IDA VITALE: CENTO ANNI DI PAROLE PER DIRE SEMPRE IL NUOVO (Note critiche e traduzioni di Yuleisy Cruz LEZCANO)

Cercare e ricercare il non detto, stupire con immagini che diventano concetti, quasi palpabili. È questa la poetica di Ida Vitale: un mito vivente. 

Ida Ofelia Vitale Povigna, squisita intellettuale, insegnante, saggista, traduttrice, poeta e critica letteraria nasce a San Felipe y Santiago de Montevideo (Montevideo), capitale dell’Uruguay, il 2 novembre del 1923. È la più longeva esponente del movimento artistico “Generación del ‘45” di cui fanno parte altri grandi scrittori uruguaiani di origine italiana come Juan Carlos Onetti, Carlos Maggi e Idea Vilariño. Ottiene il prestigioso Premio Cervantes nel 2018 e tanti altri riconoscimenti. 

La poetessa spesso racconta che il suo avvicinamento alla poesia comincia mentre ascolta, affascinata, da piccola, versi insoliti, vaghi, allusivi che non riesce a decifrare. Prima di cogliere il significato, il contenuto, percepisce il gorgogliante indefinito, il mistero che accompagna la parola, ascoltando e leggendo i versi della poesia “Cima” di Gabriela Mistral, Premio Nobel per la letteratura. Questo avvicinamento, questa meraviglia di Ida Vitale nei confronti della sua maestra Mistral, sono ancora vivi. 

Il suo libro Disidencias leves ripercorre, tra incertezze e assenze inevitabili, tutta la sua poetica; la poetessa, nonostante l’esilio nel 1974 per ritornare a Montevideo circa tre decenni dopo, trova dimora nell’inquieta bellezza dei suoi versi.

La voce poetica della Vitale indugia nella natura (nelle piante e negli alberi; nei passeri, negli storni e nei ricci: nel vento, soprattutto nel vento), nella neve e nelle stagioni, negli addii, nelle morti e nei lutti, nelle vicissitudini dell’esperienza umana e nella spinta incessante dell’energia vitale, nella città stagnante e disumanizzante, nel linguaggio e nelle parole. Scrive nell’esistenza della parola.

Dal libro “Oidor andante” (1972): “Decimata, dissanguata, / tagliata in tante parti / come sogni, voglio / però, / questo e non altro modo / di essere viva; / questo e nessun altro modo di morire; / questo sussulto / e non più la solita / dormiveglia. / Come l’ombra di sé stessi / o come un fiammifero violento che arde. / Non c’è altra alternativa, / né più segno identificativo. / Non c’è altra morte. / Non maggiore vita.”

Leggendo questi versi si può facilmente intuire come la poesia possa davvero mantenere viva una lingua, che le sue manifestazioni possono essere varie nel tempo e, soprattutto, che la poesia sa bene come difendere la parola, come far nascere dalle parole, nuove interrogazioni sul mondo e sulle sue forme. Pochi poeti raggiungono davvero questo scopo, tra questi: Ida Vitale, poetessa che è, insieme, classica e moderna dalla poetica che cavalca il drago senza rifiutare il fuoco. Una poetica che cambia continuamente dimora, che decanta e fa grande la lingua spagnola in modo sottile ma incisivo. I suoi accostamenti propongono lo spirito errante delle sue visioni e mettono in evidenza il permanente conflitto tra le parole e il loro significato, caos e ordine che fanno parte dello stesso mare, mare che dà vita a un vasto oceano.

Disidencias leves è una generosa antologia con più di dodici libri di Ida Vitale al suo interno, dal 1949 fino al 2021. Pertanto, all’interno di questa raccolta è possibile cogliere la costanza dei suoi argomenti, ma anche la sua evoluzione, le sue variazioni tematiche e formali nel corso del tempo.

Nelle pagine di questo libro, la prosodia occasionale non prevale sulla chiarezza delle immagini e sull’esposizione di una scena o di un’idea. L’evoluzione poetica è inevitabile. In questo libro si passa dalla visione giovanile alla maturità in cui si indaga tutto ciò che accade, tutto ciò che appare attraverso le parole. I versi poi insistono nell’investigare i momenti originali delle parole e spesso si aprono come a ventaglio in un vento di fede nella missione salvifica della parola.

Le ultime raccolte contenute nel libro mettono in evidenza, insieme al dubbio per i risultati, la malinconia che accompagna i dubbi stessi.

Lo stile della Vitale vanta un ampio spettro di registri. Dall’ordine iniziale si passa alla dispersione simbolica, la quale è anche un modo di occupare casualmente lo spazio e il tempo, come chi diffonde versi, poesie lunghe e brevi, misurate o argomentative, per espandere i limiti di un’esperienza. E poiché in quell’esperienza si mettono in discussione le proprie condizioni di decidibilità, ciò che si diffonde nelle parole è tutta la storia e tutta la vita che hanno originato l’atto creativo. Occorre dire che la maggior parte dell’opera poetica della Vitale non è guidata dalla metrica, ma dall’indagine verbale e dalla ricerca di immagini concrete.

La parola infinito

La parola infinito è infinita,

La parola mistero è misteriosa.

Entrambe sono infinite, misteriose.

Sillaba per sillaba provi a evocarle

senza che una luce annunci il suo dominio,

un’ombra indica a che distanza da loro

sta l’opacità in cui ti muovi.

Vanno ad un certo punto del bagliore e nidificano,

quando le lasci libere nell’aria,

in attesa che un’ala inspiegabile

ti porti fino al suo volo.

È qualcosa di più del suo sapore, il gusto della vita?”

La palabra infinito

La palabra infinito es infinita,

la palabra misterio es misteriosa.

Ambas son infinitas, misteriosas.

Sílaba a sílaba intentas convocarlas

sin que una luz anuncie su dominio,

una sombra señale a qué distancia de ellas

está la opacidad en que te mueves.

Van a algún punto del resplandor y anidan,

cuando las dejas libres en el aire,

esperando que un ala inexplicable

te lleve hasta su vuelo.

¿Es más que su sabor, el gusto de la vida?

Fortuna

Per anni, godere dell’errore

e dell’emendamento,

aver potuto parlare, camminare libera,

non esistere mutilata,

entrare o non entrare nelle chiese,

essere nella notte un essere come nel giorno.

Non essere sposata in un negozio,

misurata nelle capre,

subire il governo dei parenti

o una legale lapidazione.

Non sfilare mai più

e non ammettere parole

che mettono nel sangue

limature di ferro.

Scoprilo per te stessa

un altro essere imprevisto

sul ponte dello sguardo.

Essere umana e donna, né più né meno.

Fortuna

Por años, disfrutar del error

y de enmienda,

haber podido hablar, caminar libre,

no existir mutilada,

no entrar o sí en iglesias,

ser en la noche un ser como el día.

No ser casada en un negocio,

medida en cabras,

sufrir gobiernos de parientes

o legal lapidación.

No desfilar ya nunca

y no admitir palabras

que pongan en la sangre

limaduras de hierro.

Descubrir por ti misma

otro ser no previsto

en el puente de la mirada.

Ser humano y mujer, ni más ni menos.

**

Yuleisy Cruz Lezcano

LA DONNA NERA: L’AFRICA di LÉOPOLD SÉDAR SENGHOR (poesie scelte)

La mia negritudine

La mia Negritudine non è il sonno della razza, no,
ma il sole dell’anima, la mia negritudine vista e vita
La mia Negritudine è un martello in mano, è una lancia in pugno
Come il bastone del messaggero.
Non si tratta di bere, di mangiare l’istante che passa
Al diavolo se m’intenerisco per le rose di Capo Verde!
Il mio compito è di ridestare il mio popolo ai futuri sfolgoranti
La mia gioia creare delle immagini per nutrirlo,
o luci ritmate della Parola!

Ma Négritude

Ma Négritude point n’est sommeil de la race mais soleil de l’âme, ma négritude vue et vie
Ma Négritude est truelle à la main, est lance au poing
Réécade. Il n’est question de boire, de manger l’instant qui passe
Tant pis si je m’attendris sur les roses du Cap-Vert!
Ma tâche est d ‘éveiller mon peuple aux futurs flamboyants
Ma joie de créer des images pour le nourrir, ô lumières rythmées de la Parole!

Ma Négritude è la poesia manifesto di Léopold Sédar Senghor(Joal, 9 ottobre 1906 – Verson, 20 dicembre, 2001), il poeta africano più importante del ‘900, nonché uomo politico senegalese di spicco e primo Presidente della Repubblica senegalese dal 1960 al 1980. Il primo africano a sedere come membro dell’Académie Francaise e il fondatore del partito politico “Blocco democratico senegalese”.

In essa sono delineati i parametri della prima scuola poetica africana e del senso dell’arte nera più in generale. Siamo nel 1936 quando Aimé Cesaire, poeta surrealista della Martinica, conia il termine Négritude e intorno a lui, a Parigi, si forma un gruppo tanto solido quanto eterogeneo, che fonda la rivista Lo Studente Nero.

A partire proprio dal neologismo Négritudine si possono però rintracciare poteri e limiti di questo gruppo: una poetica identitaria di liberazione definita attraverso una parola francese, un vocabolo creato seguendo le regole più comuni della grammatica di questa lingua colonizzatrice.

Se questa poesia nera non è risultata immune dall’influenza della cultura occidentale, simmetricamente è indiscutibile quanto l’arte europea del XX secolo ha subito il fascino dell’arte africana, come testimoniato dai saggi di Tristan Tzara o André Breton, dagli studi di Picasso o Matisse.

D’altronde, sempre secondo Senghor: ‘la vera cultura è mettere radici e sradicarsi. Mettere radici nel più profondo della terra natia. Nella sua eredità spirituale. Ma è anche sradicarsi e cioè aprirsi alla pioggia e al sole, ai fecondi rapporti delle civiltà straniere’”.

Donna nera

Donna nuda, donna nera

Vestita del colore che è vita, della forma che è bellezza.

Sono cresciuto alla tua ombra; la dolcezza delle tue mani bendava il mio sguardo.

Ed ecco che nel pieno dell’estate e del Mezzogiorno, ti ho scoperta, Terra promessa, dall’alto del lungo collo calcinato.

E la tua bellezza mi fulmina in pieno petto come folgore d’aquila.

