LA QUESTIONE OCCIDENTALE (in un saggio ed un romanzo)

Più che una crisi, siamo di fronte alla radicale messa in discussione di un modello, di un orizzonte culturale ben preciso, una sorta di redde rationem della storia e della natura.

Quando penso al periodo che stiamo attraversando, non posso evitare di figurarmi una crisi persistente, segnata da problemi grandi e piccoli, dai drammi privati alle pubbliche catastrofi, dalla precarietà quotidiana di una macro e microeconomia in perenne affanno alla crisi climatica globale, dallo sfaldamento digitale delle relazioni umane a quello ben più concreto della terra che frana alluvione dopo alluvione. Eppure, il concetto di crisi mal si attaglia ad avvenimenti che si ripropongono puntualmente o a drammi che come una marea montante, segnano una permanenza continua nella nostra storia collettiva.  Bisognerebbe pensare piuttosto ad un piano inclinato lungo il quale stiamo inevitabilmente scivolando, o – come in molte guerre contemporanee che si trascinano in stallo da decenni, ad una sorta di “crisi a bassa intensità” da cui sembra impossibile trarsi d’impaccio, ad un bradisisma piuttosto che ad un terremoto. Più che una crisi, siamo di fronte alla radicale messa in discussione di un modello, di un orizzonte culturale ben preciso, una sorta di redde rationem della storia e della natura nei confronti della spinta innovatrice, trasformatrice e (spesso ahimè), distruttrice, propria di una certa “visione del mondo” che da Darwin in poi ha esercitato, tra alti e bassi, una indiscussa egemonia attraverso il pensiero occidentale.

Sono talmente preso dall’argomento che spesso mi capita di cercare in qualsiasi circostanza personale, episodio di cronaca o fatto “culturale”, le tracce più inapparenti dell’avvitamento in cui siamo precipitati. Sarà forse per questo che la ricerca dei segni del declino (o di una spiegazione delle sue ragioni) finisce per farmi approdare alla letteratura, nel tentativo di individuarne segni premonitori, elementi esegetici, situazioni esemplari: saggi e romanzi sono un terreno fertilissimo, in tal senso. Propongo dunque due libri che, pur nella loro siderale distanza cronologica, stilistica e tematica, rappresentano punti di vista illuminanti sulla questione occidentale: il primo è il romanzo “Padri e figli” di Ivan Sergeeviĉ Turgenev (edizioni Einaudi 1998, con introduzione di Franco Cordelli e traduzione di Giuseppe Pochettino) ed il secondo è il saggio “California, la fine del sogno” del giornalista e scrittore Francesco Costa (Mondadori Strade blu 2022).

“Padri e figli”, pubblicato da Turgenev nel 1862, all’indomani della formale abolizione della servitù della gleba in Russia, è la storia dei rapporti contraddittori, spesso conflittuali, tra il mondo dei giovani post-romantici e proto-rivoluzionari, i cosiddetti “nichilisti” e quello dei maggiorenti di campagna, che potremmo definire piccolo-aristocratici. In un intreccio che dipana con magistrale semplicità, senza gli artifici analettico-prolettici tanto cari ai narratori contemporanei, Turgenev narra gli ultimi mesi di vita del giovane Bazarov, figlio di un umile medico di campagna e convinto assertore dei principi darwiniani delle scienze naturali e sperimentali e della loro applicazione per così dire, “panica” a qualunque aspetto della vita umana.

L’attitudine di Bazarov a guardare alle cose ed alle persone nella loro cruda oggettività, ad analizzare tutto e a non “credere” in niente (niente che sia precostituito rispetto ad un pensiero critico-scientifico) ha come inevitabile conseguenza di espungere dalla realtà che lo circonda, criticandoli ferocemente, tutti gli elementi di retorica romantica, spiritualità religiosa o semplice faciloneria credulona e tutta l’impalcatura tardo-aristocratica della società russa che la cristallizza in una amalgama vetero-feudale o. E’ in questi termini che Bazarov liquida la slavofilia e il decadentismo finto-blasè del suo antagonista naturale, Pavel Petroviĉ Kirsanov, zio del suo amico Arkadij ed ospite del fratello Nikolaj Petroviĉ nella tenuta di Mar’ino. Lo zio Pavel è quanto di più distante si possa immaginare dal naturalista Bazarov, che appena arrivato subito comincia “ad andar per rane” e recuperare altri anfibi ed insetti utili per dissezioni e studi al microscopio. Straordinariamente bello ed affascinante, bon vivant formatosi nel corpo dei paggi, Pavel Petroviĉ Kirsavon incarna per contro, quel certo spirito aristocratico conservatore e decadente, quell’indolenza tipica dei ricchi sofisticati e delicati, non priva di slanci di generosità sorprendente o di impeti di indignazione profonda. Sarà lui infatti a sfidare a duello Bazarov, reo di aver insidiato la giovane moglie del fratello, di cui lo stesso Pavel era segretamente innamorato.

Io sono arrivato a considerare i duellanti del romanzo in chiave metaforica: l’uno, il nichilista, portatore di valori profondamente occidentali, l’altro, lo slavofilo, protettore del senso comune e dello status quo. Per Bazarov “la natura non è un tempio, ma un’officina e l’uomo in essa è un operaio” e parlando all’amico Arkadij di suo padre Nikolaj, pur definito una brava persona, lo considera un “rudere” e consiglia a suo figlio di fargli leggere Büchner piuttosto che Puskin. Eppure nonostante l’apparente forza e coerenza della sua figura e l’insolente sciatteria comportamentale che nulla riconosce al bon ton e all’etichetta, serpeggiano in Bazarov pulsioni contraddittorie. Nel declinare il suo “credo” nichilista, egli infatti finisce per professare una sorta di fede idealista di stampo positivistico, che implica un radicale sovvertimento della società, implicito nella sua visione. A Pavel Petroviĉ che lo provoca. “Dunque secondo voi non c’è differenza tra l’uomo stupido e quello intelligente, tra l’uomo buono e quello cattivo”, il nichilista risponde “Si che c’è: come tra un malato ed un sano […] Noi conosciamo ad un dipresso da che cosa provengano le malattie del corpo; e le malattie morali provengono dalla cattiva educazione, da tutte le sciocchezze di cui si riempiono le teste della gente sin dall’infanzia, dallo scandaloso stato sociale delle cose, insomma. Correggete la società e malattie non ce ne saranno più”. Bazarov, muovendosi tra le tenute nella campagna russa, viene lentamente imbrigliato nei suoi ritmi cadenzati (“come se si andasse sulle rotaie”, sostiene), così diversi dai suoi studi febbrili e dalle scorribande nel ricco e straordinario laboratorio a cielo aperto della natura. E viene infine ammaliato dalla proprietaria di un latifondo vicino a quello del suo amico, una donna non priva di fascino, curiosa e sofisticata, intelligente ma fredda, la Odincova, che come lui è incapace di nutrire sentimenti “romantici” e che proprio per questo lo ammalia quasi senza volerlo fino a farlo capitolare, ma senza poter ricambiare l’innamoramento che in Bazarov è sorprendentemente sbocciato per lei.

Il figlio nichilista e progressista della Russia tardo-ottocentesca (un figlio illegittimo, per così dire) finisce per essere vittima di tutti i padri in cui si imbatte e di tutto il paternalismo pressappochista, inconcludente e romantico che propugnano, comprese le cattive condizioni igieniche dei borghi rurali e l’arretratezza degli strumenti medici a disposizione. Eppure la società che “il nichilista” aspira così tanto a cambiare ha un suo intimo e sfuggente equilibrio, inconcepibile agli occhi razionalistici dell’occidente innovatore e radicale rappresentato da Bazarov, eppure operante e cogente.

Franco Cordelli, nella sua prefazione (Il gigante di Turgeneev) si dice “contagiato […] dal suo eroe, da Bazarov o, se si preferisce, bazarovista”. Cordelli, citando Il saggio di Vittorio Strada “Leggendo padri e figli” (1969), sottolinea che “Il Turgenev tragico concepisce un eroe rapace, la cui rapacità è tuttavia all’altezza del suo rifiuto: in Bazarov convivono i due modelli mitico-lettarari dell’autore, Amleto come forza centrifuga della natura (il suo egoismo) e don Chisciotte come forza centripeta (tutto ciò che si sostenga a un’idea)”. Aggiungo che il parallelismo con modello letterario di Don Chisciotte è incardinato anche in un certo grado di velleitarismo e di squilibrio mentale: lo squilibrio proprio di chi immagina un mondo che non esiste più o di chi –ed è il caso di Bazarov, immagina un mondo che non c’è ancora.

Ed è proprio intorno al nodo nevralgico dell’equilibrio, o meglio della sua perdita, che si svolge la riflessione critica contenuta nel saggio “California, la fine del sogno” di Francesco Costa. Esempio di squilibrio su vari piani (politico-amministrativo, abitativo, ambientale, culturale e sociale), la California della fine del sogno, il bastione più a occidente di tutto l’Occidente (e non solo sul piano geografico), emerge in tutte le sue enormi contraddizioni.

La California a cavallo del XX-XXI secolo si pone agli antipodi della campagna russa descritta da Turgeneev e capace di soffocare le ambizioni radicali e riformatrici di Bazarov. Eppure negli ultimi trent’anni, a fronte di una inarrestabile crescita economica e di una indubbia egemonia culturale (dalla Silicon Valley ad Hollywood), il modello californiano è in crisi. E lo è in forza di una sostanziale inettitudine all’auto-critica ed all’auto-rettifica.

