere e fu risucchiata da quel vuoto d’abisso. Un silenzio, profondo e nero, calò sulla notte e su quelle case.

Dopo qualche minuto, urla e pianti, risalirono insieme alla polvere. Un armadio, il letto con la coperta ancora stretta, un mestolo appeso al filo, ogni cosa venne sepolta da calcinacci e fango, mentre la pioggia, precisa e violenta, continuava a colpire le macerie, senza alcuna compassione. Il cappellano dell’ospedale si precipitò sul posto, e nella luce fioca della strada, che illuminava qua e là, un gruppo di persone si mise a scavare a mani nude in attesa dei soccorsi.

Arrivarono i vigili del fuoco del Distaccamento di Barletta, e poi la squadra di Bari intervenuta col carro attrezzato, ancora, giunsero sul posto le reclute del 13° reggimento Fanteria Pinerolo di stanza alle casermette.

Le luci dei fari dei soccorritori, interrotti dalla pioggia che sferzava i fili della corrente, come uno schermo mal funzionante, accendeva e spegneva la speranza, ma restava l’unico appiglio alla salvezza, al compito feroce che militari e civili stavano portando a compimento. E nella notte dell’Immacolata, accadde un miracolo, in quella notte di morte, una vita trovò la salvezza: una bambina di circa 5 anni, venne riportata alla luce da un militare, protetta dalla sua culla che, capovolgendosi, le fece da involucro; la bambina, era rimasta per circa sei ore completamente sepolta, sola a presidiare la fortezza.

Angela fu l’unica superstite del crollo, nel quale perse tutta la sua famiglia, una gara di solidarietà partì in tutta Italia per adottarla, lei conserva ancora la medaglietta che quel militare le mise al collo in ospedale, la memoria della salvezza ricevuta.

“Sola a presidiare la fortezza” è un’espressione che mi risuona da tempo e che mi fa pensare a mia madre, alla sua tenacia, al legato che abbiamo da lei ereditato, come figli di questo mondo, alla gratitudine per la salvezza ricevuta che, in qualche maniera, ci segna, pur senza appartenerci. Eh sì, lo avete capito: Angela è mia madre.

Un buon racconto” dice Flannery O’Connor, “non deve avere minor significato, né azione meno compiuta di un romanzo. Nel racconto non va tralasciato nulla di essenziale al nucleo della storia. L’intera azione deve essere adeguatamente motivata, e dotata di un inizio, uno sviluppo e una fine, benché non necessariamente in quest’ordine.”

Questo è il cuore di una storia che preme per essere raccontata e, prima o poi, prenderà la forma di un racconto, ci sto lavorando da tempo, ma le storie, si sa, devono esser pronte a venire alla luce, altrimenti si rischia di sciuparle.

Mariatina Alò

I MOTI STUDENTESCHI DEL ’44 A BARI

C’è stato un maggio barese, assai prima del maggio francese: se non di portata epocale come quest’ultimo, nemmeno evento indegno di memoria.

Era il 1944, gli studenti universitari e medi insorsero contro un provvedimento del ministro Omodeo. Azioni di lotta coerenti e tenaci, unite all’appoggio dell’opinione pubblica, permisero loro di vincere la battaglia.

Ricostruisce i fatti il documentatissimo L’Università di Bari di Pasquale Calvario e Vito Antonio Leuzzi, edito nel 2001 dalla Progedit e recante il sottotitolo di Nuove facoltà, lotte studentesche e politiche dell’istruzione. 1943-1945.

Non furono anni facili, quelli fra il ’43 e il ’45. La caduta del regime e l’8 settembre, l’Italia spaccata in due. Nel Centro-nord tedeschi e fascisti, i gruppi partigiani. A Sud Badoglio e la monarchia, l’occupazione alleata. Roma città aperta. E poi i CLN, la Liberazione, il dopoguerra; il breve governo Parri, l’ultraquarantennale egemonia democristiana alle porte.

Ma sullo sfondo dei grandi eventi c’era la vita di ogni giorno, i problemi di sempre aggravati dall’incertezza del momento; c’era gente che voleva lasciarsi il passato alle spalle, studenti che guardavano al futuro e dovevano sostenere esami. Erano universitari pugliesi iscritti a Napoli o a Roma – città in quel frangente pressoché irraggiungibili – ma anche ragazzi di altre regioni, profughi o militari di stanza in Puglia, che rischiavano di dover interrompere gli studi. Perché l’Università di Bari non offriva molto, all’epoca: mancavano fra l’altro lettere, filosofia, chimica, matematica, fisica, scienze naturali, ingegneria, veterinaria, pedagogia. Furono questi, appunto, i corsi provvisori istituiti nel gennaio ’44 dal governo Badoglio.

In aprile divenne ministro dell’Educazione Adolfo Omodeo, che, il 13 maggio, presentò uno schema di decreto legge col quale sopprimeva i nuovi corsi di Bari. A torto o a ragione, il provvedimento aveva il dichiarato scopo di «ristabilire la serietà degli studi». La notizia provocò un’immediata e vasta mobilitazione studentesca, la cui guida fu assunta da giovani intellettuali antifascisti, per lo più di estrazione liberale o vicini al partito d’Azione (tra i primi Pasquale Calvario, coautore del libro).

La protesta fu condivisa dal rettore Fraccacreta – il quale rassegnò le dimissioni – e dal corpo accademico, che approvò un ordine del giorno in cui si bollava come antidemocratica una misura adottata «senza alcuna consultazione, né richiesta di relazione alle Autorità Accademiche, fatto senza precedenti nella storia delle istituzioni universitarie».

Ma i veri protagonisti furono gli studenti, che portarono avanti la lotta con fermezza e prudenza insieme, guadagnandosi il sostegno della popolazione e il rispetto delle autorità; finanche di quella militare alleata, che, interrogati i vertici del movimento, decise di astenersi da ingerenze, se la situazione non fosse degenerata.

Il 15 maggio 1944, circa mille studenti affollarono l’atrio centrale dell’Università di Bari per aderire allo sciopero Omodeo, come allora fu chiamato: «si celebrò la prima grande adunanza di popolo nel nostro Paese uscito dal fascismo», scrive Calvario con l’orgoglio di chi c’era. Adunanza civile e pacifica, aggiungiamo noi, vista l’assenza di incidenti.

La protesta conserverà toni pacifici per tutta la durata, e si concluderà solo dopo aver raggiunto lo scopo: il ritiro del provvedimento contestato. Determinante fu la compattezza degli studenti e l’appoggio della società civile, coinvolta e tenuta informata tramite manifesti, comunicati stampa, volantini satirici.

Non possiamo nascondere la nostra simpatia per questi ragazzi del ’44 – oggi centenari, gli improbabili superstiti. Ma non è facile appurare, ottant’anni dopo, se e quanta fondatezza avessero le preoccupazioni di Omodeo. Certo il ministro aveva sinceramente a cuore le sorti della nazione, e il suo intento era stato quello di «mantenere all’Italia il prestigio di un Paese di alta cultura, unico bene rimastole».

Può avvenire che questo genere di libri scada nel provincialismo, nell’encomio del campanile: rischio sapientemente evitato dagli autori, nel cui studio scorrono, accanto a quelli di gente comune, i nomi di Benedetto Croce, Tommaso Fiore, Aldo Moro. E la storia dell’Università di Bari s’intreccia con la storia nazionale di quegli anni, si fa storia tout court.

Benedetto Croce

Alfredo Dell’Era

IL SANTO SFRATTATO

Essì, visto che tocca raccontare la dolorosa istoria di sant’Alfredo, perché piangerci addosso, scherziamoci su (o, se preferite: scherziamoci – virgola – su).

Dolorosa l’istoria di Alfredo mica in vita, eh, ché campò settant’anni nel IX secolo (mica bruscolini, per l’epoca) e di mestiere fece il vescovo – dunque servito, pasciuto e riverito.

A quanto se ne sa, fu assai più homo faber che sapiens. Passato alla storia – alla petite histoire, beninteso – per aver fatto costruire chiese, conventi e cattedrali a iosa: non un teologo né un mistico, dunque, ma un signore concreto e fattivo con il suo chiodo fisso, una coazione a ripetere che, data la carica, poté assecondare facendo le cose in grande.

E vabbè, poi morì, lo fecero santo non si sa bene perché e gli piazzarono la festa il 15 di agosto: non un giorno come un altro, vivaddìo, Ferragosto!