Donna nuda, donna scura

Frutto maturo alla carne soda, estasi scure di vino nero, bocca che si fa lirica alla mia bocca,

Savana a puri orizzonti, savana che freme alle fervide carezze del Vento d’Oriente.

Tamtam inciso, tamtam teso che tuona sotto le dita del vincitore.

La tua voce grave di contralto è il canto spirituale dell’Amata.

Donna nera, donna scura

Olio che nessun soffio increspa, placido olio ai fianchi dell’atleta, ai fianchi dei principi del Mali

Gazzella agli attacchi celesti, le perle sono stelle nella notte della tua pelle.

Delizie di giochi dello Spirito, riflessi d’oro consumano la tua pelle che si fa screziata.

All’ombra della tua chioma, sbianca la mia angoscia ai soli prossimi dei tuoi occhi.

Donna nuda, donna nera

Canto la tua bellezza che passa, forma che fermo nell’Eterno.

Prima che il destino invidioso ti riduca in cenere per nutrire le radici della

vita.

Terra Madre di Fabrizio Zanelli, 25 ottobre 2008

***

Femme noire

Femme nue, femme noire
Vétue de ta couleur qui est vie, de ta forme qui est beauté
J’ai grandi à ton ombre; la douceur de tes mains bandait mes yeux
Et voilà qu’au cœur de l’Eté et de Midi,
Je te découvre, Terre promise, du haut d’un haut col calciné
Et ta beauté me foudroie en plein cœur, comme l’éclair d’un aigle

Femme nue, femme obscure
Fruit mûr à la chair ferme, sombres extases du vin noir, bouche qui fais lyrique ma bouche
Savane aux horizons purs, savane qui frémis aux caresses ferventes du Vent d’Est
Tamtam sculpté, tamtam tendu qui gronde sous les doigts du vainqueur
Ta voix grave de contralto est le chant spirituel de l’Aimée

Femme noire, femme obscure
Huile que ne ride nul souffle, huile calme aux flancs de l’athlète, aux flancs des princes du Mali
Gazelle aux attaches célestes, les perles sont étoiles sur la nuit de ta peau.

Délices des jeux de l’Esprit, les reflets de l’or ronge ta peau qui se moire

A l’ombre de ta chevelure, s’éclaire mon angoisse aux soleils prochains de tes yeux.

Femme nue, femme noire
Je chante ta beauté qui passe, forme que je fixe dans l’Eternel
Avant que le destin jaloux ne te réduise en cendres pour nourrir les racines de la vie.

***

Poesia al fratello bianco

Caro fratello bianco,

Quando sono nato, ero nero,

Quando sono cresciuto, ero nero,

Quando sono al sole resto nero,

Quando sono malato, resto nero,

Quando morirò, sarò nero.

Mentre tu, uomo bianco,

Quando sei nato, eri rosa,

Quando sei cresciuto, eri bianco,

Quando vai al sole, sei rosso

Quando hai freddo, sei blu

Quando hai paura, sei verde,

Quando sei malato, sei giallo,

Quando morirai, sarai grigio,

Allora, di noi due,

Chi è l’uomo di colore?

Poème à mon frère blanc

Cher frère blanc,

Quand je suis né, j’étais noir,

Quand j’ai grandi, j’étais noir,

Quand je suis au soleil, je suis noir,

Quand je suis malade, je suis noir,

Quand je mourrai, je serai noir.

Tandis que toi, homme blanc,

Quand tu es né, tu étais rose,

Quand tu as grandi, tu étais blanc,

Quand tu vas au soleil, tu es rouge,

Quand tu as froid, tu es bleu,

Quand tu as peur, tu es vert,

Quand tu es malade, tu es jaune,

Quand tu mourras, tu seras gris.

Alors, de nous deux,

Qui est l’homme de couleur?

***

Poème liminaire

À L.-G. DAMAS


Vous Tirailleurs Sénégalais, mes frères noirs à la main chaude sous la glace et la mort
Qui pourra vous chanter si ce n’est votre frère d’armes, votre frère de sang ?
Je ne laisserai pas la parole aux ministres, et pas aux généraux
Je ne laisserai pas — non ! — les louanges de mépris vous enterrer furtivement.
Vous n’êtes pas des pauvres aux poches vides sans honneur
Mais je déchirerai les rires banania sur tous les murs de France.
Car les poètes chantaient les fleurs artificielles des nuits de Montparnasse
Ils chantaient la nonchalance des chalands sur les canaux de moire et de simarre
Ils chantaient le désespoir distingué des poètes tuberculeux
Car les poètes chantaient les rêves des clochards sous l’élégance des ponts blancs
Car les poètes chantaient les héros, et votre rire n’était pas sérieux, votre peau noire pas classique.
Ah ! ne dites pas que je n’aime pas la France — je ne suis pas la France, je le sais —
Je sais que ce peuple de feu, chaque fois qu’il a libéré ses mains
A écrit la fraternité sur la première page de ses monuments
Qu’il a distribué la faim de l’esprit comme de la liberté
À tous les peuples de la terre conviés solennellement au festin catholique.
Ah ! ne suis-je pas assez divisé ? Et pourquoi cette bombe
Dans le jardin si patiemment gagné sur les épines de la brousse ?
Pourquoi cette bombe sur la maison édifiée pierre à pierre ?
Pardonne-moi, Sira-Badral, pardonne étoile du Sud de mon sang
Pardonne à ton petit-neveu s’il a lancé sa lance pour les seize sons du sorong
Notre noblesse nouvelle est non de dominer notre peuple, mais d’être son rythme et son cœur
Non de paître les terres, mais comme le grain de millet de pourrir dans la terre
Non d’être la tête du peuple, mais bien sa bouche et sa trompette.
Qui pourra vous chanter si ce n’est votre frère d’armes, votre frère de sang
Vous Tirailleurs Sénégalais, mes frères noirs à la main chaude, couchés sous la glace et la mort ?

Paris, avril 1940

***
Poesia d’apertura


A L.G. Damas

Voi Tirailleurs senegalesi, fratelli neri dalla mano calda al gelo e alla morte
Chi potrà cantarvi se non il vostro fratello d’armi,
vostro fratello di sangue?
Non lascerò la parola ai ministri, e non ai
Generali
Non lascerò – no! – che le lodi del disprezzo vi sotterrino silenziosamente.
Non siete poveri dalle tasche vuote
senza onore
Ma strapperò le risate banania su tutti i muri di
Francia.
Perché i poeti cantano i fiori artificiali delle notti di Montparnasse
Cantano l’indifferenza delle chiatte sui canali di moire e di simarre
Cantano la raffinata disperazione dei poeti tubercolotici
Perché i poeti cantano i sogni dei clochard sotto l’eleganza di bianchi ponti
Perché i poeti cantano gli eroi, e il vostro riso non è sincero, la vostra pelle nera non è classica.

Ah! Non dite che non amo la Francia – Non sono la Francia, lo so –
So che questo infuocato popolo, ogni volta che ha avuto libere le mani
ha scritto fraternità sul fronte dei suoi monumenti.
Ha diviso fame dello spirito e di libertà
a tutti i popoli della terra solennemente invitati alla festività cattolica.
Ah! Non sono già abbastanza diviso? E perché questa bomba nel giardino tanto pazientemente conquistato sulle spine della savana?
Perché questa bomba sulla casa edificata pietra su
pietra?
Perdonatemi, Sira-Badral, perdonate stella del Sud del sangue mio
Perdona a tuo pronipote se ha spezzato una lancia per i sedici suoni del sorong
La nostra nuova nobiltà non è dominare il nostro popolo, ma d’esserne il ritmo, il cuore.
Non di brulicare le terre, ma come grano di miglio, corrompersi nella terra
Non d’essere il capo di un popolo, ma la sua bocca ed il suo corno.
Chi potrà cantarvi se non vostro fratello d’armi,
vostro fratello di sangue

Voi Tirailleurs senegalesi, fratelli neri dalla mano calda, coricati al gelo e alla morte?

Parigi, aprile 1940

Testi e traduzioni a cura di

Giulia Sonnante


ROSALIA DE CASTRO di Miriam Bruni

Nasce nel 1837 a Camino Novo, un sobborgo di Santiago di Compostela, (Galizia) ed è la figlia illegittima di un sacerdote e di una ragazza nubile di nobile famiglia.

Lo scandalo della sua nascita segna profondamente gli anni della sua infanzia, facendola sentire dolorosamente non conforme ai dettami della società del tempo. La sua vita è difficile, ma segnata fin dall’inizio da un amore immenso per la poesia.

Con la sua opera ricca e complessa, questa donna povera e tormentata, è riuscita a riabilitare la lingua gallega, dopo che per secoli era stata sminuita in favore del catalano e del castigliano.

Ella esprime nel suo temperamento malinconico e lirico il genius loci della sua terra, terra di horreos, i tradizionali granai galiziani, di ortensie blu, di boschi e di nebbie, di stregoneria e di mistero. L’atmosfera atlantica evocata dalla sua poesia è la dimensione tragica e fatale di Ananke, la dea del Destino e della Necessità. Sebbene si dedichi alla scrittura di numerose opere in prosa, tra cui Il cavaliere con gli stivali azzurri, pubblicato per la prima volta in Italia da Cliquot, la sua fama è legata maggiormente alla produzione poetica in galiziano e castigliano.

È considerata una delle figure chiave del movimento del Rexurdimento (Rinascimento) e la sua raccolta di versi Cantares Gallegos segna l’inizio della letteratura contemporanea in lingua galiziana. Proprio all’amore per la sua terra sono dedicati la maggior parte dei suoi versi.

In essi la de Castro si fa portavoce dello spirito del popolo, della sua irriducibile gioia di vivere, ma anche del dolore provato dai tanti immigrati costretti ad abbandonare la Galizia a causa delle difficili condizioni economiche.

Intorno al 1867, poco dopo la pubblicazione della sua opera poetica più famosa scritta in castigliano, En las orillas del Sar, inizia una fase più personale in cui Rosalía tocca temi quali la solitudine spirituale, la paura della morte, la precarietà dei sentimenti, la vanità di ogni cosa. Grazie a questi versi, dal carattere intimista e romantico, verrà considerata una pioniera della poesia spagnola moderna.

Muore a Padrón nel 1885.