Il saggio parte da un dato inoppugnabile: la crisi demografica. La popolazione della California decresce inesorabilmente da diversi anni e Costa ne analizza le cause. I prezzi delle abitazioni in vendita ma anche in affitto sono alle stelle, a causa della spinta che l’economia digitale (e prima ancora quelle petrolifera e cantieristica civile e militare, così come quella legata all’industria dell’intrattenimento) ha dato al valore degli immobili e delle città in cui sono ubicati. Ma a ben guardare ci sono altre e più sottili ragioni a spiegare il fenomeno. Ragioni politico-culturali. A cavallo degli anni 60-70 del ‘900 la resistenza all’emancipazione degli afroamericani si riposizionò sulla promozione di politiche presentate come approcci pragmatici per la risoluzione dei problemi. “Non bisognava più parlare di bianchi e neri, bensì di tasse e scuola”. E così proposte quali tagli fiscali, disinvestimento sul trasporto pubblico ed introduzioni di requisiti sempre più stringenti per poter votare, finivano per rafforzare il potere dei bianchi, il cui modello diventava il solo riferimento possibile, anche in ambito abitativo. Vivere in villette monofamiliari con giardino annesso era una soluzione apparentemente rispettosa dell’ambiente ma in realtà foriera di uno spropositato consumo di suolo e di un progressivo e irregolare allontanamento dei residenti dai centri urbani, con la inevitabile conseguenza di un uso sempre più estensivo dell’auto per recarsi al lavoro.  Il risultato è stato la creazione di enormi conurbazioni (si pensi a Los Angeles), che nonostante il fenomeno della “gentrificazione”, hanno portato alla creazione di ghetti e quartieri “off-limits”, terre di nessuno popolate da senza tetto, delinquenti comuni e tossico-dipendenti, dove spaccio, violenza e prostituzione sono la regola. Ma se di fatto la rete protettiva dello stato sociale è ridotta all’osso per questioni ideologiche di preminenza dei diritti individuali, allora è facile capire come nelle città californiane si possa passare, da un giorno all’atro, dagli altari alla polvere. Letteralmente. Basta una comunicazione unilaterale di aumento del canone di affitto o la perdita del lavoro (anche solo temporaneamente), o difficoltà esistenziali, sicuramente acuite dal mantra del successo, dall’etica del sogno da concretizzare ad ogni costo. Basta poco, insomma, e ci si ritrova per strada nel girone infernale di quartieri come   Skid Row a Los Angeles e Tenderlion a San Francisco: abbrutimento totale, fame, tossico-dipendenza e traumi psichici indelebili sono i lasciti di queste squallide sentine dalla società californiana.  Eppure in quello Stato la “sinistra” dei democratici duri e puri non perde un’elezione da decenni. Ma anche il monopolio del potere teoricamente contendibile, a ben vedere, finisce per diventare un problema, un problema di inadeguata selezione della classe politica, di ideologizzazione estrema delle tematiche, di mancanza di una salutare alternanza di governo, con tutte le relative incrostazioni politico-burocratiche che ne derivano.  Se è inconcepibile per di democrats che la gente viva negli appartamenti e non piuttosto nelle villette, è altrettanto inconcepibile che gli homeless vengano accolti in dormitori. Questi rappresentano normalmente il primo passo della strategia canonica per un ritorno nella società civile, supportato parallelamente da un percorso di sostegno socio-psicologico. Ma una strategia del genere è lunga, complessa, dispendiosa sul piano economico e dagli incerti risultati pratici. I dormitori, d’altra parte, sono luoghi ben evidenti e riconoscibili. Meglio allora affidarsi alla strategia “housing first” che prevede lo spostamento diretto dei senza-tetto dalla strada ad appartamenti da gestire in autonomia, concessi gratuitamente e senza condizioni (compreso l’obbligo di sottoporsi a cure e terapie). Soluzione apparentemente semplice (nei fatti inefficace) di un problema complesso. D’altra parte, se la Coalition on Homelessness, principale organizzazione a difesa delle persone senza tetto a San Francisco, che ha grandissima influenza sul budget reso disponibile dalla città, si oppone alla costruzione di dormitori e rifugi sostenendo che “la casa è un diritto umano ed i senzatetto chiedono casa e non rifugi”, si può ben comprendere fino a che punto arrivi il grado di ideologizzazione deteriore che blocca l’attivazione di soluzioni pratiche e il miglioramento dei servizi sociali.

Il saggio di Costa analizza anche i problemi culturali che il vertiginoso sviluppo della Sylicon Valley ha prodotto in California.  Lo spirito pionieristico della corsa all’oro di fine ottocento s’è riproposto nella corsa al digitale ed ai suoi servizi che ha letteralmente rivoluzionato il nostro stesso approccio alla vita quotidiana.  

Chi ambisce ad essere protagonista del cambiamento in atto, è pronto a tutto: “un esercito di ragazzi e ragazze intelligentissimi, brillantissimi, studiosissimi, freschi di laurea oppure paralizzati in uno stato di post-adolescenza”, all’interno di aziende celeberrime (Alpabeth ovvero Google, Apple, Meta cioè Facebook, Instagram e WhatsApp, eBay, Adobe, Paypal, Oracle, Circle). “Fate come se per ognuna di queste aziende ce ne fossero altre mille che non avete sentito nominare […] con tutti questi soldi, grandinate di soldi senza senso, ormai in larghissima parte non americani, investimenti di sceicchi in fondi sovrani”. Ragazzi e ragazze con la testa piena di sogni verranno spremuti in queste realtà lavorative “dal costante prolungamento informale dell’orario di lavoro travestito da flessibilità e da aperitivi per fare networking […] e dal costante impegno politico ed intellettuale richiesto letteralmente per qualsiasi cosa”. D’altra parte, se è vero che Google è nata in un garage, i giovani attirati dalla mecca del successo digitale non si faranno problemi, con i costi esorbitanti degli affitti, a vivere in un garage. Come è ovvio, sono in pochissimi a farcela e in tantissimi ad abbandonare la Silicon Valley.

Costa si sofferma anche sulla precarietà del modello educativo californiano, che senza modificare radicalmente l’approccio classista tipico della scuola americana, ne ha neutralizzato gli elementi meritocratici in nome di un malinteso antirazzismo in salsa “politically correct”. Così facendo, gli studenti più socialmente disagiati come gli afroamericani o latino-americani non hanno tratto vantaggi dall’abolizione del sistema meritocratico del “tracking”; e quelli di origine asiatica o semita, facenti parte di minoranze in cui la cultura del “sacrificio premiante” è radicata nelle comunità, ne sono stati penalizzati.  Un livellamento verso il basso dell’istruzione, detto in altri termini.

Dal saggio emerge chiaramente come la California sia diventata un paese dal quale si tende ad andar via più che ad arrivare: politiche abitative disastrose, costo della vita improponibile, ideologizzazione estremistica sul piano politico e scarsa concretezza su quello amministrativo, inefficienza del sistema educativo, disarticolazione delle reti di relazione in una società che più liquida di così non potrebbe essere: insomma signore e signori, l’Occidente allo stato puro. Quell’occidente del progresso cui invece tanto aspirava (inconsapevolmente?) il personaggio di Bazarov, impegnato in una battaglia sempre più solitaria e disperata contro le incrostazioni di un sistema sclerotizzato che nel volgere di qualche decennio sarebbe drammaticamente imploso sotto i colpi della Rivoluzione. Un occidente che declina la parola progresso nella misura in cui porta all’abolizione dei tradizionali vincoli e riti sociali (tanto cari alla dimensione rurale della Russia di fine ottocento tratteggiata da Turgevev nel suo romanzo), quell’occidente estremo e fanatico in cui uno come Bazarov, così avulso dal contesto di arretratezza in cui si muove come un’eresiarca, sarebbe probabilmente approdato, se fosse esistita una sorta di “second life” dei personaggi inventati. Con la stessa spinta al cambiamento, lo stesso spirito anarcoide e sbarazzino, la stessa geniale insolenza di tanti ragazzi e ragazze che arrivano nella Silicon Valley. Ma anche con la stessa sottile inquietudine, lo stesso muto tormento di fronte al fallimento dei propri progetti, alla contraddittorietà dei propri sentimenti, la stessa fame di futuro lucida e folle propria di chi ha certo tipo di sogno, un sogno americano, un sogno  californiano, un sogno occidentale: in fondo, non è forse da quelle parti che qualcuno ha detto “Stay hungry, stay foolish”?

Gianpiero Berardi

THE LOBSTER

“L’uomo civile ha barattato una parte della sua possibilità di felicità

per un po’ di sicurezza.”

Sigmund Freud, Il disagio della civiltà, 1930

In un prossimo futuro non sarà più possibile essere single.

Oltre una certa età, infatti, i single verranno prelevati e rinchiusi in lussuosi hotel dove avranno 45 giorni di tempo per trovare la propria anima gemella altrimenti saranno trasformati in animali.

La ricerca del partner non sarà libera – i single, infatti, nella maggior parte dei casi hanno già scelto male e non potrà essere concessa loro ulteriore fiducia – ma dovrà essere fondata su delle affinità, fisiche o caratteriali, concrete e verificabili come ad esempio la condivisione della miopia, avere dei bei capelli, non riuscire a provare alcun sentimento o emozione, avere una bella voce, possedere una laurea in matematica…

La vita di coppia sarà così certificata in un’apposita documentazione che dovrà essere esibita durante i regolari controlli delle forze dell’ordine.

Quella appena descritta non è una sinistra profezia né tantomeno l’incubo che ho fatto ieri notte ma una visione del cineasta Yorgos Lanthimos tradotta nel suo film The Lobster – premio della giuria al festival di Cannes del 2015. Il film si inserisce nel solco delle cosiddette opere “distopiche” tracciato da illustri predecessori come l’ormai conosciutissimo 1984 di George Orwell.

Quando ci si imbatte in questo tipo di opere si rimane sempre un po’ spiazzati. Quello che scatta solitamente nella mente dell’osservatore è un meccanismo di associazione della dimensione distopica con quella fantascientifica e questo accostamento finisce col determinare una naturale distanza tra l’Opera e sé stessi che abbassa automaticamente il trasporto emotivo: “tanto non potrà mai succedere”, pensiamo, e così ci posizioniamo in una rassicurante confort zone da cui tutto ci appare come nient’altro che una strampalata allucinazione dell’autore.

Solitamente avviene questo – solitamente, appunto – ma non nel caso di The Lobster, che risulta invece inaspettatamente disturbante e capace di intaccare la sfera emotiva, instillare dubbi, corrodere le strutture delle nostre sicurezze.

E quindi anche se inizialmente lo etichetterete come astruso e bizzarro e tenderete a rilegarlo tra quegli oggetti poco interessanti che non meritano la vostra attenzione – e con esso probabilmente anche questo articolo – sono convinto che vi ritornerà in mente e vi ronzerà nella testa come una fastidiosa zanzara di cui sarà difficile disfarsi.

E questo perché non ci sono asini verdi che volano, zombie che imperversano nella notte o alieni in missione sul pianeta Terra ma uomini e donne, che lavorano, amano, pensano, hanno passioni, legami, paure, desideri e che si muovono all’interno di una società del tutto simile alla nostra. Presi singolarmente, non ci sono quindi elementi estranei o inverosimili, ciò che viene deformato è il senso dello stare insieme in una società che procede secondo direzioni che ci appaiono illogiche ma che il nostro sesto senso, in un certo qual modo, ci prospetta pericolosamente e potenzialmente vicine.

Come dire, la grammatica del vivere quotidiano rimane intatta e in tutto simile alla nostra, ciò che risulta contaminata e corrosa è la semantica: la battuta di caccia – che noi pensiamo come un’azione di uomini armati che vanno per boschi a cacciare animali – nel film acquisisce un significato altro, e cioè andare a caccia dei single ribelli asserragliati nei boschi per prolungare il proprio tempo di permanenza in hotel e avere così maggiori possibilità di trovare l’anima gemella (la cattura di un solitario, infatti, conferisce all’ospite un giorno in più in hotel).

Gli ospiti dell’hotel verso una battuta di caccia ai single ribelli

Ma perché arrivati a un certo punto uno Stato dovrebbe obbligarci a vivere in coppia?

Forse perché da anni le nascite, soprattutto nei Paesi ricchi, sono ormai pericolosamente in calo? Per garantire la sopravvivenza della specie umana? O per ragioni economiche? Si sa che la famiglia è l’unità di consumo standard per eccellenza e che buona parte dei prodotti in commercio sono pensati proprio per le sue esigenze…

Insomma, istillato il dubbio, la mente comincia a lavorare e non si ferma più e questo interrogarsi non fa altro che alimentare la sensazione che questo cattivo (dis) luogo (topia) possa essere in realtà molto più prossimo di quanto ci si possa aspettare. Chi di voi, nel 2019 – nel tempo della scienza e della tecnica – avrebbe mai osato pensare un mondo in ginocchio per un virus? Un simile scenario sarebbe stato sicuramente ricompreso tra quelle visioni distopiche proprie dei film o dei libri e invece sappiamo tutti com’è andata.

