IDA VITALE: CENTO ANNI DI PAROLE PER DIRE SEMPRE IL NUOVO (Note critiche e traduzioni di Yuleisy Cruz LEZCANO)

Cercare e ricercare il non detto, stupire con immagini che diventano concetti, quasi palpabili. È questa la poetica di Ida Vitale: un mito vivente. 

Ida Ofelia Vitale Povigna, squisita intellettuale, insegnante, saggista, traduttrice, poeta e critica letteraria nasce a San Felipe y Santiago de Montevideo (Montevideo), capitale dell’Uruguay, il 2 novembre del 1923. È la più longeva esponente del movimento artistico “Generación del ‘45” di cui fanno parte altri grandi scrittori uruguaiani di origine italiana come Juan Carlos Onetti, Carlos Maggi e Idea Vilariño. Ottiene il prestigioso Premio Cervantes nel 2018 e tanti altri riconoscimenti. 

La poetessa spesso racconta che il suo avvicinamento alla poesia comincia mentre ascolta, affascinata, da piccola, versi insoliti, vaghi, allusivi che non riesce a decifrare. Prima di cogliere il significato, il contenuto, percepisce il gorgogliante indefinito, il mistero che accompagna la parola, ascoltando e leggendo i versi della poesia “Cima” di Gabriela Mistral, Premio Nobel per la letteratura. Questo avvicinamento, questa meraviglia di Ida Vitale nei confronti della sua maestra Mistral, sono ancora vivi. 

Il suo libro Disidencias leves ripercorre, tra incertezze e assenze inevitabili, tutta la sua poetica; la poetessa, nonostante l’esilio nel 1974 per ritornare a Montevideo circa tre decenni dopo, trova dimora nell’inquieta bellezza dei suoi versi.

La voce poetica della Vitale indugia nella natura (nelle piante e negli alberi; nei passeri, negli storni e nei ricci: nel vento, soprattutto nel vento), nella neve e nelle stagioni, negli addii, nelle morti e nei lutti, nelle vicissitudini dell’esperienza umana e nella spinta incessante dell’energia vitale, nella città stagnante e disumanizzante, nel linguaggio e nelle parole. Scrive nell’esistenza della parola.

Dal libro “Oidor andante” (1972): “Decimata, dissanguata, / tagliata in tante parti / come sogni, voglio / però, / questo e non altro modo / di essere viva; / questo e nessun altro modo di morire; / questo sussulto / e non più la solita / dormiveglia. / Come l’ombra di sé stessi / o come un fiammifero violento che arde. / Non c’è altra alternativa, / né più segno identificativo. / Non c’è altra morte. / Non maggiore vita.”

Leggendo questi versi si può facilmente intuire come la poesia possa davvero mantenere viva una lingua, che le sue manifestazioni possono essere varie nel tempo e, soprattutto, che la poesia sa bene come difendere la parola, come far nascere dalle parole, nuove interrogazioni sul mondo e sulle sue forme. Pochi poeti raggiungono davvero questo scopo, tra questi: Ida Vitale, poetessa che è, insieme, classica e moderna dalla poetica che cavalca il drago senza rifiutare il fuoco. Una poetica che cambia continuamente dimora, che decanta e fa grande la lingua spagnola in modo sottile ma incisivo. I suoi accostamenti propongono lo spirito errante delle sue visioni e mettono in evidenza il permanente conflitto tra le parole e il loro significato, caos e ordine che fanno parte dello stesso mare, mare che dà vita a un vasto oceano.

Disidencias leves è una generosa antologia con più di dodici libri di Ida Vitale al suo interno, dal 1949 fino al 2021. Pertanto, all’interno di questa raccolta è possibile cogliere la costanza dei suoi argomenti, ma anche la sua evoluzione, le sue variazioni tematiche e formali nel corso del tempo.

Nelle pagine di questo libro, la prosodia occasionale non prevale sulla chiarezza delle immagini e sull’esposizione di una scena o di un’idea. L’evoluzione poetica è inevitabile. In questo libro si passa dalla visione giovanile alla maturità in cui si indaga tutto ciò che accade, tutto ciò che appare attraverso le parole. I versi poi insistono nell’investigare i momenti originali delle parole e spesso si aprono come a ventaglio in un vento di fede nella missione salvifica della parola.

Le ultime raccolte contenute nel libro mettono in evidenza, insieme al dubbio per i risultati, la malinconia che accompagna i dubbi stessi.

Lo stile della Vitale vanta un ampio spettro di registri. Dall’ordine iniziale si passa alla dispersione simbolica, la quale è anche un modo di occupare casualmente lo spazio e il tempo, come chi diffonde versi, poesie lunghe e brevi, misurate o argomentative, per espandere i limiti di un’esperienza. E poiché in quell’esperienza si mettono in discussione le proprie condizioni di decidibilità, ciò che si diffonde nelle parole è tutta la storia e tutta la vita che hanno originato l’atto creativo. Occorre dire che la maggior parte dell’opera poetica della Vitale non è guidata dalla metrica, ma dall’indagine verbale e dalla ricerca di immagini concrete.

La parola infinito

La parola infinito è infinita,

La parola mistero è misteriosa.

Entrambe sono infinite, misteriose.

Sillaba per sillaba provi a evocarle

senza che una luce annunci il suo dominio,

un’ombra indica a che distanza da loro

sta l’opacità in cui ti muovi.

Vanno ad un certo punto del bagliore e nidificano,

quando le lasci libere nell’aria,

in attesa che un’ala inspiegabile

ti porti fino al suo volo.

È qualcosa di più del suo sapore, il gusto della vita?”

La palabra infinito

La palabra infinito es infinita,

la palabra misterio es misteriosa.

Ambas son infinitas, misteriosas.

Sílaba a sílaba intentas convocarlas

sin que una luz anuncie su dominio,

una sombra señale a qué distancia de ellas

está la opacidad en que te mueves.

Van a algún punto del resplandor y anidan,

cuando las dejas libres en el aire,

esperando que un ala inexplicable

te lleve hasta su vuelo.

¿Es más que su sabor, el gusto de la vida?

Fortuna

Per anni, godere dell’errore

e dell’emendamento,

aver potuto parlare, camminare libera,

non esistere mutilata,

entrare o non entrare nelle chiese,

essere nella notte un essere come nel giorno.

Non essere sposata in un negozio,

misurata nelle capre,

subire il governo dei parenti

o una legale lapidazione.

Non sfilare mai più

e non ammettere parole

che mettono nel sangue

limature di ferro.

Scoprilo per te stessa

un altro essere imprevisto

sul ponte dello sguardo.

Essere umana e donna, né più né meno.

Fortuna

Por años, disfrutar del error

y de enmienda,

haber podido hablar, caminar libre,

no existir mutilada,

no entrar o sí en iglesias,

ser en la noche un ser como el día.

No ser casada en un negocio,

medida en cabras,

sufrir gobiernos de parientes

o legal lapidación.

No desfilar ya nunca

y no admitir palabras

que pongan en la sangre

limaduras de hierro.

Descubrir por ti misma

otro ser no previsto

en el puente de la mirada.

Ser humano y mujer, ni más ni menos.