Si crogiolò Alfredo in quel giorno lì, gli dava lustro: chi mai altrimenti avrebbe ricordato un oscuro presule tedesco altomedievale, che nulla aveva fatto per far realmente parlare di sé?

Finché. Finché a Pio XII – era il 1950 – non venne in mente di proclamare il dogma dell’assunzione di Maria. E quando festeggiare ’sta bella novità? Come quando, mica un giorno qualunque, facciamo a Ferragosto. A Ferragosto?! E sant’Alfredo? Lo anticipiamo al giorno prima. Duro colpo per il meschino, che da più di mille anni se ne stava indisturbato lì.

Ma la cattiva sorte aveva appena cominciato l’opera sua. Passano trent’anni ed ecco che Wojtyla, dalla sua forsennata fabbrica di santi, ti tira fuori Massimiliano Kolbe. E vabbè, santifichiamo pure lui, ma poi dove gli piazziamo la festa? Il 14 agosto. E sant’Alfredo? C’è spazio per tutti e due.

C’è spazio una sega. Kolbe è un santo attuale, attrattivo, fatto fuori dai nazisti ad Auschwitz, piace pure ai mangiapreti: e fa ombra, anzi oscura del tutto, il povero Alfredo, che oramai quasi nessun calendario riporta più…

E così, mestamente, da Ferragosto alla sua vigilia, dallo starvi da solo a dividerla con uno tanto più figo di lui. Come se non bastasse, fra i pochi che portano il suo nome ce n’è almeno uno che non crede.

Non c’è più religione.

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E tutto si riduce, a parer mio,

[…] a dire: Esci di lì, ci vo’ star io.


– Giuseppe Giusti –

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Postilla triste. Quell’uno che non crede è stato a Otranto, ha visitato la cattedrale e l’ossario (quella roba in foto; ma buona parte delle reliquie sono in mezzo mondo), e ha appreso che la festa degli 813 martiri – ormai santi anche loro – Bergoglio gliel’ha piazzata il 14 agosto.

Per l’incolpevole Alfredo, il colpo di grazia.

PARERGA E PARALIPOMENA

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– Santità, santità!

– Che c’è?

– C’è Napoleone al telefono! Napoleone Imperatore!

– Cos’è ’sto telefono?

– È… un modo di dire, santità.

– Tu non mi piaci come stai, figlio mio, ho fatto male a darti la patente di lettura per i libri dell’Indice, chissà di cosa ti sei riempito la testa, so’ assai le cose strane che dici… Comunque, che vuole quel vecchio miscredente?

– Vuole un santo.

– Sarebbe a dire?

– Dice che san Napoleone non c’è, e questo sminuisce la sua figura.

– Mhhh, già tanto alto non è. Ma siamo sicuri che non ce l’abbiamo un san Napoleone?

– Santità, ho controllato: non ce l’abbiamo.

– Dobbiamo tenercelo buono quell’avanzo di galera, finché ha il coltello dalla parte del manico può darci parecchio fastidio, e poi mo c’è pure il concordato, qualche concessione l’ha fatta, non possiamo lasciarlo a mani vuote. Ci vorrebbe… ci vorrebbe…

– Un problem solver!

– Ehhh!… Cos’è, un altro modo dire?

– Ehm… Sì, santità.

– Mai sentito prima d’ora.

– Dalle mie parti si usa.

– Perché, tu di dove sei?

– Di Bari, santità.

– Ah, di Bari! Dice Dante dei paesani tuoi che loquantur obscene atque barbarizant, o qualcosa del genere: mo non mi ricordo le parole esatte, ma insomma il concetto è quello. A proposito, il De vulgari eloquentia l’abbiamo messo all’Indice?

– Mi pare di no, santità, dev’essere il De Monarchia che abbiamo condannato.

– Comunque resta il fatto che tu qualche problema ce l’hai. Ti devo mandare da uno bravo, e se non ti mette a posto lui chiamiamo l’esorcista. Ma, finché più o meno ci stai con la testa, occupatene tu di questo san Napoleone. Hai carta bianca.

Napoleone e Pio VII

– Santità, santità.

– Ah, sei tu! L’hai risolta la questione?

– Ni.

– Mo cos’è quest’altra parola?

– L’ho inventata io, è un incrocio tra no e sì.

– Fai la persona seria, figlio mio, altrimenti la nomina a monsignore te la scordi. E comunque il no non esiste, quel piccolo Cesare dobbiamo tenerlo contento per forza.

– E contento lo terremo, santità.

– Qua sto. Fammi sentire.

– Abbiamo spulciato il martirologio da cima a fondo e, alla data del 2 maggio, abbiamo trovato la memoria dei santi martiri di Alessandria, tra cui un certo Neopolis o Neopolus. Tradotto diventa Neopolo; da Neopolo a Napoleo il passo è breve e da Napoleo a Napoleone più breve ancora.

– Insomma, ci stiamo inventando un santo.

– Ci siamo inventati tante cose. In tutto il Vangelo non è detto mai che il Messia nacque in una grotta, né c’è traccia del bue e dell’asino. E non parliamo dei Magi: dove sta scritto che erano tre, e soprattutto che erano Re? E che si chiamavano Gaspare, Melchiorre e Baldassarre ed erano di razze diverse?

– Essì, fu Federico a fare tutto ’sto casino coi Magi, Federico quello con la barba rossa, non il nipote.

Comunque vabbè, mi hai convinto, il 2 maggio sarà san Napoleone: dove devo firmare?

– Mi consenta, santità…

– Che altro c’è?

– C’è che il 2 maggio non sa di niente. Napoleone è nato a Ferragosto, mica una data qualunque: piazziamogli il santo quel giorno lì e lo facciamo contento due volte.

– Tu farai carriera, figlio mio. Ma il 15 non è che c’è già qualcuno?

– Un certo sant’Alfredo, mi pare.

– Mai sentito, chissà com’è che ce lo ritroviamo santo. Vada per il 15 agosto, allora: staranno un po’ stretti in due, ma tanto non durerà.

Non durò infatti molto, san Napoleone: dall’agosto del 1806 a luglio del ’14, scarsi otto anni. Uscito di scena Bonaparte, ne seguì la sorte.

Alfredo Dell’Era

SCOTELLARO E PASOLINI: IL PRIMA E IL POI DI UN RISCATTO MANCATO

In basso, Rocco Scotellaro (Tricarico, Matera 19 aprile 1923 – Portici 15 dicembre 1953. In alto: Pier Paolo Pasolini (Santo Stefano, Bologna, 5 marzo 1922 – Lido di Ostia, Roma, 2 novembre 1975

Fioccano le ricorrenze in questa fase storica: nel 2022 i cent’anni dalla nascita di Pierpaolo Pasolini e ad aprile di quest’anno il centenario dei natali di Rocco Scotellaro, il sindaco-poeta di Tricarico.

Se la loro precoce scomparsa (prematura per Scotellaro, tragica per Pasolini) rappresenta un elemento biografico incidentale ma in una certa misura comune, altre consonanze tra i due ne rendono intrigante l’accostamento.

C’è l’impegno politico trasversale ed eterodosso (eretico e corsaro, si direbbe per Pasolini, glocal ante-litteram per Scotellaro) in grado di cogliere i nodi problematici di una società in forte mutamento come quella post-bellica, da un punto di vista libero e critico.

C’è l’amore profondo per la letteratura e la poesia, adoperate quasi come un’eco-scandaglio per studiare la tessitura profonda della società italiana fin nei suoi nascosti risvolti sociologici e antropologici.

C’è soprattutto l’interesse per la dimensione rurale, contadina, periferica e paesana, che tanto Scotellaro quanto Pasolini tenevano in altissima considerazione, il primo rivendicandone la dignità nella speranza di un riscatto che l’occasione storica della ricostruzione post-bellica e la riforma agraria parevano offrire; il secondo contrapponendola alla “civiltà dei consumi” dagli antitetici disvalori e denunciandone, nell’indifferenza generale, la progressiva scomparsa.

Focalizzando l’attenzione intorno al mondo degli esclusi dalla storia (sia esso il sottoproletariato pasoliniano o l’universo contadino-bracciatile scotellariano) che tanta parte ha avuto negli interessi dei due, si coglie un differente atteggiamento rispetto al tema del possibile riscatto di questi strati sociali. Se per Scotellaro, ventitreenne sindaco socialista di Tricarico, l‘impegno politico ed amministrativo è tutto innovativo e proattivo, orientato all’interlocuzione con il mondo contadino, all’ascolto dei suoi bisogni, al coinvolgimento nella vita civile del paese attraverso strumenti rivoluzionari per l’epoca, come l’alfabetizzazione e i consigli di borgo; per il Pasolini del decennio 1955-1965, bastian contrario per vocazione quasi profetica, la partita del riscatto sociale del sotto-proletariato è già perduta.