Al di là delle ragioni che potrebbero aver portato verso una simile realtà – il regista non le svela mai – il nucleo centrale della provocazione di Lanthimos, e della mia riflessione odierna, sta nella fotografia di una società soffocata dalle regole e imprigionata in una fitta tela di ordine e astrusa razionalità.

Il risultato è un mondo cupo e claustrofobico, fatto di uomini e donne estremamente tristi, che non ridono mai, disincantati e diffidenti, tutti nei confronti di tutti. Consapevoli di non poter dire e fare ciò che realmente pensano e vorrebbero rappresentano il sacrificio che la futura società ha deciso di immolare sull’altare di un nuovo ordine sociale, che tutto vuole progettare, controllare, verificare, persino i sentimenti, persino l’amore.

All’uomo di questo ipotetico futuro non è concessa nemmeno quella parte di felicità barattata a cui faceva riferimento Freud nella sua civiltà in disagio. E questo perché, forse, a furia di barattare felicità con i mille simulacri che la modernizzazione via via ci ha imposto, di quell’iniziale quota di felicità freudiana nulla sarà ormai rimasto.

Ancora vi pongo una domanda: siete sicuri di essere così lontani da uno scenario del genere?

È di qualche anno fa ormai un noto programma televisivo – Matrimonio a prima vista – in cui tre tecnici, una sessuologa, un sociologo e uno psicoterapeuta costruiscono a tavolino delle coppie, dopo aver analizzato i singoli profili dei partecipanti e ricavato dalle loro analisi addirittura, con precisione matematica, la percentuale di affinità e di successo. Le coppie così “artificialmente” create vengono poi fatte sposare senza essersi mai conosciute. Il risultato di questo folle esperimento sociale nascosto dietro al velo di Maya del grande schermo è nella quasi totalità dei casi un completo fallimento ma il tentativo di una decodificazione scientifica dell’amore rimane, è un dato di fatto ed è già in atto da anni.

Ma ritorniamo al film…

Gli istinti, i desideri, le libertà sono ancora possibili ma solo in un’altra vita, quella da animali, a cui saranno destinati i single al termine della propria permanenza in hotel. David – Colin Farrell, il protagonista del film – nel caso non riesca a trovare la sua anima gemella, sceglie una seconda vita da aragosta suscitando lo stupore della direttrice dell’hotel che incuriosita ne chiede le motivazioni. “Perché sotto la sua corazza dura nasconde una deliziosa polpa, può vivere fino a cento anni e ha il sangue blu ed è sempre fertile.” risponde David, lasciando, a dire il vero, l’amaro in bocca per la banalità delle sue affermazioni.

Se fossi stato io il regista avrei fatto rispondere a David:

“Un’aragosta, perché ha il cuore nella testa.”

Sarebbe stato questo l’estremo gesto eroico del protagonista per suggerire che la direzione verso la felicità e un’umanità che sembra ormai persa passa da un uomo in grado di ragionare col cuore.

Perché, piaccia o no, ci sono cose che solo il cuore conosce, segrete e inviolabili, ultime ed eterne colonne d’Ercole al cui cospetto ogni scienza e ogni azzardo umano dovranno riconoscere la propria miseria e inadeguatezza.

Trento Vacca

L’EREMITA IMPASTATA DI DIO

Adriana Zarri

Sono settimane che me lo chiedo: la poesia intesa come comunicazione, ha senso o no? Il suo “medium”, il mezzo attraverso il quale viaggia, è così impalpabile e fragile come solo la parola poetica può esserlo, eppure così formidabile. “Ho innalzato un monumento più friabile dell’arenaria” versificava Parronchi, facendo il contro-canto o meglio facendo   letteralmente “il verso” ad Orazio ed al suo “Ho innalzato un monumento più duraturo del marmo”. Ebbene, nonostante l’inconsistenza e l’impalpabilità del suo mezzo (la parola), nonostante l’indefettibile ambizione alla purezza, la poesia è una forma di comunicazione – così almeno ho concluso io, senza grande originalità e afferrando la coda di un treno la cui testa parte dagli anni 50-70 del 900 e da tutti i mostri sacri della semiotica attivi in quel periodo. Qualsiasi forma abbia – interlocuzione interiore che si regge sul filo esilissimo dell’autocoscienza simile più ad auto-intuizione che a vera e propria consapevolezza; oppure richiamo, anelito avverbiale ad un tu che diventa specchio e scandaglio; o ancora evocazione che si compie dentro un formulario orfico (o neo-orfico, fate voi); qualsiasi forma abbia – dicevo, la poesia non può non essere declinata se non sotto la specie di una particolare comunicazione.

All’interno di questa cornice comunicativa può essere collocata, per darne una valida traccia esegetica, l’esperienza poetica ed esistenziale davvero unica ed irripetibile di Adriana Zarri, teologa e suora laica che non solo parlava con Dio, ma che nel silenzio dei suoi eremi materiati di lavoro e silenzio, solerzia pragmatica e spiritualità teologica, gli scriveva. Ed il suo – “Tu”, quasi preghiere – edito da Lindau (2021) è una raccolta dove non ci sono “quasi poesie” ma soltanto vere poesie. Francesco Occhetto, che ha curato l’introduzione dell’opera, sottolinea come “in essa l’autrice esprime – con versi sensuali e dolci, violenti e teneri al contempo – i temi salienti della sua irregolare e sorprendente spiritualità” ed in proposito enuclea alcuni elementi, primo tra i quali il carattere “gratuito e creativo della preghiera”, come questi versi esemplificano:

Dona a ciascuno la sua parte

al prato l’erba

al fosso la primula,

al cipresso la bacca

all’estate i covoni

all’inverno la neve

al focolare il fuoco

ad ogni muro la sua lucertola

ad ogni tegola il suo muschio

ad ogni vicolo il suo gatto

ad ogni gatto il suo gomitolo

ad ogni attesa il suo ritorno

ad ogni uomo la sua donna

ad ogni morto la tua vita.

Il dialogo con Dio è colloquiale senza essere banale e si sostanzia della quotidiana materia del vivere, di una pienezza terrena mai completa perché alla continua ricerca del suo naturale compimento, che per un credente è in Dio. In tal senso, la tensione poetica della Zarri parrebbe tutta lirica, se per lirica intendessimo nei termini che Croce fissò nel suo saggio –Poesia e non poesia– “molteplicità che si raccoglie in unità, mondo esterno che si ritrova come mondo interno”. Tuttavia il percorso di incontro con il divino non è una semplice ricerca dei motivi di accordo che fanno risuonare all’unisono il respiro dell’io poetico con quello dell’universo, apparendo piuttosto come una strada piena di tensione spirituale in chiave religiosa e restituendo al lettore il tratto qualificante dell’esperienza dell’autrice. Quell’io infatti, in Zarri è non sono poetico ma anche convintamente mistico e trae la sua forza – creatrice sul piano poetico e speculativa su quello teologico, dalla convinta adesione al cenobitismo: è una parola che sgorga dal silenzio e dalla solitudine ed anche per questo riecheggia così nitidamente dentro di me.

A proposito di solitudine, la Zarri tiene molto a distinguerla dall’isolamento. In – Un eremo non è un guscio di lumaca- Einaudi 2011, l’autrice precisa:

«Qualcuno dice che mi sono “ritirata” in un eremo; e io puntualmente reagisco. Un eremo non è un guscio di lumaca, e io non mi ci sono rinchiusa; ho solo scelto di vivere la fraternità in solitudine. E lo preciso puntigliosamente per rispondere all’obiezione che concepisce questa solitudine come un tagliarsi fuori dal contesto comunitario. E invece no. L’isolamento è un tagliarsi fuori ma la solitudine è un vivere dentro […] la solitudine non è una fuga: è un incontro, così come il silenzio è un continuo, ininterrotto dialogo».

Nella solitudine non isolata dell’eremo la dimensione assoluta dell’incontro assume i connotati cosmici dell’esperienza mistica. Se infatti l’isolamento conduce ad un distacco dal mondo che può portare chi lo sperimenta ad un suo ostile rifiuto, la solitudine dell’eremo si fa spinta al confine o “vocazione della soglia” secondo la felice definizione di valentina Fiume, studiosa di alcune figure femminili del misticismo trasversale, tra cui la stessa Zarri.  La vita cenobitica è tutta una predisposizione, una trepidante attesa, dell’incontro con l’Altro nel luogo più intimo che si possa immaginare, ovvero l’interiorità del mistico, un luogo talmente purificato che vi si può riflettere l’intero creato. L’incontro intimo per antonomasia è quello amoroso e così la poetessa dà appuntamento all’amato Dio:

Aspettami sui prati

dietro alle siepi,

nei fienili vuoti

dove non c’è nessuno

che possa ridere di noi.

Aspettami nelle strade più remote,

sull’ultimo ciglio del giorno,

nel concavo buio della notte;

quando la gente è rincasata

e ha chiuso tutte le finestre.

Della silloge di Zarri mi ha colpito più di ogni altra cosa la forza erotica di alcune poesie, che è figlia dell’originalità eretica della sua concezione teologica. Permeata di un genuino fervore riformatore post-conciliare, la teologa arriva perfino a difendere, pur senza condividerla, la libera scelta di abortire della donna e lo fa argomentando che nelle sacre scritture non viene formulato alcun tipo di specifico divieto in proposito. In un’intervista concessa ad Enzo Biagi e reperibile sulle piattaforme digitali, afferma che “la sessualità è un valore che investe tutto l’uomo e al di là dei rapporti genitali, portatrice di grandi valori metafisici che passano attraverso la sessualità”, si dichiara “innamorata della sessualità perché è un amore in cui i valori fisici ed intellettuali si impastano e non possono essere puramente concettuali o puramente fisici”. E finisce per circoscrivere la verginità, definita un carisma, un “amore per l’amore”, chiarendo come la frigidità o la frustrazione sessuale di alcune religiose nulla abbiano a che vedere con questo carisma.

Il frutto più maturo di questa originale e sovversiva concezione del misticismo laico è la bellissima poesia “Dammi solo una rosa”, dopo la quale, com’è ovvio, per quanto mi riguarda non c’è più niente da aggiungere se non un infinito e profondo senso di gratitudine per quel che l’eremita impastata di Dio ha saputo donarci.  

DAMMI SOLO UNA ROSA

Dio senza nome

(e noi ti abbiamo nominato)

Dio senza volto

(e ti abbiamo dipinto)

Dio senza voce

(e ti abbiam fatto dire tante cose)

non dirmi nulla:

china soltanto gli occhi

come quando guardasti

Maria Maddalena;

e la sua carne

rifiorì di biancospino.

Dio parola

(e il tuo Verbo è il silenzio),

Dio silenzio

(e il tuo silenzio è la Parola),

non dirmi nulla;

dammi solo una rosa che si sfoglia,

e le albe pallide,

e i biancospini amari.