**

Yuleisy Cruz Lezcano

‘La speranza è quella cosa piumata’: parlare di speranza con gli adolescenti attraverso la poesia – di Mariatina Alò

Da tempo sono appassionata di scrittura poetica femminile e ho deciso di portare la storia e la poesia di alcune poete a me care in un breve percorso sulla poesia femminile tenuto nelle classi della scuola secondaria di secondo grado. La lettura della poesia è una proposta rischiosa e non sapevo dove mi avrebbe portata, se i ragazzi e le ragazze l’avrebbero accolta. Ho incontrato circa 5 classi provenienti da diverse scuole e con formazione differente e ho proposto loro lo stesso format, non è importante infatti che avessero o meno studiato una specifica preparazione sulla poesia contemporanea. Sono partita da un brainstorming con alcune domande stimolo per avvicinarmi alla poesia in modo cauto. Ho fatto un cenno all’uso della parola poeta, come appellativo sia per l’uomo che per la donna, da quando alla fine degli anni Ottanta, il termine “poetessa” fu messo in discussione nell’opera “Il sessismo nella lingua italiana”, curata da Alma Sabatini (studiosa ed attivista del movimento femminista nel ‘900). Abbiamo quindi aperto una finestra affacciandoci su un vasto campo in cui sono state richiamate le poete a noi più vicine nel tempo: dal 1800 in poi, quindi Emily Dickinson, Sylvia Plath, Anne Sexton, Virginia Woolf, Anna Achmatova, Amelia Rosselli. Ho raccontato alcune vicende di queste donne e della morte che accomuna molte di loro: il suicidio. Per queste poete la poesia svolge un ruolo essenziale perché consente di accedere ad uno spazio più autentico, di superare le imposture dell’esistenza: la parola è infatti anche minaccia di separazione dalla vita, rischio di inaridimento oppure di disgregazione, la lingua poetica insieme salvifica e mortifera.

Ma non si è detto di morte, si è detto di vita, di vita e di speranza, di quella speranza che nei versi letti, i ragazzi e le ragazze hanno saputo cogliere.

Il laboratorio è stato diviso in due momenti: il primo in cui c’è stata la lettura di due poesie, seguita da un lavoro di scrittura ed il secondo in cui ho distribuito un foglio su cui vi erano tre poesie sul tema della speranza, da cui avrebbero dovuto trarre un ulteriore componimento con la tecnica della cancellazione di parole.

Ci siamo concentrati, quindi, sulle due poete: Anna Achmatova e Amelia Rosselli e di queste ho letto due componimenti, entrambi cominciano con la stessa forma verbale, che richiama una forte connessione con la realtà tangibile, un’affermazione di verità che non vuole essere negata. Ho chiesto loro di ascoltare le due poesie e appuntare le parole o i versi che sentivano risuonare dentro di sé. Ho proceduto col leggere la poesia dell’Achmatova:

C’è nel contatto umano

C’è nel contatto umano un limite fatale,
non lo varca né amore né passione,
pur se in muto spavento si fondono le labbra
e il cuore si dilacera d’amore.

Perfino l’amicizia vi è impotente,
e anni d’alta, fiammeggiante gioia,
quando libera è l’anima ed estranea
allo struggersi lento del piacere.

Chi cerca di raggiungerlo è folle,
se lo tocca soffre una sorda pena…
ora hai compreso perché il mio cuore
non batte sotto la tua mano.

E ho poi proseguito con la poesia di Amelia Rosselli.

C’è come un dolore nella stanza

C’è come un dolore nella stanza, ed
è superato in parte: ma vince il peso
degli oggetti, il loro significare
peso e perdita.

C’è come un rosso nell’albero, ma è
l’arancione della base della lampada
comprata in luoghi che non voglio ricordare
perché anch’essi pesano.

Come nulla posso sapere della tua fame
precise nel volere
sono le stilizzate fontane
può ben situarsi un rovescio d’un destino
di uomini separati per obliquo rumore.

La voce delle due poete, come un’eco è risuonata nella stanza, richiamando vissuti e immagini nei giovani partecipanti, lasciando venir fuori parole a cui non avevano mai pensato, parole sepolte o inascoltate, parole dette in tempi altri e rimaste a mormorare.

Infine, ho chiesto di comporre un verso utilizzando sole sei delle parole da loro segnate e scriverlo su un post-it. Ecco, questo è quello che abbiamo fatto con la parola poetica: i ragazzi e le ragazze hanno maneggiato la poesia e in un gioco di rimandi evocativi, hanno provato a comporre il loro verso, a saggiare la propria voce, hanno sperimentato l’incontro con il testo poetico in una modalità atipica, che non si aspettavano. Quei versi, i loro versi, sono oggi attaccati ai muri nelle classi e dicono della loro storia, dei loro vissuti, della loro vita, dicono chi sono loro come persone e non solo come studenti.

Nel secondo momento, ho fornito un foglio con tre testi poetici: La speranza è quella cosa piumata di Emily Dickinson, Io guardo, tu fiorisci di Patrizia Cavalli e Bambina mia di Mariangela Gualtieri. Questo foglio è stata la tavola su cui hanno lavorato estrapolando dalle parole delle tre poete il loro proprio verso e cancellando il resto con un pennarello nero, come nel metodo del caviardage.

“La Speranza è quella cosa PIUMATA che si viene a posare sull’anima …” scrive Emily Dickinson, la giovane poeta, paragonando la speranza ad una delicata carezza che desta l’anima e le permette di aprirsi, contro ogni tempesta e contro il gelo. E la speranza si esprime anche attraverso la fiducia nel giovane fiore che sboccia, come scrive la Cavalli: Bene, vediamo un po’ come fiorisci, come ti apri, di che colore hai i petali”

Dovremmo porci con tale atteggiamento nei confronti degli adolescenti: osservarli sbocciare, non giudicarli se i loro petali hanno un colore che non ci piace, se chinano il capo da un lato piuttosto che dall’altro, accoglierli nella loro unicità e preservarne sempre la bellezza. E dar loro conforto, conforto e speranza, dir loro che nonostante le brutture, possiamo salvarci in questo mondo, e noi, noi adulti educanti abbiamo la responsabilità di accompagnarli in questo cammino di preparazione alla vita.

“Ma sentiamo. Sentiamo ancora. Siamo ancora capaci di amare qualcosa. Ancora proviamo pietà. C’è splendore in ogni cosa. IO LHO VISTO. Io ora lo vedo di più. C’è splendore. Non avere paura.” 

P.S. : i testi delle tre poesie sono stati lasciati nei caratteri utilizzati per il lavoro di caviardage.

Mariatina Alò

SE TOLGO IL NODO di ANNA RITA MERICO: SULLE TRACCE DEL DESIDERIO

A.R. Merico, Se tolgo il nodo
Con uno scritto di Antonio Nazzaro
Postfazione di Claudia Mirrione
Musicaos Editore, Neviano (Lecce) novembre, 2023

Ci sono fili, funi, tentacoli a legarci alla Poesia di Anna Rita Merico in Se tolgo il nodo, ma è il verso stesso a chiedere spazio per riuscire a penetrare l’anima; la pagina appare come segnata dalla parola poetica, scolpita su marmo.

Fili e spazi, come ossimori, sono, tra loro, in perfetta simmetria per riuscire ad esprimere il tutto del pensiero, il tutto della parola: Un movimento ralenty–irreale / mi catapulta in uno spazio violaceo turchino (…)  ora nulla più mi lega / il linguaggio è tentacolo filiforme. (CHIRURGIE p. 15)

È Poesia verticale, discesa, viaggio in profondità che reclama una spogliazione, progressiva perdita di parti del corpo: Perdo parte / una millimetrica chirurgia stacca bordo estasiato di pelle (p. 15) e ancora: un filo potente scuce / un movimento di lentezza imprendibile avvolge / nel fondo in cui scendo / trovo l’inaspettato (DENTEDIBESTIA p. 17). E non stupisce che la scena, come in un dramma teatrale, si apra con lo spazio cosmico lì dove, come shuttle, l’io poetante s’eleva cercando di riafferrare brandelli di sé: Così / perdo parte di me / all’inizio vedo la parte / cerco di riabbordarla / con sempre minor forza e intenso dolore la guardo / impellicciata nell’impossibile del gesto / vengo ritagliata in forma nuova. (p. 15). Tali versi, dicono, in apertura, ciò che sarà il viaggio, l’atto unico della nostra Vita: perdita, dolore, forma nuova.

L’inaspettato, in questo scuro labirinto contemporaneo, senza fiamme, certo, come nel gorgo dantesco, ma con rostri ad uncinare la tenera pelle, è il Minotauro di Dürrenmatt[1] che l’autrice pone in ex ergo. S’accovaccia, il Minotauro, avanza, arretra con noi in un gioco di specchi, un’infinita danza: “scaturì un po’ per volta una ritmica danza della creatura con le sue immagini che erano in parte specularmente inverse e in parte, quali immagini d’immagini identiche alla creatura” (p. 7). Esso rappresenta, dunque, l’incompiuto, l’irrisolto, ciò che non siamo stati capaci di accettare, i nodi che non abbiamo saputo sciogliere.