Ecco il primo testo di  En las orillas del Sar, da me tradotto in italiano.

A través del follaje perenne

que oír deja rumores extraňos,

y entre un mar de ondulante verdura,

amorosa mansión de los pájaros,

desde mis ventanas veo

el templo que quise tanto.

El templo que tanto quise…,

pues no sé decir ya si le quiero,

que en el rudo vaivén que sin tregua

se agitan mis pensamientos,

dudo si el rencor adusto

vive unido al amor en mi pecho.

***

Tra il fogliame sempreverde

che fa udire strane voci,

e l’ondulato verde marino,

degli uccelli diletta dimora,

dalle mie finestre vedo

il tempio da me tanto amato.

Il tempio che ho tanto amato,

perché come posso dire di amarlo ancora?

Nella molesta e continua

dei miei pensieri altalena,

io dubito che il cupo rancore

possa vivere nel mio petto assieme all’amore.

Il resto dell’opera lo potete consultare qui:https://www.cervantesvirtual.com/obra-visor/en-las-orillas-del-sar–0/html/fedc3584-82b1-11df-acc7-002185ce6064_2.html

Lettura del testo in lingua originale

Miriam Bruni

Foto di Miriam Bruni in territorio galiziano, estate 2022
Foto di Miriam Bruni in territorio galiziano, estate 2022

La lingua delle tradizioni e la poetica nera di Nicolás Guillén (nota critica e traduzioni di Yuleisy Cruz Lezcano)

Vi sono poeti e poeti e, fra i poeti con la “P” maiuscola, c’è il poeta cubano Nicolás Guillén (1902-1989) il quale realizza un percorso che getta piena luce sulla cultura, le tradizioni ed il linguaggio informale/colloquiale cubani. Nella voce del poeta, la realtà, i luoghi s’invigoriscono di toni narrativi e musicali che divengono coscienza di ciò che manca, di ciò che serve all’uomo per esser tale, per mantenere le proprie radici e la propria dignità.

La poesia di Guillén non s’esprime in una lingua parallela a quella comune, ma prende origine da essa e attraverso linee misteriose, inventa un nuovo linguaggio, elabora nuovi modi espressivi diventando voce dello spirito patriottico, germoglio dell’emancipazione della classe creola, meticcia e dell’emancipazione latinoamericana.

L’evento della sua nascita, avvenuto casualmente a Cuba, da genitori domenicani, fa sì che il poeta senta forte il bisogno di un porto sicuro da cui partire per poter creare autenticamente. Quevedo, Góngora, Lope de Vega, Cervantes, i nomi che, per il poeta, sono vento favorevole alla partenza creativa. Guillén legge sistematicamente tali autori e, con gran profitto, pone le basi del proprio immaginario per incominciare a scrivere già all’età di 15 anni.

Ben presto, il poeta affianca il lavoro in tipografia alla composizione delle sue prime opere e, nel 1917, pubblica le sue prime composizioni su una rivista locale: “Camaguey Gráfico”; successivamente, sulle riviste “Orco” e “Castalia”, per poi far parte dell’antologia “Poetas jóvenes de Cuba”, nel 1923.

Nel tempo, il suo concetto di poesia subisce un’evoluzione aprendo un varco nuovo alla poesia “negrista” o “afrocubana” cubana, corrente iniziata a Cuba nel 1928.

La solida formazione unita all’estrema sensibilità di un poeta, cresciuto nel grembo di un popolo di tradizione e cultura cubane, rinforzano la capacità di seguire un processo dialettico che segna profondamente quel particolare periodo storico, non solo elevando l’estetica di forme puramente popolari, ma innalzando a categoria poetica l’evoluzione delle masse cubane. Infatti, il testo Sóngori cosongo, con i motivi del “son” cubano incorporati, diviene preludio di una sinfonia per incamminarsi verso una nuova identità culturale.

seguono “Cantos para soldados” (Canti per soldati) e “Poema en Cuatro angustias y una esperanza” (Piena in quattro angosce e una speranza) pubblicati in Messico, del quale riporto qualche verso tradotto in italiano.

“Io,

figlio di America

figlio di te e di Africa

(…)

io, figlio di America

corro verso di te, muoio per te.”

“Yo,

hijo de América,

hijo de ti

y de Africa

(…)

io, hijo de América,

corro hacia ti

muero por ti.”

La poesia seguente è una franca esultanza, che si nutre di ritmi e stimola ad andare avanti. Dal libro “Cerebro y corazón”, 1922

Parole fondamentali

Fa’ che la tua vita sia

campana che rintocchi

o solco in cui fiorisca e fruttifichi
l’albero luminoso dell’idea.
Alza la tua voce sulla voce senza nome
di tutti gli altri, e fa’ che si veda
accanto al poeta, l’uomo.

Colma il tuo spirito d’ardore;
cerca la più ripida vetta,

e se il sostegno nodoso del tuo bastone
incontra qualche ostacolo al tuo intento,
scuoti l’ala della baldanza

di fronte alla baldanza dell’ostacolo

Palabras fundamentales

Haz que tu vida sea

campana que repique

o surco en qué florezca y fructifique

el árbol luminoso de la idea.

Alza tu voz sobre la voz sin nombre

de todos los demás, y haz que se vea

juntos al poeta, el hombre

Llena todo tu espíritu de lumbre;

busca el empinamiento de la cumbre,

y si el sostén nudoso de tu báculo

encuentra algún obstáculo a tu intento,

¡sacude el ala del atrevimiento

ante el atrevimiento del obstáculo.

Dal libro “Poemas de transición” (1927-1931)

Ponte

Lontano?

C’è un arco teso

che fa viaggiare la freccia

della tua voce

Alto?

C’è un’ala che rema

dritta, verso il sole.

Da polo a polo c’è una

segreta informazione.

Cos’altro?

Essere vigili

per il duro remare;

e tutta l’anima aperta

spalancata.

Puente

¿Lejos?

Hay un arco tendido

que hace viajar la flecha

de tu voz.

¿Alto?

Hay un ala que rema

recta, hacia el sol.

De polo a polo hay una

secreta información.

¿Qué más?

Estar alerta

para el duro remar;

y toda el alma abierta

de par en par.

Viaggio interiore

Sto progettando un viaggio verso me stesso.
Là saluterò i miei vecchi amici,
stringerò mani remote,

riaprirò percorsi
abbandonati e calpesterò di nuovo sentieri solitari.

Sento di avere molte cose
nuove dentro il mio stesso oblio.
Tutto sarà diverso,

cambiato, sconosciuto.

Ma, quando verrò a cercarti
ti troverò come sempre:

morta tra i due, il volto steso a terra.
Morta, alla fine. Solamente morta.

Viaje interior

Tengo en proyecto un viaje hacia mí mismo.

Allí saludaré viejos amigos,

estrecharé manos remotas,

destupiré caminos

abandonados y pisaré de nuevo sendas solas.

Deve de haber muchas cosas

nuevas en mí dentro de mi propio olvido.

Todo estará distinto,

cambiado, desconocido.

Però, cuando vaya a Buscarte

te encontraré lo mismo:

muerta en los dos, el rostro hacia la tierra.

Muerta, por fin. Bien muerta.

Dal libro Sóngoro cosongo

Canto nero

Yambambó, yambambé!
replica il congo solongo,
replica il nero ben nero;
congo solongo del Songo
balla yambó sopra un piede.

Mamatomba,
serembe cuserembá.

Il nero canta e si sbornia,
il nero si sbornia e canta,
il nero canta e se ne va.
Acuememe serembó,
aé;
yambó,
aé.

Tamba, tamba, tamba, tamba, tamba
del nero che cade;
tomba del nero, caramba, caramba,
che il nero cade:
yamba, yambó, yambambé!

Canto negro

¡Yambambó, yambambé!

Repica el congo solongo,

repica el negro bien negro;

congo solongo del Songo

Baila yambó sobre un pie.

Mamatomba

serembe cuserembá

El negro canta y se ajuma,

el negro se ajuma y canta,

el negro canta y se va.

Acuememe serembó,

aé;

yambó,

Tamba, tamba, tamba, tamba,

tamba del negro que tumba;

tumba del negro, caramba,

caramba, que el negro tumba:

¡yamba, yambó, yambambé!

Yuleisy Cruz Lezcano

ANNE BRADSTREET: la Poetessa del Mayflower tra Finito ed Infinito

Anne Bradstreet nacque a Northampton, in Inghilterra.(1612 – 13 -1672) Era la figlia di Thomas Dudley e Dorothy Yorke. Suo padre era l’amministratore del Conte di Lincoln. Il buono stato della sua famiglia l’ha aiutata ad avere una buona educazione e educazione. Durante i suoi anni di crescita, ad Anne fu insegnata storia, diverse lingue e letteratura. Era sposata con Simon Bradstreet all’età di sedici anni. Nel 1630, a bordo della nave Arbella che faceva parte della flotta Winthrop degli emigranti puritani, Anne, Simon e i suoi genitori immigrarono in America. Raggiunsero l’America il 14 giugno 1630 in quello che oggi è il Pioneer Village (Salem, Massachusetts).

Il conflitto tra l’effimero e l’eterno, la meditata celebrazione della gloria divina e il tentativo di percepire l’invisibile attraverso il visibile; ma anche l’affermazione della dignità femminile nella storia, l’amore per i figli e quello per il marito di cui si dichiara, velato dalle metafore, il desiderio fisico…

È questa la materia che nutre i versi di ANNE BRADSTREET, pima poetessa e capostipite della letteratura creativa dell’America coloniale, che alla scrittura affida il compito di riscattarla dalle costrizioni dell’esilio, di sottrarla alla perdita della memoria d’una cultura rinascimentale in cui si affaccia la sensibilità barocca.

Lettera al marito assente per un impegno pubblico

Mente mia, cuor mio, miei occhi, vita mia, anzi di più,

mia gioia, mia riserva di beni terreni,

se due sono uno, come di certo siamo noi,

come puoi indugiare lì mentr’io languisco a Ipswich?

Quanti gradini separano il capo dal cuore,

se non avessimo un collo presto saremmo insieme.

Come la terra in questa stagione, nel lutto mi oscuro,

così lontano il mio sole si è spento nello zodiaco,

mentre quando di lui gioivo, né tempeste né gelo sentivo,

il suo calore scioglieva quel freddo glaciale.