Dio senza tempo

(e ti abbiam fatto un calendario)

Dio senza luogo

(e ti abbiam fatto tante chiese)

dammi solo una rosa;

e si apriranno tutti i cieli,

e le stelle cadranno,

nelle mie mani,

come manciate di fiordalisi.

Dio senza mani

dammi solo una rosa.

La bacerò sui petali

come se fosse la tua bocca.

Dio senza bocca.

Gianpiero Berardi

Velo di Sposa

Velo di sposa

Portami da Milano

fino a Gerusalemme

per la luna di miele

di api colorate

che posano sui fiori

cresciuti nella guerra

un polline impazzito

che illumina la terra

Testo di Velo di sposa, canzone dei Radiodervish (1)

Esistono opere di straordinaria bellezza che non sono nelle parole dei libri né nelle raffigurazioni dei quadri, non tra le note di un pentagramma o nei marmi muti delle gliptoteche, né tra i colonnati delle chiese o nei fregi dei palazzi. Esistono opere che si risolvono nel gesto, il cui messaggio si consuma nello stesso momento in cui viene creato dall’artista, come fiamma che arde. Opere che non prevedono la loro conservazione, inafferrabili come il soffio del vento e imprevedibili come il volo di una farfalla.

Una sposa in viaggio, rigorosamente in autostop, da Milano a Gerusalemme, attraversando Slovenia, Croazia, Bosnia, Serbia, Bulgaria, Turchia, Libano, Siria, Egitto, Giordania, Israele, tutti Paesi che soffrono o che hanno sofferto la guerra.

La sposa, in questo percorso, si dona all’incontro con l’altro portando con sé un immaginario carico di significati positivi: femminilità, amore, gioia, purezza, vita. È questa l’opera pensata dall’artista, arte itinerante che esige vita ed esperienza per veicolare il proprio messaggio, un messaggio di pace, contro la guerra, contro ogni guerra.

L’artista pensa a tutto, ad ogni particolare, e allora tutto diventa simbolo…

Lungo il viaggio l’abito da sposa verrà indossato sempre, così come sempre verranno indossate le scarpe bianche con i tacchi, perché la costruzione della pace così come l’essere donna e madre comporta inevitabilmente sacrificio. Avrà una gonna a forma di giglio – simbolo di innocenza e di purezza per eccellenza – che sarà composta da 11 veli, come 11 petali, uno per ogni Paese attraversato.

Una mantella, che farà anche da velo e che verrà usata come copricapo nei Paesi islamici, servirà per asciugare i piedi delle ostetriche del posto quando la sposa rievocherà il gesto della lavanda dei piedi di Gesù. In questo nuovo e inaspettato frammento di Cena Domini che improvvisamente riemergerà potente dalla storia sarà una sposa, questa volta, a servire, a prendersi cura di chi fa germogliare la vita laddove gli uomini la spezzano con la guerra e con l’odio.

La sposa impegnata nella lavanda dei piedi ad un’ostetrica
(Fonte: Corriere della sera)

E quando l’abito si sporcherà verrà lavato con la liscivia, un detersivo naturale ricavato dalla cottura della cenere, non una qualsiasi, ma quella generata bruciando un libro, un articolo di giornale interessante, un indumento con una sua storia, una preghiera… insomma qualcosa in grado di arricchire l’abito di sostanza e significato, in modo che il lavare non sia solo azione di sottrazione ma di arricchimento.

Fotografie tagliate

in forma di stupore

son cibo prelibato

per angeli viaggianti

vittime destinate

da chi non sa capire che ha ricevuto rose

e le lascia morire1

L’autostop è scelta ponderata e naturale per l’artista, che vuole entrare in contatto con più persone possibili, di qualsiasi estrazione sociale. Perché il senso del viaggio, si sa, è nel viaggio stesso e in questo pellegrinaggio la sposa fa dono di sé, non può nutrire sentimenti di paura o di sconforto. Al contrario, si consegna, ripetutamente, nella fiducia di trovare nell’altro accoglienza e protezione. Pensa che in un modo o nell’altro la strada verrà percorsa e che la provvidenza le assicurerà sempre un passaggio.

“L’unica cosa che mi spaventa è il freddo… e le bestie feroci, ma dove vado non credo ce ne siano!” Aveva dichiarato l’artista prima di partire.

E così il diario del viaggio si arricchisce di volta in volta dei volti di camionisti e autisti, operai, manager, insegnanti, artigiani, commercianti che condividono con l’artista chilometri e parole, un tratto di vita, seppur breve, assieme. L’artista scatta foto a queste persone, poi ne ritaglia i volti e li incornicia, registrando anche la loro voce quando possibile.

Slovenia, Croazia, Bosnia, Serbia, Bulgaria, Turchia. Il 31 marzo del 2008 Murat Karatas dà un passaggio all’artista, si allontana dalla strada principale fino a raggiungere la località di Ballikayalar. Arrivato in un bosco la violenta e subito dopo la strangola cercando poi di seppellire malamente il corpo. Muore così Giuseppina Pasqualino di Marineo, in arte Pippa Bacca.

Restano le parole

e vuoti da narrare…

Ora di te mi parlerà

la Via Lattea

velo di sposa

la notte imbiancherà1

A questo punto ogni parola potrebbe risultare fuori luogo, poco opportuna, e sarei tentato di chiudere tutto, foglio e computer dal quale sto scrivendo per andare a piangere di fronte al cielo e maledire la carne di maschio che mi porto addosso.

Ma così facendo lo straordinario messaggio di pace dell’artista, in-compiuto e pensato in tutta la sua straordinaria bellezza ne rimarrebbe di nuovo oltraggiato, coperto dal silenzio che impone la morte e la vergogna. E non dev’essere così.

Voglio che il viaggio, il tuo viaggio, Pippa, continui.

Libano, Siria, Egitto, Giordania e finalmente Israele. Voglio che ad attenderti lungo la strada ci siano uomini buoni, che ti accolgano senza dire una parola, non una. E ti aggiustino il velo, sotto cui si scorge il tuo volto, sorridente e rassicurante. E in questo gesto di amorevole cura e in questo silenzio voglio che si riveli in modo dirompente e commovente la misura dello sconfinato mistero che la donna, la sposa, la pace è per l’uomo.

Trento Vacca


“Brides on tour – spose in viaggio – è stato un progetto realizzato nel 2008 da Pippa Bacca e Silvia Moro in collaborazione con Byblos Art Gallery di Verona. Pippa Bacca e Silvia Moro sono partite da Milano vestite in abito da sposa, attraversando in autostop la Slovenia, la Croazia, la Bosnia, la Serbia, la Bulgaria, sino ad arrivare in Turchia, dove il percorso è stato bruscamente interrotto dalla tragica morte di Pippa…” (Fonte: sito internet Pippa Bacca)

I Radiodervish hanno dedicato la canzone Velo di sposa contenuta nell’album Human del 2013 proprio all’artista milanese Pippa Bacca.

MARIE CARDINAL: LE PAROLE PER DIRLO

 Dagli anni ’70 dello scorso secolo e per i decenni ’80 e ’90 si è avuta, in Italia, una ricca produzione di pensiero intorno al tema della differenza sessuale. Momento centrale la pubblicazione di Speculum testo scritto da Luce Irigaray nel 1974, pubblicato in Italia da Feltrinelli con introduzione di Luisa Muraro che pubblicherà, in seguito, l’Ordine simbolico della madre edito da Editori Riuniti. Queste pubblicazioni attivano pratiche di lavoro intellettuale e politico che hanno consentito forti avanzamenti di consapevolezza all’interno del patrimonio culturale lasciato nel corso dell’intero ‘900 da scrittrici e artiste ancora oggi non del tutto conosciute. Il lavoro di produzione teorica e pratica fondato in quei decenni è stato in forte relazione con quanto accadeva, nello stesso settore, sia in altri paesi europei che in America del Nord.

In letteratura molti i passaggi significativi. Centrale la figura di una grande intellettuale francese: Marie Cardinal (1929 – 2001). Esce in Italia, edito da Bompiani, nel 1988, Le parole per dirlo. Un romanzo di cui dovremmo continuare/tornare a parlare. 

Una figlia non voluta ricostruisce la propria storia forando i pensieri e i desideri di una donna bigotta a cui rinfaccia la “carognata”: è sua madre che ha tentato in più modi l’interruzione di gravidanza ma ne è stata impedita dalle proprie credenze religiose. Non avendo potuto portare a termine il proprio progetto, la madre ha trasmesso sentimenti negativi nei confronti della figlia lasciandole rasentare la follia. Sul e dal bordo della follia si apre il romanzo che inizia con la narrazione di una giovane donna la quale scava in sé, nella bambina che è stata, il senso e i segni del rifiuto materno. Le pagine del romanzo scorrono dense mostrando pieghe mai, sino ad allora, così magistralmente esplorate dell’animo femminile.

È un romanzo autobiografico il cui tratto fondamentale è una maestria unica nel saper narrare il dolore e le modalità attraverso cui, esso, può piegare e piagare una donna. La protagonista rende conto di anni e anni di percorso analitico, anni in cui si riappropria della scrittura la quale diviene elemento centrale della propria rinascita. La donna inizialmente piegata, commiserata, ormai nullità di sé diventerà una donna libera e coraggiosa capace di lasciarsi alle spalle una morte simbolica per entrare nel proprio principio vitale sorretta da un progetto esistenziale che la renderà unica.

Una profonda sapienza letteraria consente a Marie Cardinal di tenere le pagine in una narrazione che è puntuale resoconto di vita e sismografo di un rivolgimento esistenziale inaudito. La capacità di Cardinal di trasformare il linguaggio rendendolo vero perché, ri-fondato su un contatto profondo con il proprio corpo, corpo di donna porta la dinamica della storia a far chiudere alla figlia il senso di lacerazione nei confronti della madre ed incamminarsi verso un arduo percorso di perdono che spezza la reiterazione dell’odio tra madre e figlia. Il lavoro porta la figlia a potersi liberare cosa che, la madre, non era riuscita a fare impigliata tra morale borghese e rete patriarcale. Il romanzo ha rappresentato un forte e deciso passaggio nei confronti del rifiuto di un linguaggio capace di mostrare solo la miseria simbolica del femminile. “Le parole per dirlo” sono le parole che servono a dire l’esperienza di donne a partire dalla loro relazione con la materialità dell’esistenza e con il proprio corpo.

Le parole per dirlo sono le parole che una donna sa far nascere per dire il proprio rimosso, la propria zona di silenzio e di ombra. Attraverso il lavoro di scrittrice, Marie Cardinal propone un modo assolutamente nuovo di rendere dicibile l’esperienza femminile rifiutando ogni linguaggio specializzato che cancella la differenza portando il femminile nell’alveo del neutro ossia dell’ordine dato. Marie Cardinal continuerà lungo tutto l’arco della propria attività di scrittrice questo lavoro di pungolo e reinvenzione del linguaggio stanando l’inespresso, sostenendo l’essenziale affinché il dono fatto dalla madre possa mostrarsi nello spiegamento della propria potenza: una madre dà non solo la vita alla propria creatura ma, contestualmente, la mette in condizione di parlare. Il dono del linguaggio resta l’alveo del patrimonio simbolico di cui ognuna deve poter comprendere e vedere grandezza e forza di nutrimento.