Il Minotauro ricorre anche in Fenomenologia del silenzio[2], corposa raccolta poetica (2004 -2021), di cui Se tolgo il nodo sembra essere gemmazione. Qui la poeta scrive: Al centro del livido umore / il Minotauro ronzante modellava / spargeva le mancanti vocali dell’incompiuto alfabeto.[3] Estremamente affascinante, l’immagine del Minotauro che sparge le vocali mancanti; la scrittura, o meglio, il suo divenire solca il vuoto cercando le parole per enunciarlo affinché in esse tutto abbia corpo, persino il nulla; ma non mi sembra questo il punto. C’è proprio un vuoto, sembra dirci la Merico, che la parola poetica non sa riempire. “La parola è impotente”, afferma Ungaretti (1888 – 1970)[4], ed è quel segreto, quell’ineffabile che possiamo sfiorare con lo spirito, ma che sfugge al corpo della parola, ad esser essenza della Poesia. Eppure, questa ipotesi non mi convince appieno. Credo che ciò che tormenti la Poeta sia l’Altro nell’assenza. Potremmo affermare, dunque, che la parola poetica sia, in Merico, espressione del desiderio; ella scrive: dietro ad ogni parola c’è un pensiero che non stringo ma che mi si mostra tormentandomi / a volte dei raggi mi trafiggono pupille e mani (Per Claudia Ruggeri, p. 59)

Difatti il desiderio, inteso come assenza o anche attesa di qualcosa che si colloca altrove in un luogo mai pienamente identificato, sembra attraversare come filo rosso, l’intera raccolta, o meglio, le parti, i bozzetti, di cui l’opera è composta.  

Il viaggio dell’essere umano inizia nel cosmo: Tutto avviene nel passaggio dal cosmo alle tube (…) ma quando questo passaggio non è stato / semplice regolare lineare e si occlude il sentiero e qualcosa resta nel buio metallico del cosmo (…) e poi accade che nasco ma ho un pezzo fuori (…) senza quel pezzo non posso / non riesco [5] Per me, questi versi, nei quali è rappresentato il trauma della Nascita, non sono soltanto espressione del desiderio, ma provocano l’anima, raschiandola, chiamandola in causa; così la Filosofia si fa incontrovertibile Verità, non solo idee, pensieri, ipotesi, e la Verità, Poesia. Ed il passaggio dalla Verità alla Poesia è Salvezza.

In FAME l’autrice focalizza l’attenzione sul cibo e scrive: Ululo come lupo         piango come agnella / stasera   stasera     stasera / vorrei    vorrei     vorrei  / cenare con te /  aiutami     ho fame stasera; qui l’evidenza del desiderio non è resa soltanto attraverso la reiterazione del condizionale ma anche tramite una maggiore dimensione degli spazi tra le parole.

Per quei cordami che stringono l’autore al lettore ma anche, tra loro, le varie parti dell’opera, il cibo è legato all’amore, dunque, alla figura materna, centrale in SQUAME: allontanati      vorresti divorarmi / ti sento con le tue squame graffiarmi la pelle (…) allontanati / non vedi che ho caldo durante quest’inverno di albe brinose? (p.37)

In SE TOLGO IL NODO, bozzetto che dà il titolo all’intera opera, l’autrice sembra, invece, delineare il fenomeno del ritiro sociale: Cambio pelle forse   però   se togli il nodo quel borbottio dell’anima si ferma / forse    però    se togli il nodo il tuo gemello siamese svanirà / sai? / lui non è reale (p. 35).

Quel “gemello siamese” con il quale si confronta chi vive in solitudine, solo, nella folla del virtuale, senza saper incontrare veramente l’altro, mi riporta, ancora una volta, al Minotauro che, danzando, ci rispecchia. Se la guarigione è nell’Altro, anche il desiderio può cambiare prospettiva. Freud (1856 – 1939) ci ricorda, a questo proposito, che il sogno è l’appagamento di un desiderio in cui sono presenti anche le voci degli altri.

E nel movimento tellurico dei versi, splendida è SUZIONE in cui, ancora una volta, la voce materna giunge da luogo altro, una dimensione tutta onirica. Ma qui la Merico apre la ferita del non amore poiché tratteggia una relazione distruttiva,  forse simbiotica, piuttosto che d’amore autentico, relazione che, infine, si libera, libera, cioè, il desiderio della madre attraverso il dolore: era lei proprio lei / sbucava dal ventre di una notte archetipa /aveva rapito la libertà della sua origine e ci si era ficcata dentro (…) urticata nel suo progetto distruttivo / bramata d’amore / per lei stanotte ho pianto / per lei stanotte ho tentato di bere il succo amaro del suo latte rancido (…) stanotte ho pianto / per lei          per me / succhiando nuova libertà (p. 63).

Come precipizio a strapiombo sul mare, ritroviamo, nitido, il vuoto d’amore ma anche il desiderio come appagamento del corpo; in Fenomenologia del silenzio, più in particolare, in The process of writing, l’autrice scrive: Bocca affamata / dispettosa / tiranna / regina d’archetipo desiderio /      origine spaccata in due[6]

Se la parola diviene corpo, si dimostra impotente, mancante, ombra ineffabile. È lì, sul ciglio del dirupo, pronta a lanciarsi nel vuoto; è, essa stessa, vuoto, non asettico, fine a sé stesso, ma desiderio dell’Altro, poiché siamo protesi verso l’Altro ed il Poeta, nella sua solitudine, lo è strenuamente. Urla, il poeta, nella fragilità della Parola.

Dall’urlo delle viscere una parola muta

come può tanta mancanza d’ordine

trovare filo ed ordito di trama?

una doppia juta di sillabe si tesse

mentre

la parola mostra

ancora

solo

la sua ombra[7]

È il semiologo francese, Roland Barthes (1915 – 1980) ad associare scrittura, corpo e desiderio scrivendo: “Le langage est une peau: je frotte mon langage contre l’autre. C’est comme si j’avais des mots en guise de doigts, ou des doigts au bout de mes mots. Mon langage tremble de désir[8] e ancora: «Savoir que l’on écrit pas pour l’autre, savoir que ces choses que je vais écrire ne me feront jamais aimer de qui j’aime, savoir que l’écriture ne compense rien, ne sublime rien, qu’elle est précisément, ” là où tu n’es pas,” c’est le commencement de l’écriture… »[9]

Mentre Barthes sfrega il linguaggio contro l’Altro per distaccarne scintille, la Merico se ne sente stordita: Mi sono sempre sentita invasa / allagata intollerante alla parola (…) le mie parole si stordiscono facilmente e mi lasciano dolore acuto insopportabile come una scia di lava (FUTURO p. 53). D’altro canto, il tentacolo filiforme con cui la Poeta apre la raccolta, è qualcosa che avviluppa, involge ed inesorabilmente attrae. Ma è lì, nel peso, in quella dolorosa attrattiva di corpo e senso che la Poesia incendia la Parola.   

Giulia Sonnante


Anna Rita Merico Nata a Nola (Na), attualmente vive in Salento. Inizia la propria attività di ricerca all’interno dell’M.C.E. (Movimento Cooperazione Educativa) e, contestualmente, in ambienti legati al pensiero della soggettività femminile a partire da Laurea in Filosofia e tesi su Carla Lonzi. Molte le collaborazioni con I.R.R.E. Puglia e Ministero per sperimentazioni nazionali (Progetto P.O.LI.TE.) ed europee (Progetto Tam-Tam, Spagna-Grecia-Italia) sul tema della didattica della differenza sessuale.

Lunga attività di ricerca su tematiche inerenti la filosofia della differenza sessuale: collaborazioni con dipartimenti universitari attraverso progettazioni europee, pubblicazioni su riviste di settore e testi collettanei, formatrice in corsi presso enti istituzionali ed associazionismo.