Il frenetico sviluppo economico indotto dalla radicale trasformazione industriale degli anni 50 e 60, avendo stravolto i connotati alle grandi città del centro-nord Italia e dei loro abitanti, aveva ricacciato le fasce sociali più umili nelle periferie delle borgate ad infoltire le fila del nuovo sottoproletariato. La descrizione dell’umanità di periferia spogliata di tutto tranne che del suo vitalismo, immersa in contesti sub-urbani le cui tracce storiche le sono ignote, si ritrova in tante poesie di Pasolini, ad esempio in 10 giugno:

“Un solo rudere, sogno di un arco

di una volta romana o romantica

in un prato dove schiumeggia il sole

il cui calore è calmo come un mare

e, del mare, ha il sapore di sale

il mistero splendente: lì ridotto,

sulla schiuma del mare della luce,

il rudere è solo: liturgia

ed uso, ora profondamente estinti

vivono nel suo stile – e nel sole-

per chi non ne comprenda presenza e poesia.

Fai pochi passi, e sei sull’Appia

o sulla Tuscolana: lì tutto è vita,

per tutti. Anzi meglio è complice

di quella vita chi non ne sa stile

e storia”

Questa sorta di sgombero coatto avveniva a suo parere anche ad un livello più impalpabile, sul piano culturale. La mentalità contadina ed artigiana, che si articolava in un mondo coerente e sensato, veniva scacciata via per manifesta obsolescenza, soppiantata da una concezione radicalmente diversa della vita, del lavoro e dei bisogni individuali. È in quegli anni che tutto si orienta verso una lisergica corsa senza freni verso “l’edonismo consumistico e l’omologazione”. In un articolo di Paese Sera dell’8/7/1974 intitolato “Lettera aperta ad Italo Calvino”, contenuto in “Scritti corsari” (Garzanti 2008), Pasolini chiarisce il suo punto di vista in risposta all’accusa mossagli da Calvino di “rimpiangere l’Italietta”.

“L’Italietta è piccolo-borghese, fascista, democristiana; è provinciale e ai margini della storia; la sua cultura è un umanesimo scolastico, formale e volgare. Vuoi che rimpianga tutto questo?” domanda retorica, cui Pasolini risponde rilanciando e rivelando che oltre ad una vita da intellettuale, come dottor Jekyll e mister Hyde ha un’altra vita, per vivere la quale deve rompere le barriere di classe e “sfondare le pareti dell’Italietta” sospingendosi in quel mondo sottoproletario, contadino ed operaio che vi coincideva solo sul piano geografico e statuale e non in forza di una sostanziale appartenenza antropologica:

L’universo contadino (cui appartengono le culture sotto-proletarie urbane […]) è un universo transnazionale che addirittura non riconosce le nazioni. Esso è l’avanzo di una civiltà precedente o di un cumulo di civiltà precedenti tutte molto analoghe tra loro) e la classe dominante (nazionalista) modellava tale avanzo secondo i propri interessi ed i propri fini politici.

Pasolini in questa risposta delinea i contorni di una civiltà trans-nazionale che accomuna tutti gli emarginati della terra, per le ragioni più disparate e disperate accomunati nella polifonica codifica della loro marginalità. Richiamando Chilanti, la sua nostalgia non è per “l’età dell’oro” ma per “l’età del pane”, la civiltà dell’essenziale codificata nella creatività vocale dei dialetti, lingue che formano senza necessità di informare. Civiltà contrapposta a quella dei consumi perché “è chiaro che i beni superflui rendono superflua la vita”.

Come non accostare alla teorizzazione pasoliniana di una patria altra rispetto alle nazioni codificate, che accoglie i diseredati ed i reietti della storia, comprese le classi contadine legate al giogo dell’antico servaggio feudale, i versi forse più famosi e lirici di Rocco Scotellaro:

Io sono un filo d’erba

un filo d’erba che trema

e la mia patria è dove l’erba trema

un alito può trapiantare

il mio seme lontano

È di questa civiltà che avverte la mancanza Pasolini, percependone l’agonia e denunciandone l’obliterazione, seppur ammettendo che la sua visione della realtà culturale italiana “è radicale: riguarda il fenomeno come fenomeno globale, non le sue eccezioni, le sue resistenze, le sue sopravvivenze”.

Eccezioni, resistenze, sopravvivenze che erano ancora vive ed operanti anche solo qualche lustro prima, a cavallo tra gli anni 40 e 50 in regioni come la sua Lucania, costituendo l’humus fertile su cui germoglia l’opera poetica, critica e socio-politica di Rocco Scotellaro. Eccezione, resistenza, sopravvivenza dell’alveo natale e materno, del suo “contado” e dei suoi contadini e con-citta-dini, del desiderio di riscatto e legittimazione del Sud profondo e vetero-feudale, del Sud eternamente caudatario di un Settentrione che vi sovra-impone storia e destino.

Se è vero che il sindaco-poeta fu preso di mira dai suoi nemici, fino alle infamanti accuse che lo portarono ad un’ingiusta detenzione, la sua azione così dinamica ed originale, di non facile comprensione per i coevi, fu spesso sottovalutata anche da chi apparteneva al suo stesso orientamento politico.

Del resto Scotellaro, a differenza di molti intellettuali, letterati e studiosi del suo tempo, era una presenza spuria, capace di giocare la partita delle sue tesi su più tavoli. La sua produzione letteraria spazia dalla poesia (È fatto giorno), alla prosa d’inchiesta con taglio innovativo tra giornalismo e analisi socio-antropologica (Contadini del sud) alla dimensione narrativa declinata sia nei racconti che nel più lungo e strutturato romanzo breve L’uva puttanella. Allo stesso modo, molteplici sono stati i suoi contatti, da quelli più squisitamente letterari (come Amalia Rosselli e Vittore Fiore), a quelli più propriamente socio-antropologici (cito su tutti Carlo Levi, De Martino e Rossi-Doria).

Ma fino a che punto Rocco Scotellaro è stato realmente compreso nella sua complessità di visione e azione? L’intero suo corpus letterario attualmente disponibile è stato pubblicato nel 2019 da Mondadori (Rocco Scotellaro, tutte le opere). Più recentemente, una approfondita ricostruzione della sua figura è contenuta nel saggio “Rocco Scotellaro e la questione meridionale” di Marco Gatto, edito da Carocci nel 2023. Fin dal sottotitolo (letteratura, politica, inchiesta), Gatto indica come le principali direttrici dell’attività pubblica di Scotellaro siano tra loro raccordate dal fil rouge dell’appartenenza all’Italia del Sud, un’Italia negletta che il sindaco-poeta vuole torni protagonista del dibattito pubblico del dopoguerra con istanze sue proprie. Si può affermare, senza incorrere in forzature attualizzanti, che Scotellaro abbia agito localmente pensando globalmente e incarnando ante-litteram la prossemica dell’intellettuale dal pensiero “glocale”. Fin da ragazzino fa la spola tra la Lucania e il resto del paese, frequentando l’ultimo anno di liceo a Trento sotto l’egida di Giovanni Gozzer, docente anti-fascita di formazione cattolica da cui apprende i primi rudimenti del socialismo. Studia giurisprudenza a Roma e si mantiene agli studi come istitutore a Tivoli. Torna a Tricarico e spinto da genuina passione politica e dall’incontro con Rocco Mazzarone, medico e sociologo, nel 43 si iscrive al Partito Socialista e ne fonda una sezione nel suo paese. Deciso a mettere al centro del dibattito pubblico la questione della cittadinanza degli ultimi, nella fattispecie i contadini, non si limita ad un’attività di lotta “a testa bassa” contro il notabilato locale; è infatti di quegli anni il suo primo articolo di argomento politico dedicato al socialista Camillo Prampolini, edito sul periodico “Battaglie Goliardiche” a Potenza. Nel 46, in occasione della campagna referendaria su Monarchia o Repubblica, conosce Carlo Levi e Camillo Rossi-Doria. Il primo è colui che insieme a Franco Fortini, contribuirà dopo la sua morte a garantirne il giusto riconoscimento. Ma l’aura oleografica di “poeta-contadino” con cui Levi sintetizza la complessa e spesso contraddittoria opera di Scotellaro, contribuendo ad alimentarne il mito del giusto ingiustamente carcerato e precocemente scomparso (del Cristo, si direbbe), non ne rende la complessità intellettuale e politico-culturale. Operazione, questa, da condurre per così dire a mente fredda e bocce ferme, con approccio scientifico basato su studio delle fonti e argomentazione di tesi. Approccio che anima il saggio di Marco Gatto. L’autore di “Rocco Scotellaro e la questione meridionale” sottolinea la complessa e delicata opera di mediazione tra la cultura contadina e quella politico-ideologica del pensiero riformatore che ha allignato tra le fila dei socialisti. Del resto, come Goffredo Fofi ricorda nella prefazione del saggio di Gatto, Scotellaro ha incarnato esemplarmente (e forse non del tutto consapevolmente) la figura dell’intellettuale organico di stampo gramsciano tanto caro al PCI. La figura paternalistica del poeta-contadino sparisce lasciando spazio ad un giovane e talentuoso letterato animato dalla fiamma della passione politica, da un’innata capacità relazionale e di interlocuzione e da ideali di giustizia e riscatto, la cui onestà intellettuale non permette di nascondere le difficoltà di una impresa quasi titanica:

Non gridatemi più dentro,

non soffiatemi in cuore

i vostri fiati caldi, contadini.