“… L’incontro con i miei primi veri difetti mi dava una sicurezza che non avevo mai avuta. Essi mettevano in risalto le mie qualità che scoprivo contemporaneamente e che m’interessavano di meno… I miei difetti erano dinamici. Sentivo molto profondamente di volta in volta che li riconoscevo, che diventavano strumenti utili…Non si trattava più di respingerli, o di sopprimerli, e ancora meno di averne vergogna, ma di domarli e all’occorrenza di servirmene…”1

L’attualità della lezione di Marie Cardinal non è ancora esaurita. Essa parla da un’altezza che non era stata raggiunta. Venire a capo della perdita di coscienza, dell’annullamento trovandone parole e tessiture è mettere al mondo il mondo, ancora.

Anna Rita Merico


  1. Marie Cardinal, Le parole per dirlo, Bompiani 2014, pg. 203

La Bustina di Mnemosine – TOMMASO FIORE

Tommaso Fiore (1884-1973), figlio dell’aspra Murgia pugliese, studiò all’università di Pisa, dove fu allievo di Giovanni Pascoli; insegnò nei licei, divenne provveditore agli studi e docente universitario di letteratura latina.

Socialista libertario, antigiolittiano, meridionalista fra i più autorevoli e ascoltati, fu sodale di Salvemini, Benedetto Croce, Bertrand Russell, Piero Gobetti – la migliore intellighenzia laica del tempo.

Durante il Ventennio conobbe – né poteva essere altrimenti – il confino e il carcere.

Pessimo poeta (detto da lui), prezioso traduttore dell’ostico dialetto lucano di Albino Pierro (detto da me), saggista e poligrafo di razza, vinse nel ’52 il Viareggio con Un popolo di formiche; seguì, tre anni dopo, Il cafone all’inferno.

Sono entrambi libri di viaggio, reportage di taglio colto a metà tra narrazione e analisi: un genere che nasce forse con Erodoto e che, con Magris, arriva all’oggi passando per la satira V di Orazio, il Viaggio in Italia di Montaigne e poi di Goethe, una quantità vastissima di altre opere (ma quello di Fiore non è un Grand Tour – passione civile e tensione politica scorrono nelle sue pagine).

Il cafone all’inferno, racconto eponimo e parte conclusiva del libro, è una storia di origine popolare.

Narra di un bracciante del Tavoliere di Puglia che, dopo la morte, finisce all’inferno. E non ci si trova male, anzi decisamente bene, tanto da definirlo «un luogo dove si gode».

Nel sentir ciò, i diavoli esterrefatti lo riferiscono a Satana che, anche lui sorpreso, lo convoca e gli chiede – è il caso di dire – da dove diavolo venga per parlar così. Risponde il cafone che viene da un posto assai peggiore dell’inferno, il Tavoliere di Puglia.

Satana vi manda allora un diavolo in ricognizione: fingendosi contadino, dovrà cercar lavoro e appurare come stanno le cose.

Non dura che due giorni il povero diavolo – fa ritorno all’inferno con le ali «sconquassate e spennate»: le terribili condizioni di vita e di lavoro del Tavoliere lo hanno presto sopraffatto.

Ma l’inferno – medita Satana – dev’essere il luogo peggiore in assoluto, altrimenti che inferno è? E, convocati i diavoli, ordina di sbaraccare: «prendete tutti gli attrezzi e andiamo a stabilirci nel Tavoliere delle Puglie».

Morì, don Tommaso, prima che i cafoni passassero il testimone ad altra gente, uomini e donne in fuga da altri inferni.

Uomini e donne dalla pelle nera.

Che vivono in baracche, e raccolgono pomodori sotto un sole che non perdona.

Fanno una vita d’inferno.

Alfredo Dell’Era

“I VICERE’” E  “IL GATTOPARDO”: FILIAZIONE?

Lungomare, Bari

Bari ha il fascino diafano della luce in purezza dentro un contesto urbano: come lo sguardo fresco di un adolescente affacciato sulla terrazza verso un orizzonte che, per beffa geografica, è tutto spostato ad oriente. Bari è rivolta al mare, alla prospettiva sconfinata e rovesciata dell’idea sognante. La città è come un riverbero della Puglia intera, del bilico di questa terra sempre sospesa tra mondi che cerca incessantemente e inconsapevolmente (vanamente?) di conciliare: non solo oriente e occidente, ma anche pragmatismo religioso e spiritualità mistica (Don Tonino e san Pio),  chiusura provinciale e apertura cosmopolita (i tanti piccoli borghi visitati da grandi star internazionali),  attaccamento alla tradizione e tentazione di un pensiero nuovo, “meridiano”, come lo concepì ormai quasi trent’anni fa il compianto Franco Cassano. Questa essenza sovra-urbana balena agli occhi dei visitatori specie nei punti di confine della città, cesura e al contempo cucitura tra realtà lontane. Ad esempio il lungomare, dove proprio Franco Cassano amava passeggiare, come racconta il sociologo Franco Chiarello nel suo volume “Franco Cassano. A passeggio sui confini” (Ed. Radici Future 2023). O ancora, la piazza della stazione centrale, dove si toccano provando a congiungersi, provincia e capoluogo e si affiancano i quartieri dei due secoli scorsi, il murattiano razionale e quasi asettico davanti ai binari e il metropolitano caotico e impersonale, alle loro spalle. Quella piazza contiene anche due elementi che per me sono soste fisse ed imprescindibili ogni volta che mi trovo in zona: una edicola molto ben fornita e la stele con il busto di Aldo Moro. Già, Aldo Moro, il martire laico della Prima repubblica, il capro espiatorio sacrificato sull’altare della cattiva coscienza democristiana. A ben vedere, anche nel suo caso si tratta di una personalità profondamente “pugliese”, che ha provato a congiungere due visioni politiche apparentemente inconciliabili attraverso il crinale del “compromesso storico”. Ma non è proprio il caso di scriverne, divagherei troppo e tralignerei rispetto alle tematiche del Blog, che si occupa di letteratura.

Per evitare divagazioni, mi viene in soccorso l’altro mio personale punto di riferimento della piazza, l’edicola ben fornita accanto alla stele di Moro. È lì che un giorno, bighellonando tra spalliere girevoli piene di libri in edizioni datate, incrociai “I vicerè”, rilegatura in brossura economica e tascabile (purché le tasche siano quelle di un pastrano gigante) della Newton narrativa. -Che faccio, comincio a leggerlo senza aver ancora letto “Il gattopardo”?  – mi chiesi. Ora, ripensando a quella domanda, comprendo di aver compiuto inconsapevolmente la scelta giusta, non solo sul piano cronologico. Infatti, aver fatto precedere la lettura de “I vicerè” a quella del “Il gattopardo” mi ha indotto a chiedermi se non vi fosse un rapporto di filiazione tra i due romanzi, così da soppesarli e apprezzarli ancor meglio. Quel giorno (e non solo quello), non seppi dominare la mia curiosità e mi dissi che sì, “Il gattopardo” sarebbe venuto dopo, bisognava prima cimentarsi nella lettura delle 509 pagine del “romanzo terribile”, così definito nell’introduzione di Sergio Campailla.

I viceré” è la saga della nobile famiglia Uzeda di Francalanza, a cavallo di due epoche, la borbonica e la sabauda, lungo quella soglia critica e decisiva della storia risorgimentale che fu l’annessione delle due Sicilie al Regno d’Italia. Vicenda dalle controverse riletture storiografiche fin dagli anni immediatamente successivi ai fatti, quantomeno negli ambienti dell’élite culturale isolana. Periodo di inevitabile transizione, quello post-risorgimentale. I siciliani d’altronde, (in questo affatto diversi da noi pugliesi), mal tollerano l’atmosfera doganale e sospesa di una soglia, di un confine, di un passaggio di stato e di Stati, situazione poco adatta al loro fortissimo senso antropologico di centralità strategica. Tant’è che il romanzo di De Roberto è ricco di un pathos profondo ed inquietante. Tra i numerosi personaggi che lo affollano e le cui storie s’intrecciano, serpeggia una incoerenza di comportamenti dettati da moventi confliggenti, una contraddittoria   nevrosi degli opposti desideri che sfocia in sfoghi verbali, tensioni continue, intemerate improvvise e stravaganti condotte, fino a giungere in qualcuno di loro alla follia, criminale o meno. Quella di De Roberto è una narrazione smisurata, sempre o quasi sopra le righe, sospinta da una sorta di febbrile creatività. Il romanzo è concepito come parte centrale di una trilogia, il ciclo della nobile famiglia Uzeda, nelle cui vene scorre sangue regale spagnolo. De Roberto concepisce e poi costruisce una saga familiare leggibile in molti modi, -vero; ma soprattutto rivelatrice del suo rapporto ambiguo di attrazione-repulsione nei confronti della nobiltà a lui coeva, da lui lambita senza mai sentirvisi integrato. L’autore fa emergere senza filtri la particolare forma di attaccamento al potere di quell’aristocrazia ora scomparsa ma all’epoca viva e vitale. È un potere fatto di latifondi messi a rendita con una mezzadria che sa ancora di vassallaggio medievale. È un potere prevaricante, che usa con disinvoltura i titoli nobiliari come prova di presunta superiorità ontologica e li sbatte in faccia a chi non li possiede affatto o ne ha di minore vaglia per metterlo in soggezione, salvo poi appropriarsi rapacemente dei suoi agi finanziari brigando per un matrimonio conveniente, come quello apparecchiato per Chiara Uzeda, figlia della capostipite Teresa e spinta dalla madre tra le braccia del “marchese” Federico Riolo di Villardita. È un potere che emargina chi non è pronto a sentirne il fascino e l’ebrezza, foss’anche un rampollo di famiglia, come Ferdinando, uno dei quattro figli maschi di Teresa Uzeda “taciturno, timido e mezzo selvaggio per la mala grazia con cui l’aveva trattato la madre” che dopo la lettura del “Robinson Crusoe” donatogli da Don Cono Canalà, “restò sbalordito come da una rivelazione.  Da quel momento la sua selvatichezza s’accrebbe; il suo unico desiderio fu quello di naufragare in un’isola deserta e di provveder da sé al suo sostentamento”. Di fatto, l’isola vagheggiata per il naufragio esistenziale di Ferdinando altro non sarà se non un fondo proprietà di famiglia, dalla terra infima ed improduttiva, chiamato “Le ghiande” perché ricco di querce dei cui frutti son ghiotti i maiali e ciononostante non donato ma affittato al figlio con obbligo di regolare rendita annuale da versare alla madre, impegno impossibile da onorare date le pessime condizioni del terreno e la stravaganza di Ferdinando.