Silloge: Era un raggio…entrò da Est (2020, Musicaos ed.). Raccolta: Fenomenologia del silenzio (Musicaos ed. 2022)

Presente su blog e riviste online/cartacee (critica letteraria e poesia).


Note

[1]Friedrich Dürrenmatt, in Romanzi e racconti a cura di Eugenio Bernardi, 1993, Einaudi-Gallimard, Torino, trad. di Umberto Gandini

[2] A. R. Merico, Fenomenologia del Silenzio, poesie (2004 -2021) segnate pietre, in the process of writing, Dall’angolo bucato entra memoria, una parola si bea, al sole, pulsando infinita – Musicaos Editore, Neviano (Lecce) 2022

[3] AR. Merico in ibid p. 77.

[4] Intervista a Giuseppe Ungaretti (1961)

[5] A.R. Merico Se tolgo il nodo p. 59 (in Per Claudia Ruggeri)

[6] A.R. Merico, Fenomenologia del silenzio p. 50

[7] A. R. Merico, Fenomenologia del Silenzio, p. 91

[8] R. Barthes, Fragments d’un discours amoureux (1977)  testo in formato digitale al seguente link : https://www.sas.upenn.edu/~cavitch/pdf-library/Barthes_Discours_amoreux.pdf [Il linguaggio è una pelle : io sfrego il mio linguaggio contro l’altro. È come se avessi delle parole a mo’ di dita, o delle dita sulla punta delle parole. Il mio linguaggio freme di desiderio.]

[9] R. Barthes Fragments d’un discours amoureux (1977) [sapere che non si scrive per l’altro, sapere che le cose che scriverò, non faranno innamorare chi amo, sapere che la scrittura non compensa nulla, non sublima nulla, sapere che essa è proprio là dove tu non sei, è là che ha inizio la scrittura.] traduzione di chi scrive.

‘L’usignolo bagnò di luce le labbra del giorno’: Anna Rita Merico su LA SLEGATURA DI MAURA BALDINI

Nel gelo mattutino

acqua velenosa.

Così comincia

il rebus della speranza

che arranca

e sviene

sulla tomba di Dio.

La poesia scorre tra le righe del pensiero e le pieghe del corpo. Trasforma ciò che vede e ne tocca l’ancestrale. Cosa diviene poesia se un momento di vita s’assopisce attendendo svolta in un dove sconosciuto? Un risveglio si trasforma in orologio del tempo che segna attesa e speranza. Un passo incerto dentro un immobile di intenti. Il tempo che rolla aria gelida come fosse trapano e rovello, vuoto e veleno, sospensione e attenzione al diamantino di un gelo aurorale che non prende forma. Dannata quest’alba, evoca fantasmi e getti molli di acque scure.

L’usignolo bagnò di luce

le labbra del giorno.

Al grido di una gola acerba

si defilò sacrificando il canto.

Certezza non crebbe allora

nella musica che il cielo svelava,

e l’occhio della luna giustiziò

l’assassinio scambiato per amore.

Ma poi s’alza tutto, il giorno. E la speranza cuce una fredda certezza. E il tempo continua ad andare. Passi che chiedono giustizia. E’ giorno impilato nel margine di una vita che tesse qualcosa di sgraziato. Inganno svela  inganno. Di menzogna mi ero nutrita ma il giorno svela, con luce bagnata, quel dentro che mi ero negata. E l’orologio continua ticchettio di giornata che scende.

Nella luce sta

la coazione del dolore

e la speranza

che un verbo si levi

dal lago.

E la giornata continua scorre di grano in grano. Ore coatte e attese disattese. Qualcosa piega affanno e volontà. Dalle sponde di questo lago che guardo alle spalle, attendo…

Ho un osso obliquo impiantato nel ventre

e un fiore carnivoro che mi divora.

Mi dicono che fuori è il nemico,

ma fuori c’è il cielo

che svezza albe come perle,

e ci sono alabastri

che raccolgono notti per suonarle ai viandanti.

Di questo vento d’essere non posso cogliere il male

E non posso guardare fuori

col tormento che ho dentro

col bruciare delle stelle fra le mani

e l’inganno dell’acqua

che mi ha dato i natali

e con loro l’abisso.

L’acqua torna nel tempo che lento fiocca. S’avvicinano notti e si cuciono intenti. Al calare sento passi di viandanti che mi suonano come corde e mi risuonano come improbabili presenze. Ormai lo stellato drappeggia questo primitivo orologio. Torno al plancton di un inizio mai innocente. Sfioro la bocca di un taglio incistato nelle memorie di cellule slegate. E guardo queste minuzie le vedo tutte impazzite, minuscole, gelide, taglienti: soglie d’abisso sventrato. Si risvegliano antiche divorazioni, bollore di ancestrali, gorgoglio d’incontrollabile mistero. E’ un dentro che mi avvolge lasciandomi fuori, muta e immobile, a sentire.

Notte per assaporare

una fratellanza

un nodo scorsoio

di braccia e palpebre,

sonnambuli varchiamo

lo stesso sogno,

e stare muti, sigillati,

ad accarezzare la bestia,

ed esserne felici, ingenui,

con occhi sbiancati,

marchiati da un’infanzia comune

una rinascita.

E, nel giro delle lancette fatte tempo, s’agglutina la notte. Scompaiono le lancinanti delle solitudini. Compaiono i corpi di abitanti, quelli che hanno vagato nel niente del nonriposo.  Come trasparenti ombre ricordano e calpestano i suoli d’antichi inferi. Sanno di Ade, sanno di Bocche spalancate in accessi, sanno di Budelli in cui fuoco e ghiaccio s’alternano e lambiscono. E questa giornata nata e giunta a notte ha il sapore dell’infinito. Ha la rasposità dell’inattraversabile. Ha la forma del dolore che, fondo, plasma. E’ stata una visione. Procediamo in frotta, imbacuccati in anime fatte corpo, a piedi scalzi mentre azzanniamo rinascite.

La Slegatura di Maura Baldini è un Diario il cui sismografo registra ogni gamma emotiva legata all’incedere di una situazione limite che dal corpo invade l’intero essere. Il tema della luce indica a tratti la speranza, a tratti la gioia di bearsi nella speranza, talaltra il mondo che torna. Nulla di più attento al tema del dolore tratteggiato con linee di delicate incursione negli esiti di ricaduta sul pensiero e nel corpo. Una poesia in cui ogni sguardo è decentrato e tutto è guardato dalla soglia di una distanza che è prossimità al mondo e, al contempo, distacco da esso. Il dolore del corpo dinanzi cui si è impotenti, slega dal mondo e lega ad altre connessioni. Lega alla sfera del profondo, sfera nella quale il sentire diviene crepaccio del percepire, regressione ad un sé che si sente mite e si ritrova muto pronto ad uscire dall’ombra.

Anna Rita Merico


Tutti i testi sono tratti da

Maura Baldini, La Slegatura ed. Il Convivio 2022

VIVERE PER AMARE, MORIRE PER VIVERE di Giusy Carminucci

Sir Frank Bernard Dicksee, Paolo And Francesca, 1894

Paolo e Francesca: morti per amore, rivivono da oltre sette secoli in ciascuno di noi.

Amore e Morte: una spirale di pensiero e due concetti cardine della Vita. In fondo, si nasce per morire ma, a ben pensarci, si muore, per ri-nascere.

Con questo assioma viene ad essere sottolineato un altro aspetto della Morte in relazione all’Amore: l’Amore è un morire che lascia spazio – quando è il momento – ad altre forme e parti generative di noi stessi.

È un morire, insomma, che si nutre, con ritmo quotidiano, di empatia e di elaborazioni.

È un morire che attraversa i territori della resilienza.

Morire a sé stessi, proprio in virtù dell’Amore …

“… chiunque mi Ama, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua.” ( Lc. 9, 23-26)

L’Amore è quel Cristo Salvatore, che viene a trovarci e che ci insegna come morire a sé stessi, per rivivere in una relazione d’Amore vivifica e salvifica.