Beviamoci insieme una tazza colma di vino!

Che all’ilare tempo della sera

s’acquieti il nostro vento disperato.

Spuntano ai pali ancora

le teste dei briganti, e la caverna –

l’oasi verde della triste speranza –

lindo conserva un guanciale di pietra…

Ma nei sentieri non si torna indietro.

Altre ali fuggiranno

dalle paglie della cova,

perché lungo il perire dei tempi

l’alba è nuova, è nuova.

La poesia, nel contesto tratteggiato dal saggio, gioca un ruolo centrale nell’opera di Scotellaro: esempio incarnato in quanto vissuto, di afflato civile, processo di relazione e strumento di cambiamento fissato nei versi ma sempre vibratile, banco di prova della sua capacità di mediazione culturale tra mondi che debbono poter dialogare, ma anche registrazione fedele della difficoltà di un progetto di riscatto sociale da un servaggio millenario, di un meridione d’Italia che si dilata e diventa meridione del Mondo:

Sud è il mio amore, sono gli aratori

nell’ombra delle querce o sulle aie,

dormono legati alle cavezze

delle cavalle baie.

Hanno la faccia bruciata

una crosta di pane.

E donne salgono pendii

si stringono i figli nel vento,

vanno cercando piene di sgomento

l’uomo che può non ritornare.

Sud è bambini che piangono

nelle bocche dei vicoli abbandonati.

La musica è la cinica risata

delle civetta spia d’ogni casa.

Perciò nelle feste grandi

facciamo le colonne dietro ai santi,

preghiamo per l’acqua e per il sole,

abbiamo la pelle dei dannati

quando i doni ci vengono negati.

Sud è l’amore condannato:

mosca cavallina ci solletica,

ci viene il profumo delle ortiche

quando la pioggia è toccata dal sole.

Sud è il mio più strano amore:

la bella contadina in mezzo ai fiori

che tu la puoi pestare.

Sud è la canzone dei primordi,

si muovono le dita

sulla rete dei ricordi.

E sud è il mio nonno

mio padre e mia madre

e sud è il soldato di New York

che vi gira col casco sulle spalle,

lui figlio melenso in casa natia,

e sud sono anch’io

che canto la litania…

A proposito “dei Sud del mondo” oggi gli aratori con la faccia bruciata come una crosta di pane sono i dannati di Borgo Mezzanone, che vengono dall’Africa tutta; e le donne coi figli al vento che cercano chi non può tornare, non sono forse le madri o le sorelle dei naufraghi dell’ennesima ecatombe del Mediterraneo?

La storia”, scrisse Cernicevskji “come una nonna ha un grandissimo amore per i nipotini” quindi, si ripete ciclicamente nei suoi drammi e noi scolari asini continuiamo a non capirla.

Pasolini invece no, Pasolini aveva compreso tutto, anche l’esito omologante ed interclassista, dunque fallimentare, cui tutti i tentativi (persino quelli più genuini e scotellariani) di cambiare la società italiana erano destinati, venendo distrutti nel tritacarne consumistico e capitalistico imperante.

In questo senso a me pare che Scotellaro e Pasolini, standone sulle due rive opposte abbiano visto scorrere il medesimo fiume della storia: il primo rivendicando il possibile riscatto della “eccezione contadina” ed il secondo denunciandone la sconfitta ad opera della “regola capitalistica”.

Gianpiero Berardi

THE LOBSTER

“L’uomo civile ha barattato una parte della sua possibilità di felicità

per un po’ di sicurezza.”

Sigmund Freud, Il disagio della civiltà, 1930

In un prossimo futuro non sarà più possibile essere single.

Oltre una certa età, infatti, i single verranno prelevati e rinchiusi in lussuosi hotel dove avranno 45 giorni di tempo per trovare la propria anima gemella altrimenti saranno trasformati in animali.

La ricerca del partner non sarà libera – i single, infatti, nella maggior parte dei casi hanno già scelto male e non potrà essere concessa loro ulteriore fiducia – ma dovrà essere fondata su delle affinità, fisiche o caratteriali, concrete e verificabili come ad esempio la condivisione della miopia, avere dei bei capelli, non riuscire a provare alcun sentimento o emozione, avere una bella voce, possedere una laurea in matematica…

La vita di coppia sarà così certificata in un’apposita documentazione che dovrà essere esibita durante i regolari controlli delle forze dell’ordine.

Quella appena descritta non è una sinistra profezia né tantomeno l’incubo che ho fatto ieri notte ma una visione del cineasta Yorgos Lanthimos tradotta nel suo film The Lobster – premio della giuria al festival di Cannes del 2015. Il film si inserisce nel solco delle cosiddette opere “distopiche” tracciato da illustri predecessori come l’ormai conosciutissimo 1984 di George Orwell.

Quando ci si imbatte in questo tipo di opere si rimane sempre un po’ spiazzati. Quello che scatta solitamente nella mente dell’osservatore è un meccanismo di associazione della dimensione distopica con quella fantascientifica e questo accostamento finisce col determinare una naturale distanza tra l’Opera e sé stessi che abbassa automaticamente il trasporto emotivo: “tanto non potrà mai succedere”, pensiamo, e così ci posizioniamo in una rassicurante confort zone da cui tutto ci appare come nient’altro che una strampalata allucinazione dell’autore.

Solitamente avviene questo – solitamente, appunto – ma non nel caso di The Lobster, che risulta invece inaspettatamente disturbante e capace di intaccare la sfera emotiva, instillare dubbi, corrodere le strutture delle nostre sicurezze.

E quindi anche se inizialmente lo etichetterete come astruso e bizzarro e tenderete a rilegarlo tra quegli oggetti poco interessanti che non meritano la vostra attenzione – e con esso probabilmente anche questo articolo – sono convinto che vi ritornerà in mente e vi ronzerà nella testa come una fastidiosa zanzara di cui sarà difficile disfarsi.

E questo perché non ci sono asini verdi che volano, zombie che imperversano nella notte o alieni in missione sul pianeta Terra ma uomini e donne, che lavorano, amano, pensano, hanno passioni, legami, paure, desideri e che si muovono all’interno di una società del tutto simile alla nostra. Presi singolarmente, non ci sono quindi elementi estranei o inverosimili, ciò che viene deformato è il senso dello stare insieme in una società che procede secondo direzioni che ci appaiono illogiche ma che il nostro sesto senso, in un certo qual modo, ci prospetta pericolosamente e potenzialmente vicine.

Come dire, la grammatica del vivere quotidiano rimane intatta e in tutto simile alla nostra, ciò che risulta contaminata e corrosa è la semantica: la battuta di caccia – che noi pensiamo come un’azione di uomini armati che vanno per boschi a cacciare animali – nel film acquisisce un significato altro, e cioè andare a caccia dei single ribelli asserragliati nei boschi per prolungare il proprio tempo di permanenza in hotel e avere così maggiori possibilità di trovare l’anima gemella (la cattura di un solitario, infatti, conferisce all’ospite un giorno in più in hotel).

Gli ospiti dell’hotel verso una battuta di caccia ai single ribelli

Ma perché arrivati a un certo punto uno Stato dovrebbe obbligarci a vivere in coppia?