Le mie gelide membra ora intorpidite giacciono inermi;

torna, torna dal Capricorno dolce sole;

in questi tempi morti, ahimé cos’altro mi resta

se non contemplare quei frutti che generali col tuo calore?

Per qualche tempo mi danno un dolce appagamento,

reali immagini viventi del volto paterno.

Oh singolare conseguenza! Ora che sei andato verso sud,

stancamente prolungo la noia del giorno,

ma quando tornerai da me al nord,

voglio che il mio sole non tramonti mai, ma dardeggi

nel Cancro del mio seno ardente,

accogliente dimora di colui che è per me l’ospite più caro.

Lì sempre, sempre rimani e mai non te ne andare,

finché la triste legge della natura da lì ti chiamerà;

carne della tua carne, ossa delle tue ossa,

io qui, tu lì, eppure entrambi una sola persona.

                                                                                                          A.B.

***

A Letter to her Husband, absent upon Publick employment

My head, my heart, my Eyes, my life, nay more,

My joy, my Magazine of earthly store,

If two be one, as surely thou and I,

How stayest thou there, whilst I at Ipswich lye?

So many steps, head from the heart sever:

If but a neck, soon should we be together:

I like the earth this season, mourn in black,

My Sun is gone so far in’s Zodiack,

Whom whilst I joy’d, nor storms, nor frosts I felt,

His warmth such frigid colds did come to melt.

My chilled limbs now nummed lye forlorn;  

Return, return, sweet Sol from Capricorn;

In this dead time, alas, what can I more

Then view those fruits which through thy heart I bore?

Which sweet contentment yield me for a space,

True living Pictures of their fathers face.

O strange effect! Now thou art Southward gone,

I weary grow, the tedious day so long;

But when thou Northward to me shalt return,

I wish my Sun may never set, but burn

Within the Cancer of my glowing breast,

The welcome house of him my dearest guest.

Where ever, ever stay and go not thence,

Till natures sad decree shall call thee hence;

Flesh of thy flesh, bone of thy bone,

I here, thou there, yet both but one.

[1641-43]

La lirica sopra riportata non è che un lungo lamento per l’assenza del marito, lontano per un impegno pubblico. Qui la poetessa che esprime il desiderio fisico, velato dalla metafora, propone il tema dell’unità di mondi distanti; il capo, a cui fa riferimento nei primi versi, richiama alla razionalità che è prerogativa maschile; il cuore, e per estensione il sentimento, appartiene invece al femminile. Il capo e il cuore, parti di un unico corpo, sono dunque separati dal collo che unisce e separa ad un tempo. Il collo è anche immagine fallica che unisce l’uomo alla donna. C’è inoltre il riferimento agli “steps” che richiamano l’immagine del patibolo in cui la testa viene separata dal resto del corpo. Si tratta dunque di una lirica che potremmo definire anche erotica in cui i riferimenti al Nord (Northward) richiamano l’attività sessuale; il sud, invece, indica inattività.  

Sull’incendio della nostra casa

Mentre riposavo nella notta silente

non mi aspettavo l’irrompere d’un dolore,

fui destata dall’eco di un frastuono

e dalle grida pietose d’una voce agghiacciante.

Quel terribile suono, al fuoco, al fuoco,

vorrei che mai nessuno udisse.

Balzando in piedi spiai il bagliore,

e al mio Dio il cuore grido

di darmi forza nel dolore,

di non lasciarmi priva di soccorso.

Poi uscendo osservai un momento

la fiamma consumare il mio ritrovo.

E quando più non potei sopportare la vista

benedissi il nome di colui a cui spetta dare e sottrarre,

che disperdeva ora i miei beni tra la polvere.

Sì, così era e così era giusto.

Ogni cosa era sua e non mia,

non sia mai detto che me ne lamenti.

Avrebbe potuto a buon diritto privarci di tutto,

eppure ci lasciava quanto basta.

Quando spesso passavo accanto alle macerie

volgevo altrove il mio sguardo dolente

e qua e là spiavo i luoghi

ove spesso sedevo e a lungo restavo.

Qui c’era quel baule e lì la cassapanca,

là s’appoggiava la credenza che ritenevo la migliore,

le mie cose più belle son ridotte in cenere

e mai più potrò vederle.

Sotto il tuo tetto non siederà alcun ospite,

né alla tua tavola consumerà un boccone.

***

Upon the burning of our house

In silent night when rest I took,

For sorrow neer I did not look,

I waken’d was with thundering nois

And Piteous shrieks of dreadful voice.

That fearful sound of fire and fire,

Let no man know is my Desire.

I, starting up, the light did spye,

And to my God my heart did cry

To strengthen me in my Distresse

And not to leave me succourlesse.

Then coming out beheld a space,

The flame consume my dwelling place.

And when I could no longer look,

I blest his Name that gave and took.

That layd my goods now in the dust:

Yea so it was, and so ‘twas just.

It was his own: it was not mine;

Far be it, that I should repine.

He might of All justly bereft,

But yet sufficient for us left.

When by the Ruines Oft I past,

My sorrowing eyes aside did cast,

And here and there the places spye

Where oft I sate, and long did lye.

Here stood the Trunk, and there that chest;

There lay that store I counted best:

My pleasant things in ashes lye,

And them behold no more shall I.

Under thy roof no guest shall sitt,

Nor at thy Table eat a bitt.

Upon the burning of our house è tra gli “occasional poems” cioè quelle composizioni scaturite da un evento contingente, in questo caso l’incendio di cui è oggetto la sua dimora. Questo rovinoso evento diviene occasione per riflettere sulla vita terrena e sulla presenza di Dio.

La Bradstreet non mostra una fede cieca ma appare spesso rivolta alla materialità delle cose terrene. Tuttavia, in questa lirica ella recupera il valore della consolazione che Dio dona all’Uomo attraverso la Speranza.


I testi in lingua originale e le traduzioni sono tratti da: MICHELE BOTTALICO, TRA CIELO E TERRA – La poesia di Anne Bradstreet , Pubblicato da Palomar di Alternative, Bari, 1996.

Testi raccolti da Giulia Sonnante

Tutto accade per non accadere: Katherine e James nei sentieri del racconto

Greenwich Park, Londra

Katherine Mansfield

Lungo i viali di Greenwich Park scorgo un uomo alto e magro, occhialini e borsalino, parla fittamente con una giovane donna: sguardo di poiana, pelle di cera; lei stringe lo scialle nelle spalle, lui sfiora il baffetto, sembrano essere James Joyce (1882 – 1941) e Katherine Mansfield (1888 –  1923); chissà di cosa parlano, intanto s’incamminano, l’uno accanto all’altra, nei sentieri del racconto.

Per Katherine e James, l’arte del rappresentare si raccoglie intorno ad oggetti sempre diversi che subito si fanno simboli per rivelarci quel che è nascosto, profondo. Ma occorre scavare a mani nude sotto la neve perché, nei racconti della Mansfield come in quelli di Joyce, si ha la sensazione che nulla accada.

Immaginavo Katherine sulla spiaggia di Piha, in Nuova Zelanda, là dove il suono delle onde dell’amica Virginia1si confonde alle note del pianoforte di Jane Campion2. La pensavo così, Katherine, con la stilografica tra le dita a dipingere il cielo d’un azzurro chiaro, tratteggiare paesaggi, fiori, dolci gorgoglii tra sassi di mare:

Casa sulla spiaggia da At the Bay, Wellington, ph. Maggie Rainey Smith

Ah-Aah! sounded the sleepy sea. And from the bush there came the sound of little streams flowing, quickly, lightly, slipping between the smooth stones, gushing into ferny basins and out again; and there was the splashing of big drops on large leaves and something else–what was it? — a faint stirring and shaking, the snapping of a twig and then such silence that it seemed some one was listening.3

Percepibile nella versione originale, l’autrice crea un effetto sibilante attraverso la reiterazione del suono della “S” che si unisce ad un gioco di assonanze per ottenere uno straordinario riverbero musicale comparabile forse all’antico suono della Kalimba.

Come in “Mrs. Dalloway” (1925) della Woolf o in “Ulysses” (1920) di Joyce, anche in “At the Bay” (1922) della Mansfield, l’azione si svolge in un’unica giornata ma, in effetti, manca, qui, una vera e propria trama; i Burnells e i Trouts sembrano latitare, spingersi leggeri tra prati in fiore e corse in mare: tutto accade per non accadere, è questa l’epifania, la rivelazione.

Mentre in “At the Bay” l’autrice sembra incantata dai suoni della baia come mare in una conchiglia, Il racconto “Prelude” (1920) si apre, invece, con Kezia e Lottie, due bambine, ma è sulle figure femminili della generazione precedente, Linda e Beryl, che si concentra l’attenzione. Linda ha un marito, una casa e dei bambini di cui uno in arrivo; Beryl, la sorella non sposata, invece, cresce sempre più in amarezza per la mancata realizzazione sentimentale. In realtà, Beryl aspira a realizzare il suo sogno d’amore: “a new, wonderful, far more thrilling and exciting world than the daylight one”4 ma, quando Harry Kember le propone di uscire, si ritrae, terrorizzata, non riuscirà ad oltrepassare il cancello di casa: è questa la svolta mancata.

Con Beryl che indietreggia davanti ad una piccola pozza di buio: ‘ a little pit of darkness’, il pensiero corre veloce a Eveline in “Dubliners” (1914) di James Joyce; anch’ella, come Beryl, ha l’opportunità di cambiare la vita, ma alla resa dei conti si dimostrerà incapace di abbandonare la routine familiare.

“She stood up in a sudden impulse of terror. Escape! She must escape! Frank would save her. He would give her life, perhaps love, too. But she wanted to live. Why should she be unhappy? She had a right to happiness. Frank would take her in his arms, fold her in his arms. He would save her”5.

Quando Frank le urlerà di seguirlo, Eveline sarà come paralizzata, “i suoi occhi non gli dettero il minimo segno d’amore o di addio o di riconoscimento.”6

Si dispiegano come sete fruscianti le vite interdette nella silloge Joyciana; nel racconto d’apertura: “The Sisters”, l’attenzione sembra concentrarsi sul paralitico Padre Flynn, eppure il titolo suggerisce che la paralisi sia estesa anche alle sorelle le quali proprio per favorire il fratello James, la sua formazione religiosa e la carriera, conducono una vita non soltanto povera ma anche ingrigita dalle convenzioni sociali che le vogliono non realizzate, in una parola, represse.