Se ci lasciassimo guidare solo dalla letteratura, penseremmo che, una volta catturati dall’Amore, ne siamo completamente inglobati, senza possibilità di scelta.

Perché, sostiene Casale, confortato dal pensiero di Jung “l’amore ha non poco in comune con la morte.”

Se ci pensiamo bene, infatti, per amare si devono “sacrificare” parti di sé, lasciarle dunque morire, ma rendendole quasi sacre all’Amore stesso.

Contemporaneamente, però, dentro di noi emergono e prendono corpo altre situazioni: dalla relazione nascono nuovi elementi del nostro essere, che, sovente, risultano essere più naturali, più vicine alla propria totalità Psichica, e, contemporaneamente e inesorabilmente, più universali.

Così come la Morte, l’Amore può farci arrivare, attraverso un processo di trasmutazione, prima, e di sublimazione, poi, – di colpo o a poco a poco – a ciò che è essenziale, per noi, nella vita stessa.

E in questo gioco ad incastro di Amore e Morte , che è la Vita e, soprattutto, la sua dimensione di libertà a fare da collante: bisogna sempre mantenersi liberi di scegliere e decidere che senso e che direzione dare alla propria libertà interiore, mentre si dipana la matassa reticolare della Vita.

Non, dunque, quella assurda forma di libertà che corrisponde a “il fare ciò che si vuole” o, ancor di più e ancor peggio, al non avere “limiti”, può tessere la trama del nostro essere. Bensì, la libertà che ci porta ad accettare o meno di essere coinvolti nel turbinio dell’Amore e a viverlo con umile consapevolezza in un tempo e in uno spazio, per trovare la cifra dell’evoluzione.

Ogni volta che, narcisisticamente e/o egoisticamente, non si rinuncia ad una parte di sé, si muore per davvero, senza possibilità alcuna di ingresso in quel processo di universale appartenenza che è l’Eternità.

 Giusy Carminucci

LOUISE GLÜCK E LA LUCE D’INVERNO di Mariatina Alò

“…the adventure that writing is, each poem a journey into unknown territory

Era inverno, quando ho scoperto Louise Glück, e mi trovavo in un momento della vita in cui certe domande si accampano sulla testa come grossi uccelli nel loro nido.  Scrivere una buona poesia non deve essere mai stato facile, ma quando la incontri, la poesia vera, quelle parole ti si attaccano addosso, come se t’appartenessero da sempre. Avevo da poco cominciato a dedicarmi alle poete americane, quando ho scoperto Louise Glück, ho trovato incredibile questa vicinanza di sentire con i suoi scritti, questo calarsi nella sua parola e ritrovarsi, andare in un territorio straniero e sentirsi a casa propria.

Ho letto Averno, una silloge ispirata al lago Averno, nei pressi di Napoli, che, nella mitologia greco-romana, rappresenta la porta dell’Ade; qui la vita e la morte si incontrano, sotto il cielo d’inverno in cui non vi sono più uccelli a volare ed ogni cosa è fredda e scura. Averno è la narrazione del passaggio, dall’autunno all’inverno, dalla vita alla non vita, che non è propriamente morte, ma una dimensione di mezzo in cui sotto la terra le creature giacciono in attesa della rinascita. Così la Glück, richiama il mito di Persefone, figlia di Demetra e Zeus, guardiana della porta degli Inferi. Nella prima versione della poesia Persefone l’errante, la figlia che viene al mondo, diventa donna, entra nella terra, liberandosi dalla sua prigionia di figlia:

Lei sa che la terra

è affare di madri, questo almeno 

è certo. Sa anche che

lei non è più ciò che si dice

una ragazza. Per quanto riguarda

la carcerazione, lei crede

che è stata prigioniera da quando è stata figlia.”

Nella seconda versione di Persefone l’errante, la Glück rievoca la dimensione di madre, figura ricorrente in Averno, qui è il lutto di Demetra a colpire, il lutto della separazione della madre dal corpo della figlia, alla nascita, ed il lutto nel momento in cui la figlia muore al mondo dei vivi. Persefone, la donna che sulla terra viene a mancare, ma continua ad errare sotto la terra, mentre sua madre la cerca tra i vivi, Persefone la figlia che muore alla madre, che da lei si separa per divenire altro.

Abbiamo qui

una madre ed un enigma: questo

corrisponde precisamente all’esperienza

della madre quando

guarda in faccia alla bambina. Pensa:

ricordo quando non esistevi. La bambina

è perplessa: più tardi, l’opinione della bambina è

che è sempre esistita, proprio come

sua madre è sempre esistita

nella sua forma attuale.”

Nella sua autobiografia, la Glück racconta di essere stata introdotta alla lettura dei miti greci, da suo padre, il quale raccontava alle due sorelle anche la storia di Giovanna d’Arco, eliminando, però, la parte in cui la santa veniva messa al rogo. I suoi genitori hanno sempre spinto le due figlie a scrivere ed inventare storie, che il padre puntualmente trascriveva su grandi fogli; c’era, nella sua famiglia, la percezione che ogni forma d’arte fosse una nobile chiamata. Louise crebbe in due famiglie matriarcali, composte da un gran numero di donne, e benché il mondo non lo riconoscesse, nella sua famiglia vi era una consapevolezza: che il potere femminile fosse illimitato. Nonostante la vita l’abbia messa dinanzi a grandi prove, ha sofferto di anoressia in adolescenza e le fu diagnosticata l’epilessia; come dichiara nella sua autobiografia, la Glück ha attraversato un lungo periodo in analisi, percorso durato sette anni, che, dice, furono anni che cambiarono il corso della sua vita, rendendola vivibile.  “They made my life possible, really.

C’è, nei suoi versi, tutta la drammaticità dell’essere madre, figlia, donna, narrata con aspra precisione e amara consapevolezza, in un gioco evocativo che supera il tempo e riporta il lettore alla coscienza, pura e disillusa, della propria dimensione del vivere.

Ho imparato molto da lei, ho imparato che uscire dall’inverno si può, ma quelle ferite non si possono ricucire, perché ogni cosa in natura ha la sua precisa funzione e noi uomini non possiamo sottrarci a questo, tuttavia, cerchiamo appigli che ci permettano di esistere, di stare al mondo:

Posso testimoniare che quando il sole tramonta in inverno è

incomparabilmente bello e il ricordo di esso

dura a lungo. Penso questo vuol dire

non c’era notte.

La notte era nella mia testa.”

La Glück ci insegna che la poesia è una via d’uscita, un corridoio tra la vita e la morte, la luce e la non luce, con la consapevolezza che quello che viviamo, ci segna, ci ferisce, ma, allo stesso tempo, ci consente di crescere, di avanzare verso la nostra piena realizzazione di esseri umani.

Mariatina Alò

RECENSIONE: Averno (Louise Glück) - La lettrice controcorrente

Louise Glück è nata a New York nel 1943. Vincitrice del premio Pulitzer con L’iris selvatico (The Wild Iris, 1993), ha convinto i critici per lo stile controllato ed elegante con cui assorbe lunghe sequenze narrative di tratto confessionale che ricordano la poesia di R. Lowell, S. Plath e A. Sexton. In Meadowlands (1997) rievoca figure mitiche come Ulisse e Penelope. Nel 2020 vince il Nobel per la letteratura per la sua incofondibile voce poetica che con austera bellezza rende l’esistenza individuale esperienza universale. Nel 2020 per il Saggiatore vengono pubblicati: Averno e L’Iris Selvatico. A queste segue Ararat (2021).Muore a Cambridge, nel Massachusetts, il 13 ottobre 2023.

Louise Glück, L’iris selvatico, traduzione M. Bacigalupo, Il Saggiatore

Louise Glück, Averno, traduzione M. Bacigalupo, Il Saggiatore

https://www.nobelprize.org/prizes/literature/2020/gluck/biographical/

LA DONNA NERA: L’AFRICA di LÉOPOLD SÉDAR SENGHOR (poesie scelte)

La mia negritudine

La mia Negritudine non è il sonno della razza, no,
ma il sole dell’anima, la mia negritudine vista e vita
La mia Negritudine è un martello in mano, è una lancia in pugno
Come il bastone del messaggero.
Non si tratta di bere, di mangiare l’istante che passa
Al diavolo se m’intenerisco per le rose di Capo Verde!
Il mio compito è di ridestare il mio popolo ai futuri sfolgoranti
La mia gioia creare delle immagini per nutrirlo,
o luci ritmate della Parola!