Forse perché da anni le nascite, soprattutto nei Paesi ricchi, sono ormai pericolosamente in calo? Per garantire la sopravvivenza della specie umana? O per ragioni economiche? Si sa che la famiglia è l’unità di consumo standard per eccellenza e che buona parte dei prodotti in commercio sono pensati proprio per le sue esigenze…

Insomma, istillato il dubbio, la mente comincia a lavorare e non si ferma più e questo interrogarsi non fa altro che alimentare la sensazione che questo cattivo (dis) luogo (topia) possa essere in realtà molto più prossimo di quanto ci si possa aspettare. Chi di voi, nel 2019 – nel tempo della scienza e della tecnica – avrebbe mai osato pensare un mondo in ginocchio per un virus? Un simile scenario sarebbe stato sicuramente ricompreso tra quelle visioni distopiche proprie dei film o dei libri e invece sappiamo tutti com’è andata.

Al di là delle ragioni che potrebbero aver portato verso una simile realtà – il regista non le svela mai – il nucleo centrale della provocazione di Lanthimos, e della mia riflessione odierna, sta nella fotografia di una società soffocata dalle regole e imprigionata in una fitta tela di ordine e astrusa razionalità.

Il risultato è un mondo cupo e claustrofobico, fatto di uomini e donne estremamente tristi, che non ridono mai, disincantati e diffidenti, tutti nei confronti di tutti. Consapevoli di non poter dire e fare ciò che realmente pensano e vorrebbero rappresentano il sacrificio che la futura società ha deciso di immolare sull’altare di un nuovo ordine sociale, che tutto vuole progettare, controllare, verificare, persino i sentimenti, persino l’amore.

All’uomo di questo ipotetico futuro non è concessa nemmeno quella parte di felicità barattata a cui faceva riferimento Freud nella sua civiltà in disagio. E questo perché, forse, a furia di barattare felicità con i mille simulacri che la modernizzazione via via ci ha imposto, di quell’iniziale quota di felicità freudiana nulla sarà ormai rimasto.

Ancora vi pongo una domanda: siete sicuri di essere così lontani da uno scenario del genere?

È di qualche anno fa ormai un noto programma televisivo – Matrimonio a prima vista – in cui tre tecnici, una sessuologa, un sociologo e uno psicoterapeuta costruiscono a tavolino delle coppie, dopo aver analizzato i singoli profili dei partecipanti e ricavato dalle loro analisi addirittura, con precisione matematica, la percentuale di affinità e di successo. Le coppie così “artificialmente” create vengono poi fatte sposare senza essersi mai conosciute. Il risultato di questo folle esperimento sociale nascosto dietro al velo di Maya del grande schermo è nella quasi totalità dei casi un completo fallimento ma il tentativo di una decodificazione scientifica dell’amore rimane, è un dato di fatto ed è già in atto da anni.

Ma ritorniamo al film…

Gli istinti, i desideri, le libertà sono ancora possibili ma solo in un’altra vita, quella da animali, a cui saranno destinati i single al termine della propria permanenza in hotel. David – Colin Farrell, il protagonista del film – nel caso non riesca a trovare la sua anima gemella, sceglie una seconda vita da aragosta suscitando lo stupore della direttrice dell’hotel che incuriosita ne chiede le motivazioni. “Perché sotto la sua corazza dura nasconde una deliziosa polpa, può vivere fino a cento anni e ha il sangue blu ed è sempre fertile.” risponde David, lasciando, a dire il vero, l’amaro in bocca per la banalità delle sue affermazioni.

Se fossi stato io il regista avrei fatto rispondere a David:

“Un’aragosta, perché ha il cuore nella testa.”

Sarebbe stato questo l’estremo gesto eroico del protagonista per suggerire che la direzione verso la felicità e un’umanità che sembra ormai persa passa da un uomo in grado di ragionare col cuore.

Perché, piaccia o no, ci sono cose che solo il cuore conosce, segrete e inviolabili, ultime ed eterne colonne d’Ercole al cui cospetto ogni scienza e ogni azzardo umano dovranno riconoscere la propria miseria e inadeguatezza.

Trento Vacca

La scrittura di sé come esercizio per ricomporsi

La scrittura è di certo uno dei modi per conoscersi e indagare il passato e spesso, quando ci inoltriamo in questa terra, conosciuta solo in parte, incontriamo vicende nuove e differenti, personaggi che credevamo esserci noti, ma che, venendo alla luce, sotto altre forme, grazie alla scrittura, ci stupiscono e ci turbano.

Scrivere, in genere, è un’esperienza che ci permette di sciogliere quei nodi della memoria che resterebbero lì, incompiuti e radicati, rendendo quelle zone della nostra memoria, territori paludosi e difficilmente esplorabili. Quindi, il bisogno di scrivere è sentito come un’urgenza in chi si pone nei confronti di questo processo, come un cercatore. Chi scrive è sempre mosso da un’inquietudine, un tormento che è quello di fare luce sulle oscurità che ci abitano e nello scrivere, a volte, le storie si narrano da sole, le trame si costruiscono, generando improbabili coincidenze, inaspettate evoluzioni. La storia, insomma, prende vita da sé, si auto-genera.

Una delle forme di scrittura più intimiste è certamente quella autobiografica, nella modalità diaristica, per esempio, per Virginia Woolf il diario era un modo di guardare la vita, la sua vita, in particolare. Fermarsi a riflettere sulla propria storia di vita, alla luce di un vissuto presente, consente di dare valore alla narrazione individuale, permette di ri-significare le proprie scelte e tracciare archi verso il futuro, proiettare intenzioni. Scrivere non è mai solo un atto destinato ad estinguersi nella pagina di un diario, quando il lavoro di scrittura di sé può divenire materiale di studio, oggetto d’osservazione per trarre nuovi significati dalle narrazioni che si sovrappongono o semplicemente si aggiungono, aprendo prospettive e visioni differenti.

La scrittura autobiografica è uno strumento che anche chi ha poca confidenza con la scrittura può utilizzare, tenendo conto di alcuni suggerimenti che i cultori di tale pratica suggeriscono in svariati testi. L’autobiografia in Italia nasce con Duccio Demetrio, professore ordinario di Filosofia dell’educazione e di Teorie e pratiche della narrazione presso l’Università Bicocca di Milano e fondatore, con altri, della LUA, la Libera Università dell’Autobiografia di Anghiari. Ho conosciuto e praticato questo metodo nella formazione e nel lavoro da operatrice sociale, ho appreso tecniche e studiato i testi principali che fanno riferimento al metodo, spiegandone modalità, contenuti e benefici.

Duccio Demetrio

Il lavoro autobiografico condotto nei gruppi di formazione permette a ciascun partecipante di utilizzare la scrittura come strumento privilegiato di espressione e, nel contempo, di condividere il risultato del proprio lavoro, essendo accompagnato nel processo di rilettura delle proprie vicende di vita. Rivisitare il nostro passato alla luce del vissuto e di quello che oggi siamo, permette di rivederci e rivedere i nostri tanti ii, come afferma D. Demetrio, i nostri ii che agiscono, che sbagliano, che compiono scelte e, dunque, esistono in altri tempi ed altri luoghi. La scrittura diventa allora un modo per ricomporsi, Demetrio parla di un io tessitore, quell’io che in quel preciso momento storico supera le singole vicende per riprendersi pezzi della nostra storia e ricucirli, collegarli, ricostruire una trama che consente di dare senso alla nostra vita.

Nel lavoro di gruppo si parte da momenti di scrittura autobiografica individuale, in cui si utilizzano foto, immagini o anche oggetti cari a cui ognuno attribuisce un significato per poi passare alla condivisione, gestita da un facilitatore esperto del metodo, che aiuta i partecipanti a ri-leggere la propria storia. Da lì, seguendo il filo della memoria e dell’immaginazione, i partecipanti evocano pensieri e sensazioni legati alla propria esperienza di vita che l’approdo ad una data parola può aver suscitato. Si tratta, insomma, di compiere un passaggio ad un’adultità cognitiva in cui ci guardiamo dall’alto, “ci osserviamo come un paesaggio affatto ordinato dove, in quanto autori, stabiliamo simmetrie e asimmetrie, zone oscure o chiarificate, picchi o pianure, vie maestre o sentieri.” L’autobiografia è un modo per ricordare e riappropriarsi di quei frammenti di vita che rischiano di sbiadirsi col tempo e ricordare è una conquista, un apprendere per imparare a rivivere, imparare da sé stessi.