La smania di potere degli Uzeda sa però cambiar pelle e si declina nelle nuove forme imposte dall’unificazione sabauda, pur di resistere alle insidie del tempo e alle sfide della modernità. Ne è un chiaro esempio la figura di Consalvo. Figlio di Giacomo ed unico nipote maschio di Donna Teresa Risà, è il solo esponente di terza generazione della famiglia che possa vantare un albero genealogico in diretta connessione con gli avi spagnoli. Frequenta da ragazzo il monastero di famiglia ma la sua tempra è violenta ed inquieta, ha un’adolescenza turbolenta, ferisce a morte un compagno di bagordi in una rissa, scappa riparando in Piemonte e qui avviene la sua falsa palingenesi moderna e liberale, seguendo le orme dello zio Gaspare, deputato. Torna in Sicilia e diviene egli stesso prima sindaco e poi parlamentare. E nell’epilogo del romanzo, de Roberto ne tratteggia la hybris in poche battute: “Tacque un poco, chiudendo gli occhi: si vedeva già al banco dei ministri, a Montecitorio; poi riprese: – Questo direbbe il Mugnos, redivivo; questo diranno i futuri storici della nostra casa. Gli antichi Uzeda erano commendatori di San Giacomo, ora hanno la commenda della Corona d’Italia – ”.

Dal film: “Il Gattopardo” di Luchino Visconti, 1963

La figura di Consalvo non può non essere accostata a quella di Tancredi Falconeri descritta ne “Il gattopardo” di Tomasi di Lampedusa.  “Homo novus” che annusa il cambiamento nell’aria stantia del vicereame borbonico, Tancredi si fa prima garibaldino, poi sabaudo e grazie alla benevolenza e al sacrificio dello zio Fabrizio, si riscatta dal recente declino nobiliare. Ma lo fa con l’eleganza e la levità di un raro felino (il gattopardo, appunto) e non con la ferocia belluina di uno come Consalvo Uzeda. A ben vedere, però, “Il gattopardo” non è tanto il raccolto di una trasformazione camaleontica come quella di Tancredi, quanto quello di un malinconico declino, quello di suo zio, o “zione”, come amava chiamarlo ironicamente il nipote. È irresistibile il fascino del protagonista, che oggi definiremmo “perdente di successo”, che risponde al nome del Principe Fabrizio di Salina. Figura-chiave dell’intero intreccio, assume tratti semi-divini: “non che fosse grasso, era solo immenso e fortissimo”. La sua bellezza tutta apollinea ed olimpica ed il suo temperamento generoso, franco e non immune da esplosioni d’ira ne fanno una metafora idealizzata a posteriori, della aristocrazia siciliana tardo-ottocentesca di cui l’autore stesso era un rampollo. La forza ed insieme la debolezza de “Il gattopardo”, in fondo sta tutta in questa polarizzazione: da un lato la figura mitologica di Fabrizio Salina, talmente astratta ed iperuranica da essere stata insignita di un riconoscimento dall’accademia di Francia per i suoi studi astronomici; dall’altra, la nobiltà “riciclata” del nipote Tancredi che sposa Angelica, figlia del notabile Don Calogero Sedara. Uomo ricco e potente, Sedara ha cavalcato l’onda delle giube rosse garibaldine, preparando il terreno per la formidabile e repentina presa della Sicilia ad opera dei mille. Tomasi di Lampedusa lo ritrae impegnato da podestà ad orchestrare il rito farlocco del plebiscito e a procurarsi titoli nobiliari che lo rendano degno dei casati Salina e Falconeri. Ma a far gola al futuro genero Tancredi sono piuttosto le migliaia di onze e le numerose terre e proprietà che don Calogero è capace di fornire come dote di sua figlia, la splendida e furba Angelica. Fabrizio Salina comprende che l’unica maniera per garantire all’amato nipote (orfano di padre scialacquatore), un futuro se non glorioso quantomeno roseo, consiste nello spingere Angelica tra le sue braccia. Quindi sacrifica l’immagine di lealtà borbonica che s’era fatto di sé e si convince “obtorto collo” a seguire la corrente, assecondando i nuovi dominanti sabaudi e legando suo nipote ad uno dei maggiorenti del rinnovato sistema di potere. Fabrizio Salina è il personaggio più riuscito dell’intero romanzo ed è talmente ben tratteggiato che, immaginandolo, si ha quasi l’impressione che il connubio aristocrazia-nobiltà possa davvero esistere da qualche parte nel mondo reale, e non solo delle pagine di un romanzo così sapientemente cesellato ed aulico come “Il gattopardo”.

All’opposto, la descrizione dell’aristocrazia ne “I vicerè” sembra il dipanarsi di un bestiario, e la belva più spaventosa di tutte è Don Blasco. Figura talmente eccessiva da risultare grottesca, sorta di Saturno in saio che divora i suoi figli, volendolo accostare al famoso dipinto di Goya. Cognato di donna Teresa Risà, la odia ferocemente poiché alla morte del di lei marito e suo fratello Consalvo VII, nelle mani della vedova Uzeda s’è concentrata tutta la ricchezza della famiglia vicereale, che la donna ha saputo risollevare dalla cattiva gestione del consorte defunto. Ma questo a Don Blasco non importa e non importa per il semplice fatto che quella ricchezza non è più anche sua e pertanto non può esercitarvi l’influenza del suo impetuoso e prepotente carattere. Dirottato fin da giovane, in quanto nobile cadetto, nel monastero dei benedettini dove i monaci facevano “l’arte di Michelasso: mangiare, bere e andare a spasso”, più che al richiamo della fede è incline a quello della carne, sia essa di origine animale o venusiana, da gustare nei lauti banchetti del refettorio monastico o tra le lenzuola di qualche casupola dei borghi vicini, dove il nostro intrattiene rapporti di indole più biblica che evangelica, con prostitute o donne più o meno indigenti, come “la sigaraia”, da cui si vocifera gli sia nato un figlio illegittimo. Alla morte di donna Teresa e all’apertura dei sigilli testamentari, diviene irrefrenabile, torrenziale: sobilla tutti gli eredi a suo dire defraudati, contro il primogenito Giacomo e il prediletto Raimondo, principali beneficiari delle fortune di famiglia. Anche in politica don Blasco non conosce le mezze misure. Alla vigilia dello sbarco in Sicilia, è un borbonico più realista del re e a proposito dei moti del ’48 ringhia: “Ma la colpa più grande credete forse che sia dei sanculotti o di quel ladro di Cavour?”. Poi però, con la nascita del Regno d’Italia, vira repentinamente al liberalismo, non prima di essersi arricchito attraverso la compravendita all’asta dei beni ecclesiastici dopo la soppressione dell’ordine dei benedettini. Un cambiamento solo all’apparenza camaleontico, visto che l’abito monacale è una pura parvenza. Don Blasco resta l’invenzione più ispirata del genio narrativo di De Roberto. La sua parabola (come e più del nipote Consalvo) incarna in modo pratico e volgare quel principio trasformistico che “Il gattopardo” ambientato nello stesso periodo storico ma scritto sessant’anni dopo, fissa nel proverbiale motto “cambiar tutto perché nulla cambi”.  Anche nel caso di don Blasco, è possibile individuare un personaggio in apparenza analogo ma assai più marginale, nella economia narrativa de “Il Gattopardo”, quel padre Pirrone, confessore di Don Fabrizio Salina, decisamente anodino rispetto al vulcanico benedettino, sorta di alter ego conformista di quest’ultimo. Padre Pirrone si accosta al potere per proteggersi ed adoperarlo alla maniera dei gesuiti, cioè in tutte le maniere possibili (Todo modo, direbbe Sciascia) più che bramarlo e seguirne la strada senza scrupoli come fa Don Blasco. Ma il risultato è analogo: sgradevole il primo, disgustoso il secondo.

Ma allora cos’hanno di nobile questi personaggi lontani e stranamente aristocratici, specie quelli de “I vicerè”, così visceralmente attaccati alla “roba”? Stando al dipanarsi dell’intreccio di De Roberto, narrato con stile non più tardo-romantico, non certo verista e non ancora contemporaneo, ma personale, quasi risentito, e con l’irriverenza del cronachista di costume che mette in luce la sostanziale amoralità dei loro comportamenti, di nobile agli Uzeda è rimasto solo il sangue, la schiatta. Ma, come spesso accadeva nell’aristocrazia dell’epoca, la genia loro s’era andata deteriorando in seguito ai frequenti matrimoni tra consanguinei. A simboleggiare questa sorta di disfacimento biologico, la sterilità di Chiara Uzeda, che dopo tante gravidanze isteriche, partorisce un feto morto “pezzo anatomico, il prodotto più fresco della razza dei Vicerè”.  L’atmosfera narrativa da vibratile si fa macabra, simile a racconto dell’orrore alla Poe; l’ironia lascia il posto al sarcasmo. Quello stesso sangue nobile è lo stigma della deficienza, la spiegazione dell’abominio. Qui il gioco di rimandi con il Gattopardo è ancora possibile e ruota intorno ad un passo del romanzo di Tomasi di Lampedusa che allude all’impoverimento genetico dell’aristocrazia, con tono elegante e distaccato, da analisi storico-sociologica, attraverso una notazione intorno all’eccessiva frequenza di matrimoni tra consanguinei propria di quell’epoca,  dettata da  “pigrizia sessuale e … calcoli terrieri”,  così che i salotti buoni avevano finito per riempirsi di “una turba di ragazzine incredibilmente basse, inverosimilmente olivastre, insopportabilmente ciangottanti”. Tutto questo senza lontanamente indulgere in macabre descrizioni di feti nati morti.

Sono dunque così tanti i punti di contatto tra le due opere da rendere davvero plausibile l’ipotesi secondo cui “Il gattopardo” rappresenti una sorta di riscrittura postuma de “I vicerè”: edulcorata, distaccata a depurata dagli eccessi del “romanzo terribile”. In definitiva, con i tanti parallelismi ravvisati nei due romanzi tutto sembra orientato a confermarne il rapporto di filiazione. E si finirebbe per prediligere la maggiore originalità del primo rispetto secondo e successivo, magari enfatizzando la narrazione iperrealista de “I vicerè” rispetto alla elegante e malinconica elegia decadente di Tomasi di Lampedusa. Sarebbe la forza contro la debolezza, la passione contro la nostalgia, la denuncia senza sconti contro la ricostruzione oleografica. Sarebbe il riscatto di un romanzo ingiustamente negletto rispetto al successo editoriale dell’opera venuta dopo e, in qualche misura, debitrice alla prima. Se pensassi questo sarei in buona compagnia, visto che Asor Rosa preferiva “I vicerè”. Ma devo fare i conti con me stesso: ho un debole per Giorgio Bassani. (come non impazzire per l’ultima frase de “Il giardino dei Finzi Contini” e per l’attacco de “Gli occhiali d’oro”?); ebbene, se non fosse stato per Bassani, “Il gattopardo” sarebbe rimasto un dattiloscritto perduto in chissà quale consolle di pregio di una dimora siciliana nobiliare e mai avremmo scoperto ed apprezzato l’ideale di nobile decaduto incarnato da Don Fabrizio principe di Salina. Più che un personaggio, sembra una sorta di concetto, di idea platonica; il suo miglior lascito è una sorta di testamento spirituale, il dialogo con Chevalley. Segretario prefettizio giunto direttamente dal Monferrato, il cavaliere Aimone Chevalley di Monterzuolo ha il compito di convincere don Fabrizio a diventare senatore nel futuro regno d’Italia. Il nostro Salina ringrazia ma declina fermamente l’offerta. E lo fa magistralmente, adducendo argomentazioni che delineano il profilo antropologico di una certa “sicilianità”: “Il sonno, caro Chevalley, il sonno è ciò che i Siciliani vogliono, ed essi odieranno sempre chi li vorrà svegliare”. Denunciando l’incapacità di sviluppare una civiltà propria, Don Fabrizio mette in luce che “sono venticinque secoli almeno che portiamo sulle spalle il peso di magnifiche civiltà eterogenee, tutte venute fuori già complete  perfezionate, nessuna germogliata a noi stessi […] Tutte le manifestazioni siciliane sono manifestazioni oniriche, anche le più violente: la nostra sensualità è desiderio di oblio, le schioppettate e coltellate nostre, desiderio di morte, desiderio di immobilità voluttuosa, cioè ancora di morte, la nostra pigrizia, in nostri sorbetti di scorsonera e cannella”. Nel monologo di Don Fabrizio, di rado interrotto da qualche impacciato interludio di un Chevalley sempre più in soggezione, è custodita una verità profonda, il punto di vista di un autore sul suo popolo, sulla sua gente. Ed in questo sta il valore aggiunto, la zampata felina del gattopardo rispetto a “I Vicerè”. Quando la scrittura è così bella e generosa da offrirti questi doni, non puoi che esser grato a vita all’autore dello scritto.