Ma Négritude

Ma Négritude point n’est sommeil de la race mais soleil de l’âme, ma négritude vue et vie
Ma Négritude est truelle à la main, est lance au poing
Réécade. Il n’est question de boire, de manger l’instant qui passe
Tant pis si je m’attendris sur les roses du Cap-Vert!
Ma tâche est d ‘éveiller mon peuple aux futurs flamboyants
Ma joie de créer des images pour le nourrir, ô lumières rythmées de la Parole!

Ma Négritude è la poesia manifesto di Léopold Sédar Senghor(Joal, 9 ottobre 1906 – Verson, 20 dicembre, 2001), il poeta africano più importante del ‘900, nonché uomo politico senegalese di spicco e primo Presidente della Repubblica senegalese dal 1960 al 1980. Il primo africano a sedere come membro dell’Académie Francaise e il fondatore del partito politico “Blocco democratico senegalese”.

In essa sono delineati i parametri della prima scuola poetica africana e del senso dell’arte nera più in generale. Siamo nel 1936 quando Aimé Cesaire, poeta surrealista della Martinica, conia il termine Négritude e intorno a lui, a Parigi, si forma un gruppo tanto solido quanto eterogeneo, che fonda la rivista Lo Studente Nero.

A partire proprio dal neologismo Négritudine si possono però rintracciare poteri e limiti di questo gruppo: una poetica identitaria di liberazione definita attraverso una parola francese, un vocabolo creato seguendo le regole più comuni della grammatica di questa lingua colonizzatrice.

Se questa poesia nera non è risultata immune dall’influenza della cultura occidentale, simmetricamente è indiscutibile quanto l’arte europea del XX secolo ha subito il fascino dell’arte africana, come testimoniato dai saggi di Tristan Tzara o André Breton, dagli studi di Picasso o Matisse.

D’altronde, sempre secondo Senghor: ‘la vera cultura è mettere radici e sradicarsi. Mettere radici nel più profondo della terra natia. Nella sua eredità spirituale. Ma è anche sradicarsi e cioè aprirsi alla pioggia e al sole, ai fecondi rapporti delle civiltà straniere’”.

Donna nera

Donna nuda, donna nera

Vestita del colore che è vita, della forma che è bellezza.

Sono cresciuto alla tua ombra; la dolcezza delle tue mani bendava il mio sguardo.

Ed ecco che nel pieno dell’estate e del Mezzogiorno, ti ho scoperta, Terra promessa, dall’alto del lungo collo calcinato.

E la tua bellezza mi fulmina in pieno petto come folgore d’aquila.

Donna nuda, donna scura

Frutto maturo alla carne soda, estasi scure di vino nero, bocca che si fa lirica alla mia bocca,

Savana a puri orizzonti, savana che freme alle fervide carezze del Vento d’Oriente.

Tamtam inciso, tamtam teso che tuona sotto le dita del vincitore.

La tua voce grave di contralto è il canto spirituale dell’Amata.

Donna nera, donna scura

Olio che nessun soffio increspa, placido olio ai fianchi dell’atleta, ai fianchi dei principi del Mali

Gazzella agli attacchi celesti, le perle sono stelle nella notte della tua pelle.

Delizie di giochi dello Spirito, riflessi d’oro consumano la tua pelle che si fa screziata.

All’ombra della tua chioma, sbianca la mia angoscia ai soli prossimi dei tuoi occhi.

Donna nuda, donna nera

Canto la tua bellezza che passa, forma che fermo nell’Eterno.

Prima che il destino invidioso ti riduca in cenere per nutrire le radici della

vita.

Terra Madre di Fabrizio Zanelli, 25 ottobre 2008

***

Femme noire

Femme nue, femme noire
Vétue de ta couleur qui est vie, de ta forme qui est beauté
J’ai grandi à ton ombre; la douceur de tes mains bandait mes yeux
Et voilà qu’au cœur de l’Eté et de Midi,
Je te découvre, Terre promise, du haut d’un haut col calciné
Et ta beauté me foudroie en plein cœur, comme l’éclair d’un aigle

Femme nue, femme obscure
Fruit mûr à la chair ferme, sombres extases du vin noir, bouche qui fais lyrique ma bouche
Savane aux horizons purs, savane qui frémis aux caresses ferventes du Vent d’Est
Tamtam sculpté, tamtam tendu qui gronde sous les doigts du vainqueur
Ta voix grave de contralto est le chant spirituel de l’Aimée

Femme noire, femme obscure
Huile que ne ride nul souffle, huile calme aux flancs de l’athlète, aux flancs des princes du Mali
Gazelle aux attaches célestes, les perles sont étoiles sur la nuit de ta peau.

Délices des jeux de l’Esprit, les reflets de l’or ronge ta peau qui se moire

A l’ombre de ta chevelure, s’éclaire mon angoisse aux soleils prochains de tes yeux.

Femme nue, femme noire
Je chante ta beauté qui passe, forme que je fixe dans l’Eternel
Avant que le destin jaloux ne te réduise en cendres pour nourrir les racines de la vie.

***

Poesia al fratello bianco

Caro fratello bianco,

Quando sono nato, ero nero,

Quando sono cresciuto, ero nero,

Quando sono al sole resto nero,

Quando sono malato, resto nero,

Quando morirò, sarò nero.

Mentre tu, uomo bianco,

Quando sei nato, eri rosa,

Quando sei cresciuto, eri bianco,

Quando vai al sole, sei rosso

Quando hai freddo, sei blu

Quando hai paura, sei verde,

Quando sei malato, sei giallo,

Quando morirai, sarai grigio,

Allora, di noi due,

Chi è l’uomo di colore?

Poème à mon frère blanc

Cher frère blanc,

Quand je suis né, j’étais noir,

Quand j’ai grandi, j’étais noir,

Quand je suis au soleil, je suis noir,

Quand je suis malade, je suis noir,

Quand je mourrai, je serai noir.

Tandis que toi, homme blanc,

Quand tu es né, tu étais rose,

Quand tu as grandi, tu étais blanc,

Quand tu vas au soleil, tu es rouge,

Quand tu as froid, tu es bleu,

Quand tu as peur, tu es vert,

Quand tu es malade, tu es jaune,

Quand tu mourras, tu seras gris.

Alors, de nous deux,

Qui est l’homme de couleur?

***

Poème liminaire

À L.-G. DAMAS


Vous Tirailleurs Sénégalais, mes frères noirs à la main chaude sous la glace et la mort
Qui pourra vous chanter si ce n’est votre frère d’armes, votre frère de sang ?
Je ne laisserai pas la parole aux ministres, et pas aux généraux
Je ne laisserai pas — non ! — les louanges de mépris vous enterrer furtivement.
Vous n’êtes pas des pauvres aux poches vides sans honneur
Mais je déchirerai les rires banania sur tous les murs de France.
Car les poètes chantaient les fleurs artificielles des nuits de Montparnasse
Ils chantaient la nonchalance des chalands sur les canaux de moire et de simarre
Ils chantaient le désespoir distingué des poètes tuberculeux
Car les poètes chantaient les rêves des clochards sous l’élégance des ponts blancs
Car les poètes chantaient les héros, et votre rire n’était pas sérieux, votre peau noire pas classique.
Ah ! ne dites pas que je n’aime pas la France — je ne suis pas la France, je le sais —
Je sais que ce peuple de feu, chaque fois qu’il a libéré ses mains
A écrit la fraternité sur la première page de ses monuments
Qu’il a distribué la faim de l’esprit comme de la liberté
À tous les peuples de la terre conviés solennellement au festin catholique.
Ah ! ne suis-je pas assez divisé ? Et pourquoi cette bombe
Dans le jardin si patiemment gagné sur les épines de la brousse ?
Pourquoi cette bombe sur la maison édifiée pierre à pierre ?
Pardonne-moi, Sira-Badral, pardonne étoile du Sud de mon sang
Pardonne à ton petit-neveu s’il a lancé sa lance pour les seize sons du sorong
Notre noblesse nouvelle est non de dominer notre peuple, mais d’être son rythme et son cœur
Non de paître les terres, mais comme le grain de millet de pourrir dans la terre
Non d’être la tête du peuple, mais bien sa bouche et sa trompette.
Qui pourra vous chanter si ce n’est votre frère d’armes, votre frère de sang
Vous Tirailleurs Sénégalais, mes frères noirs à la main chaude, couchés sous la glace et la mort ?