Incapace di mutare direzione è anche Jonathan Strout in “At the Bay”: pur sentendosi prigioniero di un lavoro del quale vorrebbe liberarsi, Jonathan, resta seduto sul trespolo a scarabocchiar registri: “Tell me, what is the difference between my life and that of an ordinary prisoner? The only difference I can see is that I put myself in jail and nobody’s ever going to let me out.”7

E come dolce sciacquio, torna alla memoria Little Chandler, in “A little Cloud” di Joyce: qui, il protagonista è consapevole di non poter trasferirsi altrove poiché Londra o Parigi sarebbero ugualmente deludenti per lui. L’epifania del Piccolo Chandler è, dunque, in una nuvoletta da cui cadono soltanto poche gocce sopra la sua desolata esistenza che neppure la nuova paternità riuscirà a ravvivare, anzi sarà motivo di frustrazione.

Ed ecco che, sia nella Mansfield che in Joyce, il senso sembra mancare, ma quel che pare sfocato, in realtà, è ben delineato, quel che appare superficiale, è profondo perché la fuga è la soluzione cui tendono i personaggi come lontano miraggio nel deserto.  

Memoriale a Katherine Mansfield

In “At the Bay”, Kezia vuol che la nonna non la lasci mai: “Promise me! Say never”8. Ma il tema della morte non viene in realtà affrontato; i personaggi rasentano il baratro per poi finire in una bolla di risa e scherno. “Say never, say never, say never, gurgled Kezia, while they lay there laughing in each other’s arms”9. Così è anche in “The Garden Party” (1921) in cui una giornata ideale per una festa in giardino sembra inficiata dalla improvvisa morte del vicino, ma la festa si terrà e Laura, di ritorno dalla casa del defunto, asciugherà le lacrime sfiorando un senso di gratitudine per la vita.

di Giuliana Sonnante

È comprensibile che la Mansfield sfiori soltanto il tema della morte se consideriamo che ella combatte strenuamente contro la tubercolosi. Lo sentiamo nell’amore che prova osservando la vita in tutte le sue più piccole manifestazioni prima di farne parola, disciplinata scrittura. Lei che vuole solo vivere al sole della sua baia e scrivere senza preconcetti. Così Pietro Citati:

Sebbene la tisi non le appartenesse, aveva compreso che la malattia era la condizione più adatta allo scrivere: le faceva sentire acutamente come tutte le cose passino troppo presto: rendeva le figure ricche, importanti e desiderate, come quando un bambino malato è chiuso in esilio nella propria stanza, mentre dalla porta e dalle finestre penetrano i rumori, il frastuono e le luci, tutto quello che accadeva oltre era meraviglioso. […] “Ogni artista” annotò sul diario “si taglia un’orecchia e la inchioda alla porta, perché gli altri vengano a gridarci dentro10

Se la morte s’allunga come ombra fastidiosa, un’apparente immobilità distingue anche “A Man Without a Temperament “in cui un uomo senza carattere sembra essere alle dipendenze di una donna bisognosa d’assistenza pur essendone, in realtà, il marito. Così Robert, marito di Jinnie, non fa che rigirare l’anello al dito in attesa del successivo comando. “He stood at the hall door turning the ring, turning the heavy signet ring upon his little finger while his glance travelled coolly, deliberately, over the round tables and basket chairs scattered about the glassed-in veranda”11. Ma se il lettore non riesce a simpatizzare col protagonista che appare “stiff”, rigido, come il braccio su cui Jinnie si poggia, la narrazione sembra mossa dal ricordo di Londra che coincide per Robert con la vita. Ma il protagonista non cambierà il suo atteggiamento, si desterà ad ogni scalpiccio della moglie pur essendo da lei spiritualmente distante. Crescerà, certo, il suo discontento, straordinaria è la capacità di rendere la tensione psicologica del protagonista, ma non si ha la sensazione che egli possa mutare la sua posizione. Una costante dei racconti della Mansfield è forse proprio la sospensione; l’autrice non cerca un lieto fine come spesso accade nei romanzi ottocenteschi, ma lascia il lettore sospeso, incerto sulla soglia del racconto.

Il cielo è carico di neve mentre Katherine e James s’incamminano verso la strada collinare di Maze Hill che delimita il confine orientale di Greenwich Park. James sistema il borsalino sulla testa di lei per ripararle il capo e intanto non può non pensare a Michael Furey, morto per amore della sua Gretta: il primo amore di cui suo marito Gabriel non sapeva e che forse così intenso non aveva mai vissuto. Non può non pensare alla sua gente, alla gente di Dublino, paralizzata dalla spessa coltre delle abitudini, delle convenzioni sociali, della ritualità delle feste religiose sempre uguali a loro stesse.

“C’era neve dappertutto in Irlanda, cadeva ovunque nella buia pianura centrale, sulle nude colline; cadeva soffice sulla palude di Allen e più a ovest sulle nere, tumultuose onde dello Shannon. Cadeva in ogni canto del cimitero deserto, lassù sulla collina dov’era sepolto Michael Fury. S’ammucchiava alta sulle croci contorte, sulle pietre tombali, sulle punte del cancello, sugli spogli roveti. E la sua anima gli svanì adagio adagio nel sonno mentre udiva lieve cadere la neve sull’universo, e cadere lieve come la discesa della loro estrema fine sui vivi e sui morti.“12

È calda la neve per Gabriel perché egli è forse l’unico a destarsi dal lungo sonno nel quale Dublino è piombata. E la calda neve, mi riporta a quello straordinario ossimoro che brucia sotto un candido oblio:

Winter kept us warm, covering

Earth in forgetful snow, feeding

A little life with dried tubers13.

Castello di Vanbrugh 1699-1712

Presso il castello di Vanbrugh, in lontananza, Katherine e James si fanno invisibili all’orizzonte, ma, di certo, giganti tra le pagine mentre, uscendo dalla stazione di Maze Hill, mi ritroverò in Tom Smith Close e da lì potrò percorrere la strada in discesa e raggiungere Trafalgar Road…

Giulia Sonnante


1. Virginia Woolf (1882-1941)

2. Jane Campion, regista, sceneggiatrice e produttrice neozelandese nasce a Wellington il 30 aprile 1954

3.[Ah – Aah! Echeggiò il mare tranquillo. E più in là da quel cespuglio giungeva il suono di ruscelletti che scorrevano veloci, leggeri, scivolando tra sassi levigati per riversarsi in bacini di felci e poi, di nuovo, zampillare; ed il tuffarsi di grandi gocce su ampie foglie e ancora—- cos’era? Qualcosa si agitava debolmente e crepitava, lo spezzarsi d’un ramoscello e poi un tale silenzio che sembrava qualcuno stesse ascoltando”] traduzione di chi scrive: K. Mansfield, The Garden Party and Other stories, Penguin Twentieth Century Classics, London, 1997 p. 5.

4. [Un mondo nuovo, meraviglioso, di gran lunga più emozionante ed eccitante della luce odierna] traduzione di chi scrive.

5. [Balzò in piedi spinta da un terrore improvviso. Fuggire! Doveva Fuggire! Frank l’avrebbe portata in salvo, le avrebbe dato la vita e forse anche l’amore. Lei voleva vivere davvero. Perché avrebbe dovuto essere infelice? Aveva diritto anche lei alla felicità. Frank l’avrebbe presa tra le braccia, l’avrebbe stretta: l’avrebbe salvata.] Trad. di Attilio Brilli in J. Joyce, Gente di Dublino, Classici Mondadori, Milano, 1987.

6. Ibid. pag. 33.

7. K. Mansfield, in op. cit. [“Dimmi, quale differenza c’è tra la mia vita e quella di un comune prigioniero? L’unica differenza che riesco a vedere è che sono io stesso a mettermi in prigione e mai nessuno mi tirerà fuori da lì] trad. mia p. 31

8.K. Mansfield, in op. cit. [Promettimelo, di’ mai] p. 23. Traduzione di chi scrive

9. Ibid. [di’ mai, di’ mai, di’ mai barbugliò Kezia mentre restavano lì a ridere ognuna nelle braccia dell’altra] p. 23 traduzione di chi scrive.

10. Pietro Citati, Vita Breve di Katherine Mansfield, Adelphi Edizioni, Milano, 2014 p. 83-4.

11. A Man Without a Temperament (1920) il racconto in formato digitale è disponibile sul sito della Katherine Mansfield Society http://www.katherinemansfieldsociety.org [stava all’entrata della hall, rigirando l’anello, rigirando il pesante anello con sigillo, intorno al dito mignolo, mentre il suo sguardo vagava freddamente, deliberatamente, sui tavoli rotondi e sulle poltroncine di vimini sparpagliate intorno alla veranda vetrata. ] p. 1. Traduzione di chi scrive.

12. James Joyce Gente di Dublino, Oscar Mondadori, Milano, 1987 – I Morti –  p. 208 nella traduzione di Attilio Brilli.

13.T.S. Eliot, La sepoltura dei morti in “La terra desolata” 1922 [L’inverno ci mantenne al caldo, ottuse / con immemore neve la terra, / nutrì Con secchi tuberi una vita misera] traduzione di Roberto Sanesi, in La terra Desolata Classici Moderni, Rizzoli, Milano, 2013

29 Note – Poesie di Antonella Vairano: nell’ampia periferia dell’amore

Amedeo Modigliani
Jeanne Hébuterne

Gli occhi cerulei di Jeanne Hébuterne, giovane pittrice parigina, (1898 – 1920) trafissero quelli di Amedeo Modigliani (1884 – 1920) quando, per la prima volta, s’incrociarono per le vie d’una vitalissima Montmartre in una Parigi di inizio Novecento, lì dove, tra caffè letterari illuminati dalle luci della Belle Époque, locande dell’ultima ora e laboratori d’arte, s’incontravano, per caso o per destino, pittori quali Marc Chagall (1887 – 1985), Maurice Utrillo (1883 – 1955) o scrittrici quali Geltrude Stein (1874 – 1974) con Alice B. Toklas (1877 – 1967)1

A. Vairano, 29 Note – Poesie, Youcanprint, 2018

Nella sua casa di Montmartre, Modigliani amò dipingere quegli occhi, tanto chiari da sembrare vuoti, sopra un viso variamente reclinato così come tante sono le declinazioni dell’amore. Ed è proprio la sfrenata passione tra Modì e Jeanne, terminata tragicamente, ad ispirare Antonella Vairano nell’opera d’esordio: 29 Note – Poesie. 