Mariatina Alo’

L’INCONTRO CON IL DESERTO

È da un periodo di deserto in cui ho dovuto affrontare la mia solitudine, che ho avviato un viaggio verso le regioni della mia interiorità. Inizialmente in modo forzato, poi convertita in discernimento, ho apprezzato la bellezza del deserto, da tempo ricacciata negli abissi del dimenticatoio.

Così, ho riattivato mappe di territori, capaci di far trovare l’orientamento, per costruire reti di geografie emozionali non più e non solo come viandanti o viaggiatori del sé.

…e ho lasciato che prendesse forma, nella Collana Nuvole, della Casa editrice L’Idea, un itinerario cartaceo per il quale ho provato la forza della scala, in un deserto che conduce ad elevare il proprio sé verso il divino, verso il metafisico.

Per farmi aiutare in questo cammino di resilienza, sono anche andata a rispolverare due grandi opere che, del deserto fanno la propria ragione di vita” Il piccolo Principe”, di Antoine de Saint- Exupéry, e “I tuoi deserti fioriranno”, di Frère Roger, di Taizé. Due, dei molteplici libri cult della mia crescita interiore.

“Mi è sempre piaciuto il deserto. Ci si siede su una duna di sabbia. Non si vede nulla. Non si sente nulla. E tuttavia qualche cosa risplende in silenzio…”

(Antoine de Saint-Exupéry, Il Piccolo Principe, XXIV)

È in una lettera indirizzata a sua madre che Antoine de Saint- Exupéry descriveva le impressioni e le emozioni di quel tempo sospeso, in un luogo lontano da tutto: nel deserto… “Si è in contatto con il vento, con le stelle, con la notte, con la sabbia, con il mare. Si aspetta l’alba come il giardiniere aspetta la primavera… Non rimpiango niente”. Nella solitudine di Cap Juby gli fa compagnia un piccolo fennec, la classica volpe del deserto, che il giovane aviatore riesce ad addomesticare e che diverrà un personaggio chiave del Piccolo Principe, simbolo e testimone del valore dell’amicizia.

Il deserto diventa, quindi, la metafora della preziosità della presenza amica: di chi ha la forza di esserci, sempre e comunque; di comparire al nostro fianco con discrezione, quando in noi c’è il buio… il vuoto… la disperazione… il dubbio, insorti, come piaga nella pelle del cuore, dopo un dolore, una separazione, un lutto, una crisi, una sofferenza…

“Così ho trascorso la mia vita solo, senza nessuno con cui poter parlare, fino a sei anni fa, quando ebbi un incidente col mio aeroplano, nel deserto del Sahara… Era una questione di vita o di morte, perché avevo acqua da bere, soltanto per una settimana. La prima notte, dormii sulla sabbia, a mille miglia da qualsiasi abitazione umana. Ero più isolato di un marinaio abbandonato in mezzo all’oceano, su una zattera, dopo un naufragio.” (Antoine de Saint-Exupéry, Il Piccolo Principe, II).

Nel deserto, la presenza umana si rivela inconsistente, effimera e ingannevole come l’ombra di una carovana che passa sulla cresta di una duna, e, al tempo stesso, suscita un senso di inquietudine al suo improvviso apparire nella solitudine immensa. Il deserto non nasce, necessariamente, dopo aver ottenuto ad ogni costo un silenzio interiore, suscitando in sé come un vuoto, facendo tacere immaginazione e riflessioni. Il deserto è uno sguardo interiore di pace, in cui- come suggerisce Frère Roger, di Taizé- si accende un fuoco che non si spegne mai. “Se la fiducia del cuore fosse all’inizio di tutto…Di colpo diventeresti un fermento di fiducia e di pace fino nei deserti della comunità umana, là dove ella si lacera.”

Il vero deserto è un’esperienza unica e indimenticabile.

Quando siamo in una situazione di deserto, il paesaggio appare continuamente diverso e uguale allo stesso tempo, in un sovrapporsi di immagini che tendono a confondersi e a disorientare; mentre gli unici punti di riferimento sono rappresentati dalle rare oasi, sperdute nel mare di sabbia, e dalla linea di costa, dove il deserto finisce nell’oceano e dove, spesso, l’incontro fra la sabbia rovente e le fredde onde crea fitti banchi di nebbia. Simili ai momenti di privazione emotivo-affettiva che ci autoinfliggiamo nei momenti di ritorno in noi stessi.

Anche se scelto da noi come ambiente d’intensa spiritualità e di rivelazione, il deserto, spesso, ci fa sentire infinitamente soli. Eppure… se lasciamo che Dio parli al nostro cuore, nel silenzio e nell’apparente vuoto di questo non-luogo, vedremo elevarsi una scala, capace di distaccarci dal territorio emozionale della solitudine e il deserto porterà i suoi frutti anche nella nostra vita.

Perché ogni deserto ha il segreto di una scala e di un pozzo.

La bellezza del pozzo nel deserto è credere che “I tuoi deserti fioriranno “, come affermava Frère Roger, fondatore di Taizé, grande conoscitore dei deserti del mondo contemporaneo: deserti materiali o spirituali, deserti dell’indigenza o del dubbio, dello scoraggiamento o d’un avvenire senza sbocchi…

Vivere nel e del deserto porta a comprendere che una delle caratteristiche insostituibili del Vangelo è che invita l’essere umano a dar fiducia ad un Vivente: Gesù, il Cristo, Egli è uscito dalla tomba ed è Vivente in mezzo a noi, per indicarci come riappropriarci dell’essenziale, partendo dal cuore. Perché, come dice anche la Volpe al Piccolo Principe “Ecco il mio segreto. È molto semplice: non si vede bene che con il cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi…”

Nel deserto si può fare esperienza dell’essenziale della propria identità personale; in quanto la persona- diceva Duns Scoto- è l’ultima solitudine dell’essere. L’acqua del pozzo aiuta a continuare a vivere: è fonte di chiara consapevolezza, Parola per l’anima e valido aiuto a praticare la custodia del cuore.

(“Allineamento sul deserto di Atacama” Foto di Javier Ramos)

Le illusorie visioni, create dai miraggi; la percezione delle distanze, falsata dall’aria priva di umidità che cancella l’effetto atmosferico della lontananza; il disorientamento prodotto dalle tempeste di sabbia, formano il contesto in cui lo spessore della vita riprende forma…e colori…e profumi…e sapori…ed emozioni, andando a costituire nuove realtà dell’identità.

È, dunque, rientrando in sé, cercando ristoro al pozzo della propria anima che ciascuno di noi ha la possibilità di abitare territori e costruire paesaggi di nuove ed esplorabili Geografie Emozionali.

Giusy Carminucci

Tutto accade per non accadere: Katherine e James nei sentieri del racconto

Greenwich Park, Londra

Katherine Mansfield

Lungo i viali di Greenwich Park scorgo un uomo alto e magro, occhialini e borsalino, parla fittamente con una giovane donna: sguardo di poiana, pelle di cera; lei stringe lo scialle nelle spalle, lui sfiora il baffetto, sembrano essere James Joyce (1882 – 1941) e Katherine Mansfield (1888 –  1923); chissà di cosa parlano, intanto s’incamminano, l’uno accanto all’altra, nei sentieri del racconto.

Per Katherine e James, l’arte del rappresentare si raccoglie intorno ad oggetti sempre diversi che subito si fanno simboli per rivelarci quel che è nascosto, profondo. Ma occorre scavare a mani nude sotto la neve perché, nei racconti della Mansfield come in quelli di Joyce, si ha la sensazione che nulla accada.

Immaginavo Katherine sulla spiaggia di Piha, in Nuova Zelanda, là dove il suono delle onde dell’amica Virginia1si confonde alle note del pianoforte di Jane Campion2. La pensavo così, Katherine, con la stilografica tra le dita a dipingere il cielo d’un azzurro chiaro, tratteggiare paesaggi, fiori, dolci gorgoglii tra sassi di mare:

Casa sulla spiaggia da At the Bay, Wellington, ph. Maggie Rainey Smith

Ah-Aah! sounded the sleepy sea. And from the bush there came the sound of little streams flowing, quickly, lightly, slipping between the smooth stones, gushing into ferny basins and out again; and there was the splashing of big drops on large leaves and something else–what was it? — a faint stirring and shaking, the snapping of a twig and then such silence that it seemed some one was listening.3

Percepibile nella versione originale, l’autrice crea un effetto sibilante attraverso la reiterazione del suono della “S” che si unisce ad un gioco di assonanze per ottenere uno straordinario riverbero musicale comparabile forse all’antico suono della Kalimba.