Mentre penso a queste cose, ritorno con la mente ai luoghi dove tutto è cominciato, alle mie passeggiate sul lungomare di Bari e alle soste all’edicola di piazza Moro. Penso all’aria schiva di quel gigante della politica, allo sguardo limpido e lungo, lunghissimo, di Franco Cassano e temo (sì, temo) che nessun autore nostrano sia ancora riuscito a cogliere l’essenza peculiare di noi pugliesi, a differenza di quanto hanno dimostrato di saper fare di loro stessi gli scrittori siciliani. Sarà forse perché la nostra è un’essenza sottile, inconsistente, un’essenza di confine, limpida ma diafana come la luce di Bari e della Puglia tutta? O sarà perché noi pugliesi, così sottili, così inconsistenti, non siamo ancora riusciti fino in fondo a raccontarci? O sarà per entrambi i motivi, accostati (ancora una volta) come i lembi di un margine?

Gianpiero Berardi

TEMPO

Nell’ultimo articolo ho parlato dell’odierna degenerazione del Tempo (che mette in discussione il luogo). Degenerazione che in questo caso attiene al senso matematico del termine, che indica particolarità, anomalia, riduzione di complessità, “…questo nostro tempo, sempre più asintotico verso il futuro (passato e presente sembrano non avere più peso)…”

Ed è proprio questa complessità che sembra ormai persa a chiedere una ulteriore riflessione. “Perché il tempo dovrà ritornare al suo rango”, ho scritto, ma allora qual è il rango del Tempo?

Relatività, di M. C. Escher

Quella del tempo è una cattedrale escheriana le cui scale conducono a molteplici direzioni di pensiero, convergenti, divergenti, parallele, incidenti: orologi molli, storia, memoria, tempo lineare, progressivo, unidirezionale, sospeso, indefinito, Kronos e Kairos, fiume fatto di eventi, assoluto, soggettivo, cosmico, dell’anima, fanciullo che gioca, circolare, ciclico, tempo perduto, indistruttibile metronomo con occhio, pura illusione, eterno… BOOM!

Il tempo è il corto circuito dello scibile umano! Esercizio filosofico impossibile, errore circolare della ragione, terreno che non ammette né tesi né dimostrazioni, nessuna dottrina dunque ma solo esperienza personale.

Come dire, c’è un tempo al di fuori di noi – ogni riflessione in questo senso sarebbe un folle volo – e un tempo dentro di noi, su cui voglio invece riflettere, in cui ogni vissuto singolare può essere considerato verità.

Joseph Conrad, Ucraina, 1857 – Regno Unito 1924

Nel mondo della letteratura, un’opera in particolare ha saputo indagare magistralmente questo rapporto intimo e introspettivo tra Uomo e Tempo, un’opera dall’eleganza assoluta, una storia di mare, di velieri e di viaggi, dall’atmosfera coloniale, pregna di aromi di tabacco e fumo di pipa, e del suono dello sciabordare delle onde e della spuma di mare. È la Linea d’ombra, (The Shadow Line: a Confession, 1917), romanzo breve di Joseph Conrad.

Al di là della trama – le vicende di un giovane primo ufficiale di una nave a vapore che solca i mari d’oriente che improvvisamente rinuncia al suo lavoro per poi ritrovarsi, inaspettatamente e dopo un breve periodo di inattività, al comando di un veliero fermo a Bangkok per via della morte del suo capitano – ai fini della presente riflessione risulta illuminante l’incipit:

“Quando si è molto giovani, a dirla esatta, non vi sono momenti.

È privilegio della prima gioventù vivere d’anticipo sul tempo a venire, in un flusso ininterrotto di belle speranze che non conosce soste o attimi di riflessione.

Ci si chiude alle spalle il cancelletto dell’infanzia, e si entra in un giardino di incanti. Persino la penombra qui brilla di promesse. A ogni svolta il sentiero ha le sue seduzioni. E non perché sia questo un paese inesplorato. Lo sappiamo bene che l’umanità tutta è passata di lì…

Già. Si va avanti. E anche il tempo va, fino a quando innanzi a noi si profila una linea d’ombra, ad avvertirci che bisogna dare addio anche al paese della gioventù.”

Ecco subito rivelata l’architettura del romanzo, la chiave di lettura che sgombera il campo da ogni ambiguità interpretativa e che rende esplicito l’implicito annidato nella storia. C’è una fase della vita di ognuno – semplificando, la gioventù – in cui il problema del Tempo semplicemente non esiste. Il giardino dell’incanto è così ricco di seduzioni da appiattire il Tempo e ridurlo ad entità adimensionale; un punto, che ammette solo e soltanto il presente.

Sarà solo il caso, un incontro, un evento positivo o negativo capace di lasciare il segno, insomma l’hazard di rousseauiana memoria – nel romanzo è proprio l’incontro casuale del protagonista con il capitano Giles, nell’albergo dell’ufficio portuale, ad aprirgli la strada verso il suo primo comando di un veliero – a decretare la fine di quest’incanto, di questa illusione, segnando il passaggio dalla giovinezza all’età matura.

Attenzione però a non traslare il discorso dalla questione temporale, che rimane centrale, a quella più banale dell’essere giovane o adulto o addirittura alla casualità degli eventi che possono segnare la vita di ognuno – i fatti che accadono non sono forse figli del tempo che li porta?

La questione viene ben spiegata dal critico Ian Watt: con la linea d’ombra “Conrad non si sta riferendo a quegli ovvi indicatori temporali…legali o politici come la maggiore età o biologici come la maturità sessuale… ma ad un concetto sociale e personale. Avvicinandola si è consapevoli solo di un vago cambiamento d’atmosfera di cui non si comprende neanche la causa”. Ed è proprio in questo cambiamento di atmosfera che si annida la questione Uomo/Tempo che qui si vuole indagare, nella sua dimensione più intima e soggettiva.

Eh sì, perché in realtà più che una linea d’ombra, ad un certo punto della vita, ci troviamo al cospetto di uno spazio d’ombra dalla profondità imperscrutabile, in cui la percezione del Tempo cambia irreversibilmente rivelandosi in tutta la sua profondità. D’ora in poi non esisterà più solo il presente, ma si comincerà ad avvertire forte il passato così come la preoccupazione per il futuro.

Nel rapporto intimo tra Uomo e Tempo, dunque, più che il continuo presente in cui si risolve la vita, ad un certo punto, è il passato a divenire prevalente, è il passato che non passa a costruire identità, con i suoi eventi significativi che restano intrappolati nella rete della memoria e che orientano l’ago della bussola delle decisioni suggerendo direzioni di vita, non le banalità e le ripetizioni in cui si perde buona parte della nostra quotidianità.

Ma ritorniamo al romanzo.

Il primo comando, accolto con entusiasmo dal protagonista, si rivela ben presto un inferno: la mancanza di vento che immobilizza il veliero, l’equipaggio che si ammala di febbre gialla, il sabotaggio del chinino a bordo sostituito da chissà chi con altra mistura che ne rende impossibile la cura, il profilarsi di una sorta di maledizione legata alla figura del vecchio capitano morto… Eppure, tra mille difficoltà e senza possibilità di chiedere e ottenere aiuto, il protagonista riesce a portare il veliero a destinazione e l’equipaggio in salvo. E così, giunto finalmente a terra, quando il capitano Giles gli dirà: “Dovete avere addosso una stanchezza considerevole” il protagonista risponderà “No, non è stanchezza. Vi dirò invece come mi sento… mi sento vecchio. E credo di esserlo.”

In realtà il protagonista non può essere vecchio – l’inaspettata impresa non ha richiesto poi così tanto tempo! Nel suo sentirsi vecchio c’è il peso di un passato che lo ha forgiato e che è rimasto dentro di lui. È questo passato che per continuare ad esistere ha bisogno di profondità temporale, di una diluizione del Tempo che da punto adimensionale deve diventare spazio per riuscire a contenerlo, proprio come l’ombra ha bisogno di profondità spaziale per potersi stagliare sulle superfici, ecco la geniale intuizione metaforica che ha consegnato alla storia questo romanzo.

Nella linea del Tempo è il passato dunque la vera dimensione temporale che costruisce identità, sia sul piano individuale che sociale e che si pone in diretta comunicazione con il nostro intimo. È il passato immateriale dei fatti accaduti, è il passato materiale che arriva sino a noi dalle testimonianze storiche, una chiesa medievale, un libro del 700, un reperto…

È per questo che dovremmo averne cura e custodirlo:

“Io sono una forza del Passato.

Solo nella tradizione è il mio amore.

Vengo dai ruderi, dalle chiese,

dalle pale d’altare, dai borghi

abbandonati sugli Appennini o le Prealpi,

dove sono vissuti i fratelli…”

10 giugno, Pier Paolo Pasolini

Trento Vacca

29 Note – Poesie di Antonella Vairano: nell’ampia periferia dell’amore

Amedeo Modigliani
Jeanne Hébuterne

Gli occhi cerulei di Jeanne Hébuterne, giovane pittrice parigina, (1898 – 1920) trafissero quelli di Amedeo Modigliani (1884 – 1920) quando, per la prima volta, s’incrociarono per le vie d’una vitalissima Montmartre in una Parigi di inizio Novecento, lì dove, tra caffè letterari illuminati dalle luci della Belle Époque, locande dell’ultima ora e laboratori d’arte, s’incontravano, per caso o per destino, pittori quali Marc Chagall (1887 – 1985), Maurice Utrillo (1883 – 1955) o scrittrici quali Geltrude Stein (1874 – 1974) con Alice B. Toklas (1877 – 1967)1

A. Vairano, 29 Note – Poesie, Youcanprint, 2018

Nella sua casa di Montmartre, Modigliani amò dipingere quegli occhi, tanto chiari da sembrare vuoti, sopra un viso variamente reclinato così come tante sono le declinazioni dell’amore. Ed è proprio la sfrenata passione tra Modì e Jeanne, terminata tragicamente, ad ispirare Antonella Vairano nell’opera d’esordio: 29 Note – Poesie. 

