LA QUESTIONE OCCIDENTALE (in un saggio ed un romanzo)
Più che una crisi, siamo di fronte alla radicale messa in discussione di un modello, di un orizzonte culturale ben preciso, una sorta di redde rationem della storia e della natura.
Quando penso al periodo che stiamo attraversando, non posso evitare di figurarmi una crisi persistente, segnata da problemi grandi e piccoli, dai drammi privati alle pubbliche catastrofi, dalla precarietà quotidiana di una macro e microeconomia in perenne affanno alla crisi climatica globale, dallo sfaldamento digitale delle relazioni umane a quello ben più concreto della terra che frana alluvione dopo alluvione. Eppure, il concetto di crisi mal si attaglia ad avvenimenti che si ripropongono puntualmente o a drammi che come una marea montante, segnano una permanenza continua nella nostra storia collettiva. Bisognerebbe pensare piuttosto ad un piano inclinato lungo il quale stiamo inevitabilmente scivolando, o – come in molte guerre contemporanee che si trascinano in stallo da decenni, ad una sorta di “crisi a bassa intensità” da cui sembra impossibile trarsi d’impaccio, ad un bradisisma piuttosto che ad un terremoto. Più che una crisi, siamo di fronte alla radicale messa in discussione di un modello, di un orizzonte culturale ben preciso, una sorta di redde rationem della storia e della natura nei confronti della spinta innovatrice, trasformatrice e (spesso ahimè), distruttrice, propria di una certa “visione del mondo” che da Darwin in poi ha esercitato, tra alti e bassi, una indiscussa egemonia attraverso il pensiero occidentale.
Sono talmente preso dall’argomento che spesso mi capita di cercare in qualsiasi circostanza personale, episodio di cronaca o fatto “culturale”, le tracce più inapparenti dell’avvitamento in cui siamo precipitati. Sarà forse per questo che la ricerca dei segni del declino (o di una spiegazione delle sue ragioni) finisce per farmi approdare alla letteratura, nel tentativo di individuarne segni premonitori, elementi esegetici, situazioni esemplari: saggi e romanzi sono un terreno fertilissimo, in tal senso. Propongo dunque due libri che, pur nella loro siderale distanza cronologica, stilistica e tematica, rappresentano punti di vista illuminanti sulla questione occidentale: il primo è il romanzo “Padri e figli” di Ivan Sergeeviĉ Turgenev (edizioni Einaudi 1998, con introduzione di Franco Cordelli e traduzione di Giuseppe Pochettino) ed il secondo è il saggio “California, la fine del sogno” del giornalista e scrittore Francesco Costa (Mondadori Strade blu 2022).
“Padri e figli”, pubblicato da Turgenev nel 1862, all’indomani della formale abolizione della servitù della gleba in Russia, è la storia dei rapporti contraddittori, spesso conflittuali, tra il mondo dei giovani post-romantici e proto-rivoluzionari, i cosiddetti “nichilisti” e quello dei maggiorenti di campagna, che potremmo definire piccolo-aristocratici. In un intreccio che dipana con magistrale semplicità, senza gli artifici analettico-prolettici tanto cari ai narratori contemporanei, Turgenev narra gli ultimi mesi di vita del giovane Bazarov, figlio di un umile medico di campagna e convinto assertore dei principi darwiniani delle scienze naturali e sperimentali e della loro applicazione per così dire, “panica” a qualunque aspetto della vita umana.
L’attitudine di Bazarov a guardare alle cose ed alle persone nella loro cruda oggettività, ad analizzare tutto e a non “credere” in niente (niente che sia precostituito rispetto ad un pensiero critico-scientifico) ha come inevitabile conseguenza di espungere dalla realtà che lo circonda, criticandoli ferocemente, tutti gli elementi di retorica romantica, spiritualità religiosa o semplice faciloneria credulona e tutta l’impalcatura tardo-aristocratica della società russa che la cristallizza in una amalgama vetero-feudale o. E’ in questi termini che Bazarov liquida la slavofilia e il decadentismo finto-blasè del suo antagonista naturale, Pavel Petroviĉ Kirsanov, zio del suo amico Arkadij ed ospite del fratello Nikolaj Petroviĉ nella tenuta di Mar’ino. Lo zio Pavel è quanto di più distante si possa immaginare dal naturalista Bazarov, che appena arrivato subito comincia “ad andar per rane” e recuperare altri anfibi ed insetti utili per dissezioni e studi al microscopio. Straordinariamente bello ed affascinante, bon vivant formatosi nel corpo dei paggi, Pavel Petroviĉ Kirsavon incarna per contro, quel certo spirito aristocratico conservatore e decadente, quell’indolenza tipica dei ricchi sofisticati e delicati, non priva di slanci di generosità sorprendente o di impeti di indignazione profonda. Sarà lui infatti a sfidare a duello Bazarov, reo di aver insidiato la giovane moglie del fratello, di cui lo stesso Pavel era segretamente innamorato.