Come in “Mrs. Dalloway” (1925) della Woolf o in “Ulysses” (1920) di Joyce, anche in “At the Bay” (1922) della Mansfield, l’azione si svolge in un’unica giornata ma, in effetti, manca, qui, una vera e propria trama; i Burnells e i Trouts sembrano latitare, spingersi leggeri tra prati in fiore e corse in mare: tutto accade per non accadere, è questa l’epifania, la rivelazione.

Mentre in “At the Bay” l’autrice sembra incantata dai suoni della baia come mare in una conchiglia, Il racconto “Prelude” (1920) si apre, invece, con Kezia e Lottie, due bambine, ma è sulle figure femminili della generazione precedente, Linda e Beryl, che si concentra l’attenzione. Linda ha un marito, una casa e dei bambini di cui uno in arrivo; Beryl, la sorella non sposata, invece, cresce sempre più in amarezza per la mancata realizzazione sentimentale. In realtà, Beryl aspira a realizzare il suo sogno d’amore: “a new, wonderful, far more thrilling and exciting world than the daylight one”4 ma, quando Harry Kember le propone di uscire, si ritrae, terrorizzata, non riuscirà ad oltrepassare il cancello di casa: è questa la svolta mancata.

Con Beryl che indietreggia davanti ad una piccola pozza di buio: ‘ a little pit of darkness’, il pensiero corre veloce a Eveline in “Dubliners” (1914) di James Joyce; anch’ella, come Beryl, ha l’opportunità di cambiare la vita, ma alla resa dei conti si dimostrerà incapace di abbandonare la routine familiare.

“She stood up in a sudden impulse of terror. Escape! She must escape! Frank would save her. He would give her life, perhaps love, too. But she wanted to live. Why should she be unhappy? She had a right to happiness. Frank would take her in his arms, fold her in his arms. He would save her”5.

Quando Frank le urlerà di seguirlo, Eveline sarà come paralizzata, “i suoi occhi non gli dettero il minimo segno d’amore o di addio o di riconoscimento.”6

Si dispiegano come sete fruscianti le vite interdette nella silloge Joyciana; nel racconto d’apertura: “The Sisters”, l’attenzione sembra concentrarsi sul paralitico Padre Flynn, eppure il titolo suggerisce che la paralisi sia estesa anche alle sorelle le quali proprio per favorire il fratello James, la sua formazione religiosa e la carriera, conducono una vita non soltanto povera ma anche ingrigita dalle convenzioni sociali che le vogliono non realizzate, in una parola, represse.

Incapace di mutare direzione è anche Jonathan Strout in “At the Bay”: pur sentendosi prigioniero di un lavoro del quale vorrebbe liberarsi, Jonathan, resta seduto sul trespolo a scarabocchiar registri: “Tell me, what is the difference between my life and that of an ordinary prisoner? The only difference I can see is that I put myself in jail and nobody’s ever going to let me out.”7

E come dolce sciacquio, torna alla memoria Little Chandler, in “A little Cloud” di Joyce: qui, il protagonista è consapevole di non poter trasferirsi altrove poiché Londra o Parigi sarebbero ugualmente deludenti per lui. L’epifania del Piccolo Chandler è, dunque, in una nuvoletta da cui cadono soltanto poche gocce sopra la sua desolata esistenza che neppure la nuova paternità riuscirà a ravvivare, anzi sarà motivo di frustrazione.

Ed ecco che, sia nella Mansfield che in Joyce, il senso sembra mancare, ma quel che pare sfocato, in realtà, è ben delineato, quel che appare superficiale, è profondo perché la fuga è la soluzione cui tendono i personaggi come lontano miraggio nel deserto.  

Memoriale a Katherine Mansfield

In “At the Bay”, Kezia vuol che la nonna non la lasci mai: “Promise me! Say never”8. Ma il tema della morte non viene in realtà affrontato; i personaggi rasentano il baratro per poi finire in una bolla di risa e scherno. “Say never, say never, say never, gurgled Kezia, while they lay there laughing in each other’s arms”9. Così è anche in “The Garden Party” (1921) in cui una giornata ideale per una festa in giardino sembra inficiata dalla improvvisa morte del vicino, ma la festa si terrà e Laura, di ritorno dalla casa del defunto, asciugherà le lacrime sfiorando un senso di gratitudine per la vita.

di Giuliana Sonnante

È comprensibile che la Mansfield sfiori soltanto il tema della morte se consideriamo che ella combatte strenuamente contro la tubercolosi. Lo sentiamo nell’amore che prova osservando la vita in tutte le sue più piccole manifestazioni prima di farne parola, disciplinata scrittura. Lei che vuole solo vivere al sole della sua baia e scrivere senza preconcetti. Così Pietro Citati:

Sebbene la tisi non le appartenesse, aveva compreso che la malattia era la condizione più adatta allo scrivere: le faceva sentire acutamente come tutte le cose passino troppo presto: rendeva le figure ricche, importanti e desiderate, come quando un bambino malato è chiuso in esilio nella propria stanza, mentre dalla porta e dalle finestre penetrano i rumori, il frastuono e le luci, tutto quello che accadeva oltre era meraviglioso. […] “Ogni artista” annotò sul diario “si taglia un’orecchia e la inchioda alla porta, perché gli altri vengano a gridarci dentro10

Se la morte s’allunga come ombra fastidiosa, un’apparente immobilità distingue anche “A Man Without a Temperament “in cui un uomo senza carattere sembra essere alle dipendenze di una donna bisognosa d’assistenza pur essendone, in realtà, il marito. Così Robert, marito di Jinnie, non fa che rigirare l’anello al dito in attesa del successivo comando. “He stood at the hall door turning the ring, turning the heavy signet ring upon his little finger while his glance travelled coolly, deliberately, over the round tables and basket chairs scattered about the glassed-in veranda”11. Ma se il lettore non riesce a simpatizzare col protagonista che appare “stiff”, rigido, come il braccio su cui Jinnie si poggia, la narrazione sembra mossa dal ricordo di Londra che coincide per Robert con la vita. Ma il protagonista non cambierà il suo atteggiamento, si desterà ad ogni scalpiccio della moglie pur essendo da lei spiritualmente distante. Crescerà, certo, il suo discontento, straordinaria è la capacità di rendere la tensione psicologica del protagonista, ma non si ha la sensazione che egli possa mutare la sua posizione. Una costante dei racconti della Mansfield è forse proprio la sospensione; l’autrice non cerca un lieto fine come spesso accade nei romanzi ottocenteschi, ma lascia il lettore sospeso, incerto sulla soglia del racconto.

Il cielo è carico di neve mentre Katherine e James s’incamminano verso la strada collinare di Maze Hill che delimita il confine orientale di Greenwich Park. James sistema il borsalino sulla testa di lei per ripararle il capo e intanto non può non pensare a Michael Furey, morto per amore della sua Gretta: il primo amore di cui suo marito Gabriel non sapeva e che forse così intenso non aveva mai vissuto. Non può non pensare alla sua gente, alla gente di Dublino, paralizzata dalla spessa coltre delle abitudini, delle convenzioni sociali, della ritualità delle feste religiose sempre uguali a loro stesse.

“C’era neve dappertutto in Irlanda, cadeva ovunque nella buia pianura centrale, sulle nude colline; cadeva soffice sulla palude di Allen e più a ovest sulle nere, tumultuose onde dello Shannon. Cadeva in ogni canto del cimitero deserto, lassù sulla collina dov’era sepolto Michael Fury. S’ammucchiava alta sulle croci contorte, sulle pietre tombali, sulle punte del cancello, sugli spogli roveti. E la sua anima gli svanì adagio adagio nel sonno mentre udiva lieve cadere la neve sull’universo, e cadere lieve come la discesa della loro estrema fine sui vivi e sui morti.“12

È calda la neve per Gabriel perché egli è forse l’unico a destarsi dal lungo sonno nel quale Dublino è piombata. E la calda neve, mi riporta a quello straordinario ossimoro che brucia sotto un candido oblio:

Winter kept us warm, covering

Earth in forgetful snow, feeding

A little life with dried tubers13.