Paris, avril 1940

***
Poesia d’apertura


A L.G. Damas

Voi Tirailleurs senegalesi, fratelli neri dalla mano calda al gelo e alla morte
Chi potrà cantarvi se non il vostro fratello d’armi,
vostro fratello di sangue?
Non lascerò la parola ai ministri, e non ai
Generali
Non lascerò – no! – che le lodi del disprezzo vi sotterrino silenziosamente.
Non siete poveri dalle tasche vuote
senza onore
Ma strapperò le risate banania su tutti i muri di
Francia.
Perché i poeti cantano i fiori artificiali delle notti di Montparnasse
Cantano l’indifferenza delle chiatte sui canali di moire e di simarre
Cantano la raffinata disperazione dei poeti tubercolotici
Perché i poeti cantano i sogni dei clochard sotto l’eleganza di bianchi ponti
Perché i poeti cantano gli eroi, e il vostro riso non è sincero, la vostra pelle nera non è classica.

Ah! Non dite che non amo la Francia – Non sono la Francia, lo so –
So che questo infuocato popolo, ogni volta che ha avuto libere le mani
ha scritto fraternità sul fronte dei suoi monumenti.
Ha diviso fame dello spirito e di libertà
a tutti i popoli della terra solennemente invitati alla festività cattolica.
Ah! Non sono già abbastanza diviso? E perché questa bomba nel giardino tanto pazientemente conquistato sulle spine della savana?
Perché questa bomba sulla casa edificata pietra su
pietra?
Perdonatemi, Sira-Badral, perdonate stella del Sud del sangue mio
Perdona a tuo pronipote se ha spezzato una lancia per i sedici suoni del sorong
La nostra nuova nobiltà non è dominare il nostro popolo, ma d’esserne il ritmo, il cuore.
Non di brulicare le terre, ma come grano di miglio, corrompersi nella terra
Non d’essere il capo di un popolo, ma la sua bocca ed il suo corno.
Chi potrà cantarvi se non vostro fratello d’armi,
vostro fratello di sangue

Voi Tirailleurs senegalesi, fratelli neri dalla mano calda, coricati al gelo e alla morte?

Parigi, aprile 1940

Testi e traduzioni a cura di

Giulia Sonnante


ROSALIA DE CASTRO di Miriam Bruni

Nasce nel 1837 a Camino Novo, un sobborgo di Santiago di Compostela, (Galizia) ed è la figlia illegittima di un sacerdote e di una ragazza nubile di nobile famiglia.

Lo scandalo della sua nascita segna profondamente gli anni della sua infanzia, facendola sentire dolorosamente non conforme ai dettami della società del tempo. La sua vita è difficile, ma segnata fin dall’inizio da un amore immenso per la poesia.

Con la sua opera ricca e complessa, questa donna povera e tormentata, è riuscita a riabilitare la lingua gallega, dopo che per secoli era stata sminuita in favore del catalano e del castigliano.

Ella esprime nel suo temperamento malinconico e lirico il genius loci della sua terra, terra di horreos, i tradizionali granai galiziani, di ortensie blu, di boschi e di nebbie, di stregoneria e di mistero. L’atmosfera atlantica evocata dalla sua poesia è la dimensione tragica e fatale di Ananke, la dea del Destino e della Necessità. Sebbene si dedichi alla scrittura di numerose opere in prosa, tra cui Il cavaliere con gli stivali azzurri, pubblicato per la prima volta in Italia da Cliquot, la sua fama è legata maggiormente alla produzione poetica in galiziano e castigliano.

È considerata una delle figure chiave del movimento del Rexurdimento (Rinascimento) e la sua raccolta di versi Cantares Gallegos segna l’inizio della letteratura contemporanea in lingua galiziana. Proprio all’amore per la sua terra sono dedicati la maggior parte dei suoi versi.

In essi la de Castro si fa portavoce dello spirito del popolo, della sua irriducibile gioia di vivere, ma anche del dolore provato dai tanti immigrati costretti ad abbandonare la Galizia a causa delle difficili condizioni economiche.

Intorno al 1867, poco dopo la pubblicazione della sua opera poetica più famosa scritta in castigliano, En las orillas del Sar, inizia una fase più personale in cui Rosalía tocca temi quali la solitudine spirituale, la paura della morte, la precarietà dei sentimenti, la vanità di ogni cosa. Grazie a questi versi, dal carattere intimista e romantico, verrà considerata una pioniera della poesia spagnola moderna.

Muore a Padrón nel 1885.

Ecco il primo testo di  En las orillas del Sar, da me tradotto in italiano.

A través del follaje perenne

que oír deja rumores extraňos,

y entre un mar de ondulante verdura,

amorosa mansión de los pájaros,

desde mis ventanas veo

el templo que quise tanto.

El templo que tanto quise…,

pues no sé decir ya si le quiero,

que en el rudo vaivén que sin tregua

se agitan mis pensamientos,

dudo si el rencor adusto

vive unido al amor en mi pecho.

***

Tra il fogliame sempreverde

che fa udire strane voci,

e l’ondulato verde marino,

degli uccelli diletta dimora,

dalle mie finestre vedo

il tempio da me tanto amato.

Il tempio che ho tanto amato,

perché come posso dire di amarlo ancora?

Nella molesta e continua

dei miei pensieri altalena,

io dubito che il cupo rancore

possa vivere nel mio petto assieme all’amore.

Il resto dell’opera lo potete consultare qui:https://www.cervantesvirtual.com/obra-visor/en-las-orillas-del-sar–0/html/fedc3584-82b1-11df-acc7-002185ce6064_2.html

Lettura del testo in lingua originale

Miriam Bruni

Foto di Miriam Bruni in territorio galiziano, estate 2022
Foto di Miriam Bruni in territorio galiziano, estate 2022

ECHI DI PAROLE di Alfredo Dell’Era

Qualcuno potrebbe dire che riecheggia troppo Pavese, questa poesia di Michele Mari, per non parlare di plagio.

Replicherei che no, che non c’è presente senza passato e che, se certamente esiste l’individualità del testo, esiste anche un rapporto dialettico fra testo e sistema culturale di riferimento.

Ciò significa, come insegna Genette, che nessun’opera può dirsi fino in fondo autonoma: ogni autore degno di questo nome si è nutrito di vaste e profonde letture, e – per originale che sia – non può non riconoscersi debitore verso chi l’ha preceduto.

Va da sé che i legami intertestuali possono essere assai scoperti, come nel caso della citazione, o assumere forme molto più sfumate e implicite; non mancano esempi illustri: il dannunziano «conosce il tremolar della marina» (I pastori) ricalca «conobbi il tremolar de la marina» del I canto del Purgatorio dantesco; ma ancor prima di D’Annunzio – agli albori del Seicento – troviamo «il tremolar della marina» nell’Oceano di Alessandro Tassoni.

E Leopardi («all’opre femminili intenta», A Silvia) “debitore” di Vincenzo Monti («all’opra delle spole intenta», libro I dell’Iliade nella traduzione – appunto – del Monti). E il discorso potrebbe continuare.

Quando iniziano questi “echi di parole”, come mi è piaciuto definirli?