Abbiamo l’impressione di elevarci, di salire ad alta quota dove l’aria si fa rarefatta, il respiro corto e tremanti le ginocchia, perché l’autrice scrive d’amore.    

Ci chiediamo se sia possibile scrivere d’amore, oggi tra le macerie delle città martoriate o nei sotterranei affollati delle metropolitane. Ed in quale modo?

L’autrice raccoglie la sfida: scende in strada, percorre caliginosi vicoli, si spinge negli anfratti più bui dell’amore, città eternamente cinta da alte mura imbrattate di vita: “S’ingorda di bianche pareti / e s’affolla di rosso potente. (…) Sono i miei azzardi / che si sciolgono / nell’ordine / di due lune allineate.” (dalla lirica: Vita).

Max Jacob, Château des Brouillards, 1918, olio su tavola (collezione Le Vieux Montmartre)

Ella non esalta l’amore inteso come valore da preservare, ma lo osserva nella relazione amorosa tratteggiandone le emozioni. Per questo, esso non cede mai a vani sentimentalismi o inutili smancerie, è sostanza prima, sale della terra. Così ella scrive: “S’affaticano le parole / e d’essere ne vorrebbero dell’amore / pane carne e sangue. […] S’infiammano le parole / e d’essere sono la riga profonda / del pregevole marmo.” (da: Cos’è l’amore). L’amore dunque si fa sanguigno, essenziale ed il suo verso, carnale. Non una poesia imbellettata, sentimentale, ma del sentire d’amore nella quale il corpo, involucro dell’anima, diviene doloroso bersaglio: “Brucia. / E quanto brucia. / Lacrime ingravidano / nel ventre, / raccolte da voli stanchi.” (da: Brandelli)

Si scorge, dunque, nei versi d’amore della Vairano, la stessa impetuosa carnalità che rintracciamo in Marina Cvetaeva: “Vandalo in un’aureola / di vento! Riconosco / l’amore dallo strappo / delle più fedeli corde / vocali: ruggine, crudo sale / nella strettoia della gola.” (da: Scusate l’Amore. Poesie, 1915-1925)

L’amore dunque può essere bruciante: “Squarci invalidi / infettati / da lame arrugginite / Sotto la colonna di carne. / Sola. / Già trita.” (da: Brandelli) Ma, qui, gli strati di senso sembrano sovrapporsi, anzi, il significato letterale sembra scalzare quello metaforico poiché abbiamo l’impressione che l’autrice rappresenti il parto nel suo doloroso divenire: “Passione necessaria / che non vuole finire.” (da: brandelli)

     È un viaggio, l’amore, nel quale l’autrice perde sé stessa per divenire nell’altro: “Costruiamo corpo tuo e corpo mio. […] Fa’ che mi perda / come la partenza senza il viaggio. / Sei l’iscrizione marchiata / nel mio osso. (da: Fly high). Ma l’amore è anche contraddizione, moltitudine di pensieri ed emozioni: “La mia porta sarà la tua / fortezza alloggiata. / Non mi perdo, amore. / Alberi d’aranci intorno. (da: Alberi d’aranci) Sembra essere centrata sulla distanza, questa nota poetica, nella quale l’autrice, lontana dalle facce sfogliate velocemente, sperimenta il vuoto di giorni inutili in assenza dell’amato: “Non voglio il mondo di facce. / Misura colma. / Sbandati giorni / che non uso. / Appendo il solco. / Mastico vita e mangio amore.” (da: Alberi d’aranci)

Percorrendo le vie di quest’amore, ci imbattiamo in una lirica che è un’impetrazione, accorata supplica nella quale l’autrice chiede che si spengano le luci, si chiudano i rossi sipari, si ammainino le vele perché ella possa sentire il proprio dolore nel profondo di sé: “Ed ora per favore / per favore vi chiedo / spegnete le luci / serrate sicure le chiavi / nelle serrature. / Chiudete i sipari /dal pesante velluto di porpora.” (da: Preghiera). Risuonano, qui, lontani echi di un altro intenso dolore perché, nel cielo ultimo della Poesia, i versi possono stringersi contaminandosi: “Stop all the clocks, cut off the telephone, / Prevent the dog from barking with a juicy bone, / Silence the pianos and with muffled drum / Bring out the coffin, let the mourners come.” (W. H. Auden, Funeral Blues, 1938)2

L’amore è anche e soprattutto coraggio ed ecco che l’autrice invoca l’amato affinché la spinga fuori dalla sua tana: “Stanami dal sedimento. / Stanami dall’inerzia / Prendi l’acqua che sazia l’argine e il desiderio / brucia la tana che corre l’ombra al contrario”. (da: Sole obliquo) Solo l’amore, dunque, può risvegliarci dal lungo sonno, trarci dalle nostre nicchie interiori, dalle caverne buie nelle quali scorgiamo soltanto un barbaglio, una tremula ombra, non la piena luce. “I slept, say: a snake / Masked among black rocks as a black rock / In the white hiatus of winter – “(da: Love Letter, 1962)3

È questo il sonno di Sylvia Plath dal quale ella riesce a risvegliarsi grazie all’amore. Per la Vairano, invece, è l’inerzia, la stanchezza, l’ignavia, l’altra faccia dell’amore; così, illuminato il volto, l’autrice scrive: “E m’investe l’amore. / Ed io ubriaca / m’involgo / nella città prima. / Scalza d’amore, / sulla via dell’amore.” (da: Inside)

Come pagliuzza d’oro è, l’amore, e noi, cercatori di Jamestown, lo inseguiamo quasi disperatamente. Per questo, quando, per incanto, lo stringiamo tra le mani, anche solo per un attimo, non sappiamo più dimenticarlo. È questo il senso, la pagliuzza dorata che rinveniamo sul greto di “La ballata della poesia”: “Non credi / devi / tocchi e senti / ad antiche promesse / di non essere / pensiero e memoria. / Il tempo ti ha tradito / e la poesia ha perso”. Promettiamo, ci imponiamo di non ricordare quell’amore ormai finito ma, il tempo ci tradisce, sgambetta, rovesciando in terra il sacchetto dei ricordi.

Tra memoria e oblio, rabbia e gioia, nella grande periferia della città eterna, scorgiamo una bambinetta vestita di rosa, ha scarpe di pezza e bocca ancora sporca di latte.  È incerta sulle fragili caviglie ed inciampa in un foglio di giornale: è la lirica “Mani” che s’incammina, lenta, sulla via della tenerezza e del sogno: “M’importa del sogno. / Stordisci la mia sentenza / e la mia virtù / E facciamo questa scena: / tu abbracciami delicato.”

Sole obliquo

(di Antonella Vairano da: 29 note – Poesie, 2018)

Stanami amor mio

Stanami dal sedimento

Stanami dall’inerzia.

Prendi l’acqua che sazia l’argine e il desiderio

Brucia la tana che corre l’ombra al contrario.

Sei meraviglia

E danza semplice

E anche eco

E affanno forte.

Sei dimora

E confine notturno.

Moriamo dentro….

In questo sole obliquo

Di città e distanze.

Periferia urbana, Torino

Slanting Sun

(traduzione in inglese di Giulia Sonnante)

Drive me out my love

Drive me out of sediment

Drive me out of idleness

Take water that satisfies banks and desire.

Burn the den that edges shadows inside out  

You are a marvel

and mere dance.

Also an echo

and deep concern as well.

You are a dwelling place

and a night boundary.

We die deep inside….

Under this slanting sun

of cities and distance.

Giulia Sonnante

Antonella Vairano

  1. All’amore di Geltrude e Alice è ispirata la poesia di Antonella Vairano “Lettera di Stein”, disponibile per l’ascolto sul canale Youtube dell’autrice.
  2. [Fermate tutti gli orologi, isolate il telefono, / Fate tacere il cane con un osso succulento, chiudete i pianoforti e con un rullio smorzato / portate fuori il feretro, lasciate che giungano i dolenti] traduzione di Giulia Sonnante
  3. [Diciamo che ho dormito, un serpente/ Mascherato da sasso nero tra i sassi neri / nel bianco iato dell’inverno] traduzione di Anna Ravano.

LA POESIA COME ATTO RIBELLE

La poesia è un atto generativo, un atto feroce, a volte, che si spinge oltra la parola, generativa di mondi, per dirla alla Celan, e, nello stesso tempo, ribelle nel suo umile e audace modo di resistere al mondo.

Non c’è atto poetico che non sia anche atto ribelle, ancor più quando la poesia viene da quelle poete che hanno dato un contributo importante alla costruzione di una visione politica della poesia: la poesia è atto eversivo e, quindi, politico nel momento in cui provoca le coscienze e genera azioni, è azione della parola, o parola in azione e si fa istanza dialogica tra il poeta e la sua comunità. Mi vengono in mente alcune poete americane, come Adrienne Rich, poeta, saggista ed insegnante, vicina alle donne ed agli emarginati, mi vengono in mente le poete afroamericane, come Audre Lorde, Maya Angelou, Lucille Clifton.  Le ho scoperte per caso, queste poete, da una poesia di A. Rich, dedicata alla gente, la Rich descrive, in alcuni fotogrammi, la vita delle persone normali, che si fermano a leggere una poesia, seppur immerse nella loro quotidianità.

Adrienne Rich, 1929 – 2012

“So che stai leggendo questa poesia

in una stanza in cui è accaduto troppo che non puoi sopportare

dove i vestiti giacciono sul letto in cumuli stagnanti

e la valigia aperta parla di fughe ma non puoi ancora partire.

So che stai leggendo questa poesia in attesa di udire qualcosa, divisa tra amarezza e speranza, per poi tornate ai compiti che non puoi rifiutare.

So che stai leggendo questa poesia perché non c’è altro da leggere,

lì dove sei approdata, nuda come sei.”