Castello di Vanbrugh 1699-1712

Presso il castello di Vanbrugh, in lontananza, Katherine e James si fanno invisibili all’orizzonte, ma, di certo, giganti tra le pagine mentre, uscendo dalla stazione di Maze Hill, mi ritroverò in Tom Smith Close e da lì potrò percorrere la strada in discesa e raggiungere Trafalgar Road…

Giulia Sonnante


1. Virginia Woolf (1882-1941)

2. Jane Campion, regista, sceneggiatrice e produttrice neozelandese nasce a Wellington il 30 aprile 1954

3.[Ah – Aah! Echeggiò il mare tranquillo. E più in là da quel cespuglio giungeva il suono di ruscelletti che scorrevano veloci, leggeri, scivolando tra sassi levigati per riversarsi in bacini di felci e poi, di nuovo, zampillare; ed il tuffarsi di grandi gocce su ampie foglie e ancora—- cos’era? Qualcosa si agitava debolmente e crepitava, lo spezzarsi d’un ramoscello e poi un tale silenzio che sembrava qualcuno stesse ascoltando”] traduzione di chi scrive: K. Mansfield, The Garden Party and Other stories, Penguin Twentieth Century Classics, London, 1997 p. 5.

4. [Un mondo nuovo, meraviglioso, di gran lunga più emozionante ed eccitante della luce odierna] traduzione di chi scrive.

5. [Balzò in piedi spinta da un terrore improvviso. Fuggire! Doveva Fuggire! Frank l’avrebbe portata in salvo, le avrebbe dato la vita e forse anche l’amore. Lei voleva vivere davvero. Perché avrebbe dovuto essere infelice? Aveva diritto anche lei alla felicità. Frank l’avrebbe presa tra le braccia, l’avrebbe stretta: l’avrebbe salvata.] Trad. di Attilio Brilli in J. Joyce, Gente di Dublino, Classici Mondadori, Milano, 1987.

6. Ibid. pag. 33.

7. K. Mansfield, in op. cit. [“Dimmi, quale differenza c’è tra la mia vita e quella di un comune prigioniero? L’unica differenza che riesco a vedere è che sono io stesso a mettermi in prigione e mai nessuno mi tirerà fuori da lì] trad. mia p. 31

8.K. Mansfield, in op. cit. [Promettimelo, di’ mai] p. 23. Traduzione di chi scrive

9. Ibid. [di’ mai, di’ mai, di’ mai barbugliò Kezia mentre restavano lì a ridere ognuna nelle braccia dell’altra] p. 23 traduzione di chi scrive.

10. Pietro Citati, Vita Breve di Katherine Mansfield, Adelphi Edizioni, Milano, 2014 p. 83-4.

11. A Man Without a Temperament (1920) il racconto in formato digitale è disponibile sul sito della Katherine Mansfield Society http://www.katherinemansfieldsociety.org [stava all’entrata della hall, rigirando l’anello, rigirando il pesante anello con sigillo, intorno al dito mignolo, mentre il suo sguardo vagava freddamente, deliberatamente, sui tavoli rotondi e sulle poltroncine di vimini sparpagliate intorno alla veranda vetrata. ] p. 1. Traduzione di chi scrive.

12. James Joyce Gente di Dublino, Oscar Mondadori, Milano, 1987 – I Morti –  p. 208 nella traduzione di Attilio Brilli.

13.T.S. Eliot, La sepoltura dei morti in “La terra desolata” 1922 [L’inverno ci mantenne al caldo, ottuse / con immemore neve la terra, / nutrì Con secchi tuberi una vita misera] traduzione di Roberto Sanesi, in La terra Desolata Classici Moderni, Rizzoli, Milano, 2013

MARIE CARDINAL: LE PAROLE PER DIRLO

 Dagli anni ’70 dello scorso secolo e per i decenni ’80 e ’90 si è avuta, in Italia, una ricca produzione di pensiero intorno al tema della differenza sessuale. Momento centrale la pubblicazione di Speculum testo scritto da Luce Irigaray nel 1974, pubblicato in Italia da Feltrinelli con introduzione di Luisa Muraro che pubblicherà, in seguito, l’Ordine simbolico della madre edito da Editori Riuniti. Queste pubblicazioni attivano pratiche di lavoro intellettuale e politico che hanno consentito forti avanzamenti di consapevolezza all’interno del patrimonio culturale lasciato nel corso dell’intero ‘900 da scrittrici e artiste ancora oggi non del tutto conosciute. Il lavoro di produzione teorica e pratica fondato in quei decenni è stato in forte relazione con quanto accadeva, nello stesso settore, sia in altri paesi europei che in America del Nord.

In letteratura molti i passaggi significativi. Centrale la figura di una grande intellettuale francese: Marie Cardinal (1929 – 2001). Esce in Italia, edito da Bompiani, nel 1988, Le parole per dirlo. Un romanzo di cui dovremmo continuare/tornare a parlare. 

Una figlia non voluta ricostruisce la propria storia forando i pensieri e i desideri di una donna bigotta a cui rinfaccia la “carognata”: è sua madre che ha tentato in più modi l’interruzione di gravidanza ma ne è stata impedita dalle proprie credenze religiose. Non avendo potuto portare a termine il proprio progetto, la madre ha trasmesso sentimenti negativi nei confronti della figlia lasciandole rasentare la follia. Sul e dal bordo della follia si apre il romanzo che inizia con la narrazione di una giovane donna la quale scava in sé, nella bambina che è stata, il senso e i segni del rifiuto materno. Le pagine del romanzo scorrono dense mostrando pieghe mai, sino ad allora, così magistralmente esplorate dell’animo femminile.

È un romanzo autobiografico il cui tratto fondamentale è una maestria unica nel saper narrare il dolore e le modalità attraverso cui, esso, può piegare e piagare una donna. La protagonista rende conto di anni e anni di percorso analitico, anni in cui si riappropria della scrittura la quale diviene elemento centrale della propria rinascita. La donna inizialmente piegata, commiserata, ormai nullità di sé diventerà una donna libera e coraggiosa capace di lasciarsi alle spalle una morte simbolica per entrare nel proprio principio vitale sorretta da un progetto esistenziale che la renderà unica.

Una profonda sapienza letteraria consente a Marie Cardinal di tenere le pagine in una narrazione che è puntuale resoconto di vita e sismografo di un rivolgimento esistenziale inaudito. La capacità di Cardinal di trasformare il linguaggio rendendolo vero perché, ri-fondato su un contatto profondo con il proprio corpo, corpo di donna porta la dinamica della storia a far chiudere alla figlia il senso di lacerazione nei confronti della madre ed incamminarsi verso un arduo percorso di perdono che spezza la reiterazione dell’odio tra madre e figlia. Il lavoro porta la figlia a potersi liberare cosa che, la madre, non era riuscita a fare impigliata tra morale borghese e rete patriarcale. Il romanzo ha rappresentato un forte e deciso passaggio nei confronti del rifiuto di un linguaggio capace di mostrare solo la miseria simbolica del femminile. “Le parole per dirlo” sono le parole che servono a dire l’esperienza di donne a partire dalla loro relazione con la materialità dell’esistenza e con il proprio corpo.

Le parole per dirlo sono le parole che una donna sa far nascere per dire il proprio rimosso, la propria zona di silenzio e di ombra. Attraverso il lavoro di scrittrice, Marie Cardinal propone un modo assolutamente nuovo di rendere dicibile l’esperienza femminile rifiutando ogni linguaggio specializzato che cancella la differenza portando il femminile nell’alveo del neutro ossia dell’ordine dato. Marie Cardinal continuerà lungo tutto l’arco della propria attività di scrittrice questo lavoro di pungolo e reinvenzione del linguaggio stanando l’inespresso, sostenendo l’essenziale affinché il dono fatto dalla madre possa mostrarsi nello spiegamento della propria potenza: una madre dà non solo la vita alla propria creatura ma, contestualmente, la mette in condizione di parlare. Il dono del linguaggio resta l’alveo del patrimonio simbolico di cui ognuna deve poter comprendere e vedere grandezza e forza di nutrimento.

“… L’incontro con i miei primi veri difetti mi dava una sicurezza che non avevo mai avuta. Essi mettevano in risalto le mie qualità che scoprivo contemporaneamente e che m’interessavano di meno… I miei difetti erano dinamici. Sentivo molto profondamente di volta in volta che li riconoscevo, che diventavano strumenti utili…Non si trattava più di respingerli, o di sopprimerli, e ancora meno di averne vergogna, ma di domarli e all’occorrenza di servirmene…”1

L’attualità della lezione di Marie Cardinal non è ancora esaurita. Essa parla da un’altezza che non era stata raggiunta. Venire a capo della perdita di coscienza, dell’annullamento trovandone parole e tessiture è mettere al mondo il mondo, ancora.

Anna Rita Merico


  1. Marie Cardinal, Le parole per dirlo, Bompiani 2014, pg. 203