Abbiamo l’impressione di elevarci, di salire ad alta quota dove l’aria si fa rarefatta, il respiro corto e tremanti le ginocchia, perché l’autrice scrive d’amore.    

Ci chiediamo se sia possibile scrivere d’amore, oggi tra le macerie delle città martoriate o nei sotterranei affollati delle metropolitane. Ed in quale modo?

L’autrice raccoglie la sfida: scende in strada, percorre caliginosi vicoli, si spinge negli anfratti più bui dell’amore, città eternamente cinta da alte mura imbrattate di vita: “S’ingorda di bianche pareti / e s’affolla di rosso potente. (…) Sono i miei azzardi / che si sciolgono / nell’ordine / di due lune allineate.” (dalla lirica: Vita).

Max Jacob, Château des Brouillards, 1918, olio su tavola (collezione Le Vieux Montmartre)

Ella non esalta l’amore inteso come valore da preservare, ma lo osserva nella relazione amorosa tratteggiandone le emozioni. Per questo, esso non cede mai a vani sentimentalismi o inutili smancerie, è sostanza prima, sale della terra. Così ella scrive: “S’affaticano le parole / e d’essere ne vorrebbero dell’amore / pane carne e sangue. […] S’infiammano le parole / e d’essere sono la riga profonda / del pregevole marmo.” (da: Cos’è l’amore). L’amore dunque si fa sanguigno, essenziale ed il suo verso, carnale. Non una poesia imbellettata, sentimentale, ma del sentire d’amore nella quale il corpo, involucro dell’anima, diviene doloroso bersaglio: “Brucia. / E quanto brucia. / Lacrime ingravidano / nel ventre, / raccolte da voli stanchi.” (da: Brandelli)

Si scorge, dunque, nei versi d’amore della Vairano, la stessa impetuosa carnalità che rintracciamo in Marina Cvetaeva: “Vandalo in un’aureola / di vento! Riconosco / l’amore dallo strappo / delle più fedeli corde / vocali: ruggine, crudo sale / nella strettoia della gola.” (da: Scusate l’Amore. Poesie, 1915-1925)

L’amore dunque può essere bruciante: “Squarci invalidi / infettati / da lame arrugginite / Sotto la colonna di carne. / Sola. / Già trita.” (da: Brandelli) Ma, qui, gli strati di senso sembrano sovrapporsi, anzi, il significato letterale sembra scalzare quello metaforico poiché abbiamo l’impressione che l’autrice rappresenti il parto nel suo doloroso divenire: “Passione necessaria / che non vuole finire.” (da: brandelli)

     È un viaggio, l’amore, nel quale l’autrice perde sé stessa per divenire nell’altro: “Costruiamo corpo tuo e corpo mio. […] Fa’ che mi perda / come la partenza senza il viaggio. / Sei l’iscrizione marchiata / nel mio osso. (da: Fly high). Ma l’amore è anche contraddizione, moltitudine di pensieri ed emozioni: “La mia porta sarà la tua / fortezza alloggiata. / Non mi perdo, amore. / Alberi d’aranci intorno. (da: Alberi d’aranci) Sembra essere centrata sulla distanza, questa nota poetica, nella quale l’autrice, lontana dalle facce sfogliate velocemente, sperimenta il vuoto di giorni inutili in assenza dell’amato: “Non voglio il mondo di facce. / Misura colma. / Sbandati giorni / che non uso. / Appendo il solco. / Mastico vita e mangio amore.” (da: Alberi d’aranci)

Percorrendo le vie di quest’amore, ci imbattiamo in una lirica che è un’impetrazione, accorata supplica nella quale l’autrice chiede che si spengano le luci, si chiudano i rossi sipari, si ammainino le vele perché ella possa sentire il proprio dolore nel profondo di sé: “Ed ora per favore / per favore vi chiedo / spegnete le luci / serrate sicure le chiavi / nelle serrature. / Chiudete i sipari /dal pesante velluto di porpora.” (da: Preghiera). Risuonano, qui, lontani echi di un altro intenso dolore perché, nel cielo ultimo della Poesia, i versi possono stringersi contaminandosi: “Stop all the clocks, cut off the telephone, / Prevent the dog from barking with a juicy bone, / Silence the pianos and with muffled drum / Bring out the coffin, let the mourners come.” (W. H. Auden, Funeral Blues, 1938)2

L’amore è anche e soprattutto coraggio ed ecco che l’autrice invoca l’amato affinché la spinga fuori dalla sua tana: “Stanami dal sedimento. / Stanami dall’inerzia / Prendi l’acqua che sazia l’argine e il desiderio / brucia la tana che corre l’ombra al contrario”. (da: Sole obliquo) Solo l’amore, dunque, può risvegliarci dal lungo sonno, trarci dalle nostre nicchie interiori, dalle caverne buie nelle quali scorgiamo soltanto un barbaglio, una tremula ombra, non la piena luce. “I slept, say: a snake / Masked among black rocks as a black rock / In the white hiatus of winter – “(da: Love Letter, 1962)3

È questo il sonno di Sylvia Plath dal quale ella riesce a risvegliarsi grazie all’amore. Per la Vairano, invece, è l’inerzia, la stanchezza, l’ignavia, l’altra faccia dell’amore; così, illuminato il volto, l’autrice scrive: “E m’investe l’amore. / Ed io ubriaca / m’involgo / nella città prima. / Scalza d’amore, / sulla via dell’amore.” (da: Inside)

Come pagliuzza d’oro è, l’amore, e noi, cercatori di Jamestown, lo inseguiamo quasi disperatamente. Per questo, quando, per incanto, lo stringiamo tra le mani, anche solo per un attimo, non sappiamo più dimenticarlo. È questo il senso, la pagliuzza dorata che rinveniamo sul greto di “La ballata della poesia”: “Non credi / devi / tocchi e senti / ad antiche promesse / di non essere / pensiero e memoria. / Il tempo ti ha tradito / e la poesia ha perso”. Promettiamo, ci imponiamo di non ricordare quell’amore ormai finito ma, il tempo ci tradisce, sgambetta, rovesciando in terra il sacchetto dei ricordi.

Tra memoria e oblio, rabbia e gioia, nella grande periferia della città eterna, scorgiamo una bambinetta vestita di rosa, ha scarpe di pezza e bocca ancora sporca di latte.  È incerta sulle fragili caviglie ed inciampa in un foglio di giornale: è la lirica “Mani” che s’incammina, lenta, sulla via della tenerezza e del sogno: “M’importa del sogno. / Stordisci la mia sentenza / e la mia virtù / E facciamo questa scena: / tu abbracciami delicato.”

Sole obliquo

(di Antonella Vairano da: 29 note – Poesie, 2018)

Stanami amor mio

Stanami dal sedimento

Stanami dall’inerzia.

Prendi l’acqua che sazia l’argine e il desiderio

Brucia la tana che corre l’ombra al contrario.

Sei meraviglia

E danza semplice

E anche eco

E affanno forte.

Sei dimora

E confine notturno.

Moriamo dentro….

In questo sole obliquo

Di città e distanze.

Periferia urbana, Torino

Slanting Sun

(traduzione in inglese di Giulia Sonnante)

Drive me out my love

Drive me out of sediment

Drive me out of idleness

Take water that satisfies banks and desire.

Burn the den that edges shadows inside out  

You are a marvel

and mere dance.

Also an echo

and deep concern as well.

You are a dwelling place

and a night boundary.

We die deep inside….

Under this slanting sun

of cities and distance.

Giulia Sonnante

Antonella Vairano

  1. All’amore di Geltrude e Alice è ispirata la poesia di Antonella Vairano “Lettera di Stein”, disponibile per l’ascolto sul canale Youtube dell’autrice.
  2. [Fermate tutti gli orologi, isolate il telefono, / Fate tacere il cane con un osso succulento, chiudete i pianoforti e con un rullio smorzato / portate fuori il feretro, lasciate che giungano i dolenti] traduzione di Giulia Sonnante
  3. [Diciamo che ho dormito, un serpente/ Mascherato da sasso nero tra i sassi neri / nel bianco iato dell’inverno] traduzione di Anna Ravano.

RISVEGLIO

La verità è che non avrei voluto più scrivere in un tempo che non lascia spazio ai sentimenti, che non si eleva in purezza, un tempo che non riesce a metterci in ascolto con noi stessi e con gli altri, in un infinito stallo di idee e di immagini, ma con assurde ideologie come conquiste quotidiane dell’assurdo.

Poi all’improvviso uno squarcio di luce, una lettura e poi un’altra, la poesia “E lo sognavo, e lo sogno” dello scrittore Arsenij Tarkovskij e il testo di Anna Oxa della canzone che presenterà al prossimo festival di Sanremo intitolata ” Sali (canto dell’anima) ” e mi sono lasciata trasportare da quei versi che ci rimettono in contatto con l’essenza più pura e ancestrale del nostro essere, l’Amore è la risposta, sempre, in un sogno come in un risveglio.

Bocche piene di falsità che nutre il mondo Mani prive di dignità, votate a Dio

Sali, uomo, sali e dimentica

Sali e ritorna alla (tua) nascita

Occhi dell’ambiguità dei nostri tempi Vite frammentate senza verità

Sali, donna, sali e resuscita

Sali e ritorna alla (tua) nascita Libera l’anima

Come rondini la sera Vola libera

Nitida come il canto dell’anima Come stella dell’aurora

Di un mattino che non c’è E che non ha nome

Arca dell’umanità andata a fondo Cuori puri mangiati dall’avidità

Sali e poi un’altra vita tu Vivrai, Vivrai, Vivrai, Vivrai, Vivrai, Vivrai, Vivrai, Vivrai, Vivrai

Libera l’anima

Come stella dell’aurora Di un mattino che non c’è Sali… sali… Rosa… sali

Come stella dell’aurora Di un mattino che non c’è E che non ha nome… oh… Che non ha nome

Oh… oh… oh… oh… oh… oh… oh… Nitida l’anima

Come stella dell’aurora Di un mattino che non c’è E che non ha nome”

Anna Oxa


E lo sognavo, e lo sogno,

e lo sognerò ancora, una volta o l’altra, e tutto si ripeterà, e tutto si realizzerà,

e sognerete tutto ciò che mi apparve in sogno.

Là, in disparte da noi, in disparte dal mondo un’onda dietro l’altra si frange sulla riva,

e sull’onda la stella, e l’uomo, e l’uccello,

e il reale, e i sogni, e la morte: un’onda dietro l’altra.

Non mi occorrono le date: io ero, e sono e sarò. La vita è la meraviglia delle meraviglie,

e sulle ginocchia della meraviglia solo, come orfano, pongo me stesso

solo, fra gli specchi, nella rete dei riflessi di mari e città risplendenti tra il fumo. E la madre in lacrime si pone il bimbo sulle ginocchia”

Arsenij Tarkovskij

Testo e Immagine di

Gloria Sannino