Qualcuno aspetta il treno, all’uscita dall’ufficio, dopo una giornata di lavoro, una madre tiene in braccio suo figlio che piange, qualcun altro è davanti alla tv ad ascoltare le solite notizie ed in questa routine, qualcosa accade: la persona prende una pagina di libro e legge una poesia. E questo cambia ogni cosa, la poesia è capace di aprire uno squarcio, un momento di astrazione dalla vita, che procede deterministicamente, e quel momento in cui gli occhi sono sul testo, l’anima si solleva. Allora la poesia è un atto eversivo anche se per un solo momento ci permette di staccarci dalla corporeità del vivere, dal guardare senza davvero vedere, dal sentire senza alcun ascolto, ci permette di centrarci, di darci attenzione. Tutte queste poete hanno in comune la scelta di fare della propria poesia un atto ribelle, con stili differenti, ma in qualche modo vicini, hanno dato parola alla donna, alla donna nera, alla donna lesbica, all’emarginata, alla donna giovane, inesperta difronte alla vita, restituendole voce e dignità.

Audre Lorde, 1934 – 1992

«Per le donne la poesia non è un lusso. È una necessità vitale. Forma la qualità della luce all’interno della quale noi affermiamo le nostre speranze e i nostri sogni per la sopravvivenza e il cambiamento, prima sotto forma di linguaggio, poi di idea, infine di azione». Afferma Audre Lorde, la poeta «Nera, Lesbica, Madre, Guerriera, Poeta» come si autodefiniva.  La Lorde vive sulla sua pelle il razzismo ed il peso della diversità, perché nera, perché lesbica, perché donna. Pronuncia la sua audace parola nelle strade, generando un movimento di lotta per l’emancipazione femminile.

Bisognerebbe restituire fiducia alla parola, riconoscerle il potere di agire davvero il cambiamento, “ora prendi la mia parola come un gioiello in piena luce», dice la Lorde, la parola e la luce, la parola che illumina. E non finisce mai il tempo della rivolta, il tempo eversivo, in cui la parola si fa impegno civile per affermare i diritti e denunciare le ingiustizie, non finisce mai il tempo delle ingiustizie e, in ogni epoca, bisogna trovare gli strumenti per combatterle.

Tra questi vi è certamente la parola poetica, il suo valore educativo e pedagogico, quando si fa strumento per arrivare alle giovani generazioni, quando parla la loro lingua, quando rivendica il superamento del pregiudizio e dell’intolleranza.

Maya Angelou 1928 – 2014

Maya Angelou, poco conosciuta in Italia, è invece una delle poete afroamericane più amate, impegnata politicamente come militante ed attivista dei diritti degli afroamericani con Malcom X e Martin Luther King, una donna che viene dalla miseria, costretta a prostituirsi, divenne madre a soli 17 anni. La sua opera letteraria è stata molto prolifera, viene considerata un’influente intellettuale, una personalità che è riuscita ed ergersi, nonostante tutto, come nella sua famosa poesia ripete:

“…

In un’alba meravigliosamente chiara, mi sollevo.

Portando i doni che i miei antenati mi diedero,

io sono il sogno e la speranza dello schiavo.

Mi sollevo, mi sollevo, mi sollevo.”

Mi sollevo” ripete la poeta, come una litania, un canto di liberazione e di lutto insieme, un inno eversivo contro chi ha schiacciato nei secoli, le donne, i neri, le donne nere, gli emarginati, gli ultimi. Allora queste parole di resurrezione, di rinascita sono la vittoria dei deboli, la rivincita contro i soprusi e le ingiustizie del mondo, contro gli ingiusti.

«Appena sei guarito, va’ a guarire qualcun altro» afferma Maya Angelou, ed a me piace molto l’idea del prendermi cura dell’altro con la poesia, attraverso la parola poetica che è  parola terapeutica e liberatoria, parola che salva e ci porge la nostra fragilità come un bene prezioso di cui occuparci.

Lucille Clifton, 1936 – 2010

Ed infine, c’è lei, Lucille Clifton, poetessa, scrittrice ed educatrice, convinta femminista, ha parlato una lingua semplice e meticcia, nata dalla strada e di questa lingua rotta ha cantato la donna e la sua fragilità. La Clifton ripudia le maiuscole, vuol riportare la lingua all’uso quotidiano senza ambizioni di potere, le sue poesie sono brevi e fortemente evocative. Nella poesia dal titolo Qui ci sono draghi tuttora, la Clifton dice:

“…nella bocca del drago. da qualche parte

ci sono mostri i cui denti

sono affilati e luccicanti di gente

perduta. poesie perdute.”

In un tempo faticoso, come il nostro, dovremmo andare a riprenderci le parole dalla bocca di quel drago e salvarle, per salvarci con loro.

Mariatina Alò

Martin Luther King, 1929 – 1968 (insignito del Premio Nobel per la Pace, 1964)

IOLANDA INSANA: Una Ruminante della Parola   

Parole dense in un’esistenza ancora più densa, scorticata sino all’inverosimile. La guerra, i bombardamenti di Messina, il terremoto, le bestemmie, il dialetto acceso di sensi, la parola sempre affacciata nel nuovo di un’invenzione linguistica cucita dentro lo stomaco delle emozioni e dei significati.

Una ruminante della parola e del verso. Una fune sempre allungata nella tensione accesa verso pesi nuovi e schiuse ancora mai pensate.

vagarono per due giorni

cercandosi in mezzo alle rovine

della città morta

al terzo giorno arrivarono al Duomo

caduto per terra

Santuzza sbucando da corso Cavour

e Bastianu da via I Settembre

fu lui che la vide per primo

ed ebbe un colpo al cuore

ma corse e la baciò e l’abbracciò

lacrime e baci si mischiarono

e caddero a terra

e per la prima volta si amarono

nel disastro rinasceva la vita1

Lo scavo agito da Iolanda Insana alla ricerca della parola la tiene nel preciso spazio che unisce parola e storia, parola e passione per l’umano andare, per le umane vicissitudini. Ogni rimando ne chiama altri, ogni rimando sposta verso altro: è un’antropologia sommersa e sommessa che si nutre di pietas verso quella piena conoscenza di radici che conosce e di cui ha cura fonda. La sua dissacrazione della parola è intimo gesto d’amore per una realtà misera, sofferente, abbrutita ma – proprio per questo – profondamente viva, attuale, intramata di un indicibile che lei sa, con arte, irretire in poesia dai toni viscerali e accesi. Leggere Iolanda Insana è calarsi in una tonnara di rossi ferrosi.

Iolanda non scansa mai l’inafferrabile dell’esistenza, ama accarezzare il dannato del dentro del verso. La Sua parola ci giunge, sempre, dal fondo venoso di una lotta giocata all’interno di sonorità straziate e – dopo – ricomposte sapientemente.

la rotativa sussult

ondeggiò

e si fermò

a pagina

28

della rivista

<La rinascita della Sicilia e delle Calabrie>

mai più stampata2

Ogni suo titolo di raccolte, sillogi è punta di fioretto giocata su nastri rocamboleschi del significare: Sciarra amara, Fendenti fonici, Coltellate di bellezza, Schiticchio e Schifio, La Clausura, Medicina carnale, La tagliola del disamore, Satura di cartuscelle…

In continua e operosa fuga verso un universo linguistico che La dica, nomina la tradizione poetica mentre ne disfa ogni aulicità. Il Suo è movimento denso verso la corporeità e lo spessore vellutato delle combinazioni foniche.

s’imbriacau e vomitau

la terra

poteva farsi venire il mal di pancia

da un’altra parte

in mare aperto

contorcersi e spaccarsi

e invece ha sfiatato veleni

e s’è rimpallata con l’onda

ai piedi della Madonna della Lettera3

Tutto, nella parola di Iolanda Insana è tellurico: Lei sa cosa sia un movimento di terra che diviene movimento di viscere del sentire così come conosce il rapporto tra maceria e memoria ed è incredibile il modo in cui riesca a coniugare movimento di terra e movimento di parola. Ogni Sua parola è ciottolo, scheggia, pietra divelta. Ma Lei conosce le fiumare e le corse verso i rifugi durante i bombardamenti e i giochi tra le macerie e la ricerca dello spazio all’aperto. Ogni movimento esistenziale, in Insana, è di tensione in avanti, è la sua vita a sguantare grammatica e lei segue ritmo e respiro annodando l’impensabile.

Tra gli strumenti del Suo andare nell’universo linguistico, centrale il ruolo avuto dagli studi di filologia che rendono possibile smussare ma –soprattutto- trattenere l’animalità come eco profondo all’interno della parola, animalità come cassa primigenia della comunicazione tra umani. Ogni parola pare giungere sempre da lontano e mantenere il suono che l’ha definita mentre l’amigdala ne segnava segno sulla roccia di pareti-ventre.

Nunziatina

la mia bisnonna

scampata bambina al cataclisma

dalla Puglia emigrò in Piemonte

e per tutta la vita

ebbe nostalgia della città

e nessun desiderio mai di tornare tanta fu la paura4

La Sua poesia è dentro la radice dell’esperienza vissuta, attraversata, bestemmiata. Nella Sua esistenza sperimenta la libertà e la bellezza del primigenio all’interno di una fanciullezza in cui l’ordine disfatto dalla guerra la obbliga a stare nel precario, nei luoghi aperti, nella geometria della natura con le sue forme precise d’esplosione cromatica. Saranno questi elementi a costituire una memoria cellulare cui attingere impavida, una vora di selvaggio che andrà al di là della fine formazione classica appartenutaLe.

Leggere segni e pieghe dell’esistenza, indagare la vita come sacerdote su di una ziqqurat, sempre sprofondata ad indagare buio di notte, indagare nella Sua poesia è perdersi in rotte inusuali dell’anima.

Gli affreschi dei Frammenti di un oratorio per il centenario del terremoto di Messina, sono equivalente dei calchi in gesso realizzati tra gli scavi della Pompei del 79 d.C. grazie alla tecnica di indagine di Amedeo Maiuri. La vita si ferma nell’attimo preciso in cui viene fissata nel verso e consegnataci nella torsione del dolore estremo.