Io sono arrivato a considerare i duellanti del romanzo in chiave metaforica: l’uno, il nichilista, portatore di valori profondamente occidentali, l’altro, lo slavofilo, protettore del senso comune e dello status quo. Per Bazarov “la natura non è un tempio, ma un’officina e l’uomo in essa è un operaio” e parlando all’amico Arkadij di suo padre Nikolaj, pur definito una brava persona, lo considera un “rudere” e consiglia a suo figlio di fargli leggere Büchner piuttosto che Puskin. Eppure nonostante l’apparente forza e coerenza della sua figura e l’insolente sciatteria comportamentale che nulla riconosce al bon ton e all’etichetta, serpeggiano in Bazarov pulsioni contraddittorie. Nel declinare il suo “credo” nichilista, egli infatti finisce per professare una sorta di fede idealista di stampo positivistico, che implica un radicale sovvertimento della società, implicito nella sua visione. A Pavel Petroviĉ che lo provoca. “Dunque secondo voi non c’è differenza tra l’uomo stupido e quello intelligente, tra l’uomo buono e quello cattivo”, il nichilista risponde “Si che c’è: come tra un malato ed un sano […] Noi conosciamo ad un dipresso da che cosa provengano le malattie del corpo; e le malattie morali provengono dalla cattiva educazione, da tutte le sciocchezze di cui si riempiono le teste della gente sin dall’infanzia, dallo scandaloso stato sociale delle cose, insomma. Correggete la società e malattie non ce ne saranno più”. Bazarov, muovendosi tra le tenute nella campagna russa, viene lentamente imbrigliato nei suoi ritmi cadenzati (“come se si andasse sulle rotaie”, sostiene), così diversi dai suoi studi febbrili e dalle scorribande nel ricco e straordinario laboratorio a cielo aperto della natura. E viene infine ammaliato dalla proprietaria di un latifondo vicino a quello del suo amico, una donna non priva di fascino, curiosa e sofisticata, intelligente ma fredda, la Odincova, che come lui è incapace di nutrire sentimenti “romantici” e che proprio per questo lo ammalia quasi senza volerlo fino a farlo capitolare, ma senza poter ricambiare l’innamoramento che in Bazarov è sorprendentemente sbocciato per lei.
Il figlio nichilista e progressista della Russia tardo-ottocentesca (un figlio illegittimo, per così dire) finisce per essere vittima di tutti i padri in cui si imbatte e di tutto il paternalismo pressappochista, inconcludente e romantico che propugnano, comprese le cattive condizioni igieniche dei borghi rurali e l’arretratezza degli strumenti medici a disposizione. Eppure la società che “il nichilista” aspira così tanto a cambiare ha un suo intimo e sfuggente equilibrio, inconcepibile agli occhi razionalistici dell’occidente innovatore e radicale rappresentato da Bazarov, eppure operante e cogente.
Franco Cordelli, nella sua prefazione (Il gigante di Turgeneev) si dice “contagiato […] dal suo eroe, da Bazarov o, se si preferisce, bazarovista”. Cordelli, citando Il saggio di Vittorio Strada “Leggendo padri e figli” (1969), sottolinea che “Il Turgenev tragico concepisce un eroe rapace, la cui rapacità è tuttavia all’altezza del suo rifiuto: in Bazarov convivono i due modelli mitico-lettarari dell’autore, Amleto come forza centrifuga della natura (il suo egoismo) e don Chisciotte come forza centripeta (tutto ciò che si sostenga a un’idea)”. Aggiungo che il parallelismo con modello letterario di Don Chisciotte è incardinato anche in un certo grado di velleitarismo e di squilibrio mentale: lo squilibrio proprio di chi immagina un mondo che non esiste più o di chi –ed è il caso di Bazarov, immagina un mondo che non c’è ancora.
Ed è proprio intorno al nodo nevralgico dell’equilibrio, o meglio della sua perdita, che si svolge la riflessione critica contenuta nel saggio “California, la fine del sogno” di Francesco Costa. Esempio di squilibrio su vari piani (politico-amministrativo, abitativo, ambientale, culturale e sociale), la California della fine del sogno, il bastione più a occidente di tutto l’Occidente (e non solo sul piano geografico), emerge in tutte le sue enormi contraddizioni.