Accurrìti accurrìti gente/ me figghia me figghia/ portate una scala/ me figghia/ accurrìti accurrìti7 u focu u focu sa mancia/ viva/ a fini du munnu/ a fini da so vita/ viniti curriti/ ‘na scala/ tièniti tièniti/ figlia5

Di bellezza sfrenata il sentire di Iolanda Insana, un Sud dell’anima tutto consono e interno alla radice magno-greca quale filtro del sentire e del comprendere in un orizzonte in cui nulla è sbiadito e sussurrato, tutto e accesso e urlato con un contenimento che rende la Sua scrittura di fine drammaticità, di imponente passione nella Sua capacità di fare propria l’intera coralità della mediterraneità.

Anna Rita Merico

Iolanda Insana, Messina, 1937 – Roma, 2016


  1. Iolanda Insana, Cronologia delle lesioni 2008-2013, Luca Sossella ed. 2017, pg 60
  2. Ivi pg 40
  3. Ivi pg 36
  4. Ivi pg 37
  5. Ivi pg 31

Abitare la poesia nella terra di mezzo – percorsi socio-affettivi con gli adolescenti

“La Poesia è la lingua di chi non sa parlare”

Chandra Livia Candiani

Foto di Rafael La Perna, dalla raccolta Luna Park

Sono una cercatrice di parole, come quegli archeologi che con il loro attrezzo, stanno lì, davanti alla terra e scavano perché qualcosa venga alla luce. Venire alla luce è una potente metafora che con la parola ha molto a che fare, ma anche con l’anima ha a che fare, con quelle parti di noi che ci sono straniere. Sono stata operatrice sociale per circa vent’anni e ho lavorato con adolescenti e preadolescenti in progetti di prevenzione del disagio e promozione del benessere, attraverso interventi di educazione socio-affettiva. Cosa c’entra questo con la poesia? Vi starete chiedendo, eccovi la risposta.

Chandra Livia Candiani, Milano,1952

Nel 2020 ho pubblicato una raccolta di poesie dal titolo “Una luce minima”. Un giorno, una docente di italiano della scuola IC Collecini-Giovanni XXIII di Caserta mi ha proposto di intervenire in un progetto sulla poesia e parlare della mia silloge, da qui è nato un progetto con classi della scuola secondaria di primo grado, in alcune scuole di diverse cittadine pugliesi. Eravamo in didattica a distanza e immaginare di far passare l’emozione attraverso il virtuale è stata una sfida faticosa, dai risultati, tuttavia, inattesi. Non avevo intenzione di tenere alcuna lezione sulla poesia, piuttosto di “usare” la parola poetica come pretesto, mediatore per lavorare sulla dimensione emotiva, provando ad avvicinare ragazze e ragazzi a questo genere letterario.

Gli studenti sono stati invitati a leggere in classe la poesia che dà titolo alla silloge, un momento preparatorio per incuriosire ragazze e ragazzi, lasciando sorgere in loro domande e riflessioni che avrebbero trovato spazio nell’incontro con la sottoscritta. L’autrice, la poetessa, hanno detto per presentarmi, non ho mai amato le definizioni, gli incasellamenti, che pure sono utili per darsi senso, per trovare un posto nel mondo e con gli adolescenti questo bisogno è ancora più urgente e va legittimato.

Quel giorno dell’incontro avevo una maglia blu, per me il blu è il colore dell’anima. Mi sono presentata a loro raccontando un pochino di me e della mia esperienza con la vita e con la parola. Poi ho chiesto loro di presentarsi con il proprio nome ed una parola-chiave che li rappresentasse. La ricerca della parola-chiave è una pratica molto utilizzata nel metodo autobiografico, essa si sposa bene con la scrittura poetica, la quale richiede una ricerca approfondita, puntuale delle parole, quelle e solo quelle scelte, possono trovare il loro legittimo posto nel testo.

Gustave Flaubert,1821-1880

Flaubert aveva, a proposito dello stile, una teoria: “le mot juste“. La parola giusta era quella – unica – che poteva esprimere compiutamente l’idea. Dovere dello scrittore era trovarla: “qualsiasi cosa si voglia dire c’è solo una parola per descriverla, un verbo per animarla, un aggettivo per qualificarla. Si devono cercare quella parola, quel verbo, quell’aggettivo senza mai accontentarsi, senza ricorrere ad espedienti, per quanto ingegnosi, che permettono di scansare la difficoltà.”

Nel linguaggio poetico si è pienamente fiduciosi nella parola e se noi lo siamo, come adulti educanti, anche gli adolescenti lo saranno.

Raymond Carver1938-1988

Allora ho citato Chandra Livia Candiani e‘ La precisione della poesia’ avviando con loro una riflessione aperta sulla parola poetica come parola che chiede precisione per esser proferita, la parola che rivendica una posizione nel mondo. Poi ho richiamato Raymond Carver, narratore e poeta americano, il quale nel saggio ‘Il mestiere di scrivere’ dice, a proposito della scrittura: “scegliete solo le parole necessarie, le parole sono tutto quello che abbiamo, perciò è meglio che siano quelle giuste, in modo che possano dire quello che devono dire nel modo migliore.”

R. M. Rilke, 1926 1975

Le ragazze ed i ragazzi vengono catapultati in una dimensione in cui la poesia interagisce con loro, le parole si fanno materia viva ed energica, così essi stessi cominciano a tirar fuori le loro parole nascoste, quelle mai dette, per paura del giudizio e quelle gridate, ma rimaste, spesso, inascoltate.

“Scrivere è dare un nome alle cose. Cercare la profondità delle cose” afferma Rilke in ‘Lettera ad un giovane poeta’.  Riecheggia questa ricerca di senso, che è costante lotta per un poeta, come lo è per un adolescente, costante lotta con sé stessi e col mondo, in questa terra di mezzo in cui guerrieri senza corazza, avanzano, seppur feriti. Non c’è un luogo inabitato dalla parola, anche nel silenzio, abita la parola.  

A Paul Celan (1920-1970), nel 1960, viene conferito il Premio Büchner. In quella occasione tiene un discorso dal titolo “II meridiano”. Celan prova a dire il significato della poesia, e trova questa immagine:

Paul Celan

“La poesia non è alcun luogo concreto sulla carta geografica dell’immaginario e della mente dell’uomo. Essa è, piuttosto, come un meridiano: una linea ad un tempo verissima e inesistente che indica una direzione attraverso molti territori. Su questa linea a ciascuno è data la possibilità di tracciare il proprio cammino verso quel sapere e quel sentire che appaiono sempre più lontani da chi è assediato dalla civiltà del rumore e del fatuo, e in essa si perde.”

-‘Dove nasce la poesia?’ chiede una ragazza.

-‘In un luogo dell’anima, una caverna, un utero, un luogo sacro, misterico, capace di generare, di dare alla luce le parole, di generare poesia.’ Rispondo.

Dacia Maraini, 1936

La scrittura è sempre un atto di autotrasformazione, per sé e per l’altro.  “La parola scritta ha la capacità di chiarificazione, è come la mappa per orientarsi, per capire dove siamo, a quale distanza ci troviamo rispetto ai luoghi che ci stanno a cuore” afferma Dacia Maraini nel saggio ‘Amata scrittura’. Quindi scrivere poesie è un po’ come trovare la propria bussola per orientarsi nell’esistenza, chiarificare le parole, dar loro il potere di trasformare la realtà e trasformarci, riconoscere che la scrittura non è un atto solitario ed ego-centrato, ma un atto capace di ri-metterci al mondo.

-‘Come fa un poeta a scrivere le parole che avresti voluto scriverle tu, ma non ce le avevi. ‘ Dice ancora un partecipante. ‘Lui è riuscito a dire quello che io avevo dentro, ma meglio di come l’avrei fatto io.’

Mohammed Bennis, 1948

La poesia è un’eco viva, una corda vibrante capace di raggiungere chi la legge, ‘chi la attraversa’ per usare le parole di Mohammed Bennis, uno dei maggiori esponenti della poesia araba moderna. Bennis afferma: “La parola poetica è abitata da voci che la attraversano, essa è una parola che nasce, di una nascita rinnovata…” La poesia ha preso forma nel viaggio, nell’emigrazione, nell’incontro con le diversità ed ha richiesto per sé stessa quel pensiero migrante che era la forma dell’antico vivere mediterraneo, un pensiero nomade, in transito, figlio delle interazioni tra i popoli. Ho parlato loro di questo poeta marocchino, che ha tracciato un segno vivo nella poesia moderna, restituendo alla parola poetica la sua legittima origine, riconoscendole una patria che è accogliente per tutti e per ognuno, che non conosce territori e non appartiene.

Il lavoro con gli studenti è proseguito con la lettura della poesia scelta, fermandoci a riflettere sul testo e lasciandolo risuonare. Nel momento della condivisione in gruppo, non è stato facile sospendere l’emozione, qualcuno ha spento la webcam, qualcun altro si è allontanato dal video; una ragazza bruna ha chiesto di parlare: – ‘le parole che mi hanno colpita sono quelle iniziali, dove dice “a volte s’accende, quella luce minima e porta…” perché mi fa pensare a quando sono stata male per quello che ci stava accadendo, nel primo lockdown, in cui era assurdo per noi non andare a scuola, non uscire, non vedere gli amici, mi sembrava di impazzire, e quella luce di speranza non veniva, non c’era.’ Molti dei racconti dei partecipanti avevano come tema il lockdown, emergevano fortemente le implicazioni emotive e psicologiche che stavano vivendo ragazze e ragazzi e come la scuola stesse, in tutti i modi, provando a restituire una parvenza di normalità e spensieratezza. Io rimandavo al gruppo le parole-chiave emerse, le rimettevo in circolo: le parole della poesia, le loro parole, le mie, le nostre.  Nella poesia, come nell’opera d’arte, vi è una moltitudine di interpretazioni, nel tempo e nello spazio, perché ognuno rintraccia nell’opera qualcosa di differente, che, in maniera singolare, diversa, si lega al proprio vissuto, alla propria esperienza, al proprio modo di guardare il mondo. Così, in questo percorso di poche ore, ragazze e ragazzi si sono ritrovati grazie ad un testo poetico, grazie alla parola, veicolata e accarezzata con genuina fiducia, lasciandosi portare da una sconosciuta, una straniera (adulta) nella loro terra di mezzo (l’adolescenza), una terra di fragilità, ma anche di speranza e di forza generatrice. Celan dice: “la poesia viene al mondo carica di mondo” e questo mondo noi abbiamo il compito di restituirlo alla luce.

Mariatina Alò