La California a cavallo del XX-XXI secolo si pone agli antipodi della campagna russa descritta da Turgeneev e capace di soffocare le ambizioni radicali e riformatrici di Bazarov. Eppure negli ultimi trent’anni, a fronte di una inarrestabile crescita economica e di una indubbia egemonia culturale (dalla Silicon Valley ad Hollywood), il modello californiano è in crisi. E lo è in forza di una sostanziale inettitudine all’auto-critica ed all’auto-rettifica.
Il saggio parte da un dato inoppugnabile: la crisi demografica. La popolazione della California decresce inesorabilmente da diversi anni e Costa ne analizza le cause. I prezzi delle abitazioni in vendita ma anche in affitto sono alle stelle, a causa della spinta che l’economia digitale (e prima ancora quelle petrolifera e cantieristica civile e militare, così come quella legata all’industria dell’intrattenimento) ha dato al valore degli immobili e delle città in cui sono ubicati. Ma a ben guardare ci sono altre e più sottili ragioni a spiegare il fenomeno. Ragioni politico-culturali. A cavallo degli anni 60-70 del ‘900 la resistenza all’emancipazione degli afroamericani si riposizionò sulla promozione di politiche presentate come approcci pragmatici per la risoluzione dei problemi. “Non bisognava più parlare di bianchi e neri, bensì di tasse e scuola”. E così proposte quali tagli fiscali, disinvestimento sul trasporto pubblico ed introduzioni di requisiti sempre più stringenti per poter votare, finivano per rafforzare il potere dei bianchi, il cui modello diventava il solo riferimento possibile, anche in ambito abitativo. Vivere in villette monofamiliari con giardino annesso era una soluzione apparentemente rispettosa dell’ambiente ma in realtà foriera di uno spropositato consumo di suolo e di un progressivo e irregolare allontanamento dei residenti dai centri urbani, con la inevitabile conseguenza di un uso sempre più estensivo dell’auto per recarsi al lavoro. Il risultato è stato la creazione di enormi conurbazioni (si pensi a Los Angeles), che nonostante il fenomeno della “gentrificazione”, hanno portato alla creazione di ghetti e quartieri “off-limits”, terre di nessuno popolate da senza tetto, delinquenti comuni e tossico-dipendenti, dove spaccio, violenza e prostituzione sono la regola. Ma se di fatto la rete protettiva dello stato sociale è ridotta all’osso per questioni ideologiche di preminenza dei diritti individuali, allora è facile capire come nelle città californiane si possa passare, da un giorno all’atro, dagli altari alla polvere. Letteralmente. Basta una comunicazione unilaterale di aumento del canone di affitto o la perdita del lavoro (anche solo temporaneamente), o difficoltà esistenziali, sicuramente acuite dal mantra del successo, dall’etica del sogno da concretizzare ad ogni costo. Basta poco, insomma, e ci si ritrova per strada nel girone infernale di quartieri come Skid Row a Los Angeles e Tenderlion a San Francisco: abbrutimento totale, fame, tossico-dipendenza e traumi psichici indelebili sono i lasciti di queste squallide sentine dalla società californiana. Eppure in quello Stato la “sinistra” dei democratici duri e puri non perde un’elezione da decenni. Ma anche il monopolio del potere teoricamente contendibile, a ben vedere, finisce per diventare un problema, un problema di inadeguata selezione della classe politica, di ideologizzazione estrema delle tematiche, di mancanza di una salutare alternanza di governo, con tutte le relative incrostazioni politico-burocratiche che ne derivano. Se è inconcepibile per di democrats che la gente viva negli appartamenti e non piuttosto nelle villette, è altrettanto inconcepibile che gli homeless vengano accolti in dormitori. Questi rappresentano normalmente il primo passo della strategia canonica per un ritorno nella società civile, supportato parallelamente da un percorso di sostegno socio-psicologico. Ma una strategia del genere è lunga, complessa, dispendiosa sul piano economico e dagli incerti risultati pratici. I dormitori, d’altra parte, sono luoghi ben evidenti e riconoscibili. Meglio allora affidarsi alla strategia “housing first” che prevede lo spostamento diretto dei senza-tetto dalla strada ad appartamenti da gestire in autonomia, concessi gratuitamente e senza condizioni (compreso l’obbligo di sottoporsi a cure e terapie). Soluzione apparentemente semplice (nei fatti inefficace) di un problema complesso. D’altra parte, se la Coalition on Homelessness, principale organizzazione a difesa delle persone senza tetto a San Francisco, che ha grandissima influenza sul budget reso disponibile dalla città, si oppone alla costruzione di dormitori e rifugi sostenendo che “la casa è un diritto umano ed i senzatetto chiedono casa e non rifugi”, si può ben comprendere fino a che punto arrivi il grado di ideologizzazione deteriore che blocca l’attivazione di soluzioni pratiche e il miglioramento dei servizi sociali.
Il saggio di Costa analizza anche i problemi culturali che il vertiginoso sviluppo della Sylicon Valley ha prodotto in California. Lo spirito pionieristico della corsa all’oro di fine ottocento s’è riproposto nella corsa al digitale ed ai suoi servizi che ha letteralmente rivoluzionato il nostro stesso approccio alla vita quotidiana.
Chi ambisce ad essere protagonista del cambiamento in atto, è pronto a tutto: “un esercito di ragazzi e ragazze intelligentissimi, brillantissimi, studiosissimi, freschi di laurea oppure paralizzati in uno stato di post-adolescenza”, all’interno di aziende celeberrime (Alpabeth ovvero Google, Apple, Meta cioè Facebook, Instagram e WhatsApp, eBay, Adobe, Paypal, Oracle, Circle). “Fate come se per ognuna di queste aziende ce ne fossero altre mille che non avete sentito nominare […] con tutti questi soldi, grandinate di soldi senza senso, ormai in larghissima parte non americani, investimenti di sceicchi in fondi sovrani”. Ragazzi e ragazze con la testa piena di sogni verranno spremuti in queste realtà lavorative “dal costante prolungamento informale dell’orario di lavoro travestito da flessibilità e da aperitivi per fare networking […] e dal costante impegno politico ed intellettuale richiesto letteralmente per qualsiasi cosa”. D’altra parte, se è vero che Google è nata in un garage, i giovani attirati dalla mecca del successo digitale non si faranno problemi, con i costi esorbitanti degli affitti, a vivere in un garage. Come è ovvio, sono in pochissimi a farcela e in tantissimi ad abbandonare la Silicon Valley.
Costa si sofferma anche sulla precarietà del modello educativo californiano, che senza modificare radicalmente l’approccio classista tipico della scuola americana, ne ha neutralizzato gli elementi meritocratici in nome di un malinteso antirazzismo in salsa “politically correct”. Così facendo, gli studenti più socialmente disagiati come gli afroamericani o latino-americani non hanno tratto vantaggi dall’abolizione del sistema meritocratico del “tracking”; e quelli di origine asiatica o semita, facenti parte di minoranze in cui la cultura del “sacrificio premiante” è radicata nelle comunità, ne sono stati penalizzati. Un livellamento verso il basso dell’istruzione, detto in altri termini.
Dal saggio emerge chiaramente come la California sia diventata un paese dal quale si tende ad andar via più che ad arrivare: politiche abitative disastrose, costo della vita improponibile, ideologizzazione estremistica sul piano politico e scarsa concretezza su quello amministrativo, inefficienza del sistema educativo, disarticolazione delle reti di relazione in una società che più liquida di così non potrebbe essere: insomma signore e signori, l’Occidente allo stato puro. Quell’occidente del progresso cui invece tanto aspirava (inconsapevolmente?) il personaggio di Bazarov, impegnato in una battaglia sempre più solitaria e disperata contro le incrostazioni di un sistema sclerotizzato che nel volgere di qualche decennio sarebbe drammaticamente imploso sotto i colpi della Rivoluzione. Un occidente che declina la parola progresso nella misura in cui porta all’abolizione dei tradizionali vincoli e riti sociali (tanto cari alla dimensione rurale della Russia di fine ottocento tratteggiata da Turgevev nel suo romanzo), quell’occidente estremo e fanatico in cui uno come Bazarov, così avulso dal contesto di arretratezza in cui si muove come un’eresiarca, sarebbe probabilmente approdato, se fosse esistita una sorta di “second life” dei personaggi inventati. Con la stessa spinta al cambiamento, lo stesso spirito anarcoide e sbarazzino, la stessa geniale insolenza di tanti ragazzi e ragazze che arrivano nella Silicon Valley. Ma anche con la stessa sottile inquietudine, lo stesso muto tormento di fronte al fallimento dei propri progetti, alla contraddittorietà dei propri sentimenti, la stessa fame di futuro lucida e folle propria di chi ha certo tipo di sogno, un sogno americano, un sogno californiano, un sogno occidentale: in fondo, non è forse da quelle parti che qualcuno ha detto “Stay hungry, stay foolish”?
Gianpiero Berardi