Bisognerà per l’Occidente risalire molto indietro, alla letteratura greca con Omero ripreso da Archiloco e da Mimnermo e poi, lungo i secoli, con i richiami ai predecessori che compaiono pressoché in ogni autore: citazioni, reminiscenze, allusioni, ma anche nette prese di distanza (Tucidide, fra gli altri, da Erodoto).

Dal mondo greco a quello latino. Catullo, Virgilio, Orazio raccolgono l’eredità ellenica e si rivolgono a un pubblico colto, cui non sfuggano i frequenti rinvii a Omero, Alceo, Saffo, Esiodo, Apollonio, Callimaco.

Arte allusiva raffinatissima che evoca e contamina i modelli greci e che informerà di sé particolarmente i neòteroi, i poetae novi che più degli altri al mondo greco si rifacevano.

Catullo fra tutti, il cui carme 51 (Ille mi par esse deo videtur è il verso incipitario) è una riscrittura dell’Ode della gelosia di Saffo.

Saffo

Se l’alfa è nel mondo classico, dove sarà l’omega della rete intertestuale?

Non pare ci sia né possa esserci, ché il dialogo con l’eredità del passato – reminiscenze, rievocazioni, rivisitazioni – è costante nella produzione letteraria.

Ma usciamo dal solco della letteratura e, per venire all’oggi, puntiamo il focus su un autore – un cantautore – i cui testi sono veri e propri centoni citazionisti (il citazionismo è notoriamente al centro del postmoderno, che si parli di letteratura o di architettura, di pittura o di scultura o, appunto, di musica).

Franco Battiato, intendo.

Cuccurucucù di citazioni ne contiene dodici, ripetute più volte, e son troppe per enumerarle tutte.

In Bandiera bianca son di meno, ma sempre tante; riportiamone solo due, la più “alta” e la più “bassa”: «Minima immoralia» (imitatio cum variatione dei Minima moralia di Theodor Adorno) e «siamo figli delle stelle» (Alan Sorrenti).

Eccola, Bandiera bianca, dalla voce del Maestro Battiato:

In chiusura, ringrazio Alessia Pitagora, senza il cui avallo le mie righe sulla letteratura classica sarebbero state assai esitanti; e ringrazio Alessandro Tassoni, che mi fornisce il distico con cui chiudere questi appunti, forse un po’ noiosi: «ma vaglia il buon voler, s’altro non lice, / e chi la leggerà viva felice.

Alfredo Dell’Era

JUDITH VIORST, CON L’AMERICA NELL’ANIMA di Anna Rita Merico

Esplorare la potenza del poetare resta, sempre, un atto di meraviglia e un’apertura di conoscenze.

Da altre latitudini i versi di Judith Viorst: una lezione di ironia e pungente verità su spaccati di vita in America, oggi. Leggerezza di sguardo e fine attenzione per una poesia che, per il suo contenuto, è da pensare come una poesia sociale sui generis. Nel testo presentato l’Autrice attraversa il significato dell’apprendimento stereotipato dei ruoli maschile e femminile in un’America fatta di perfezionismo e claustrofobico senso della democrazia.

Un universo sempre identico a se stesso viene “insegnato” alle giovani generazioni, una morsa che si inscrive nell’anima segnandola. È il passo della “democratica massa” gestita e orientata da poteri economici forti a decidere i destini individuali, i sentimenti e anche gli esiti della ribellione. Dietro questa poesia scanzonata, l’Autrice sembra rimarcare l’amarezza dell’impossibilità di venir fuori dalle maglie di una struttura sociale che, nei fatti, mostra la dura realtà del proprio volto politico. Una politica assoggettata all’economia più che ai valori di una democrazia persa tra gli intenti dei Padri fondatori. Valori impossibili da respirare in una società classista nella quale vivere ad Harlem o nell’Upper East Side vuol dire doppio binario per qualsiasi diritto a cui si dovrebbe poter accedere. La Viorst non a caso punta, in questo testo, alla sanità americana blindata tra holding assicurative e legacci posti per l’accesso dei servizi.

Forte, nel testo, il richiamo alla Mistica della Femminilità, cult di Betty Friedan, un saggio del 1963 in cui i postumi e le riscritture della società americana, al termine della II Guerra Mondiale, vedono le donne ingabbiate nel ruolo di sposa e madre e gli uomini professionalmente attivi in ruoli ritenuti di prestigio. Nei fatti sono stati i due decenni (anni ’50 e ’60 dello scorso secolo) in cui è stata ri-scritta la middle class americana nella codificazione dei ruoli e, soprattutto, dei consumi. Sono stati i decenni in cui la vita delle donne si è arenata in sobborghi residenziali che hanno costituito la deriva dell’affermazione femminile nel lavoro durante gli anni dell’economia di guerra in cui le donne erano attivamente impegnate in processi economico-produttivi.

Ma, in questi testi, scorre anche la condivisione dello sguardo con J.D. Salinger, altro Maestro della feroce critica al sistema democratico americano. Salinger, attraverso lo sguardo di Holden Caufield[1] dipana una serrata critica al sistema scolastico americano che, tra anni ’50 e ’60 dello scorso secolo, dopo aver espulso migliaia di donne dal suo interno, passa al proprio secondo compito: formare la classe dirigente americana.

Sono, questi della Viorst, versi che tratteggiano volti comuni, appesantiti da tratti caricaturali i quali intendono denunciare aspetti di una discutibile normalità capace di lasciar affossare autentici progetti individuali. L’Autrice mostra verve ironica anche nei confronti dei diversi movimenti di liberazione e non solo femminili. La Sua domanda, dunque, resta una domanda sulla libertà umana che solo un pensiero critico, libero, di resistenza ai diktat sociali può realizzare salvaguardando il fine stesso dell’umanità nella propria differenza alla dimensione non umanizzata dell’animale verso cui talune massificazioni conducono.

INSEGNAMENTI[2]

A lei hanno insegnato

se non ti sposi finirai per diventare una persona molto

             sola che fissa i quattro muri di casa, e

a lui hanno insegnato

se non ti laurei in legge finirai per suscitare pietà e

             disprezzo vendendo cravatte in una merceria

             di East Orange[3], e

a lei hanno insegnato

se non metti via qualcosa ogni settimana finirai per

            diventare una persona molto sola sbattuta

            fuori sul marciapiede, e

a lui hanno insegnato

se presti ad un amico la tua giacca sportiva suderà sotto

         le ascelle e non l’aggiusteranno in tintoria e

         tu finirai a covare risentimento, e

a lei hanno insegnato

se non hai la Blue Cross e il Blue Shield[4] finirai per

         diventare una persona molto sola che delira

         in un reparto d’ospedale, e

a lui hanno insegnato

se ti porti le ragazze a letto mentiranno e diranno che

           sono incinte e finirai per doverle sposare, ma

lei ha cambiato il suo nome in Maya, e

lui ha cambiato il suo nome in Orfeo, e

ora vivono in una comune in mezzo alla campagna

con tanto di pulizie di casa collettive e verdure biologiche

       e quel tipo di relazioni incredibilmente oneste

solo possibili tra uomini e donne

che hanno rinunciato allo sciacquone e alla compagnia

            del telefono, e

a furia di lavorare nei campi e fare il bucato nei ruscelli,

        e indossare semplici tessuti a mano

hanno affrancato i sensi dalla tirannia dell’intelletto, e

si sono accordati alla musica del cosmo, e

hanno sondato gli abissi segreti del loro più intimo

                             essere, ma

lei mette ancora via qualcosa ogni settimana, e

lui non presta a nessuno la sua giacca…

Non si sa mai.[5]

Anna Rita Merico


[1] J.D. Salinger Il giovane Holden Einaudi 1961

[2] Judith Viorst La gente e altre seccature, Einaudi 2023, pg 14-17. Le note sono da note al testo pg 95

[3] East Orange: città della Contea di Essex, nello Stato del New Jersey

 [4] Blue Cross Blue Shield Association. Federazione di 35 distinte compagnie d’assicurazione sanitaria degli Stati Uniti che assiste, in base alle più recenti stime, un cittadino americano su tre

[5] Judith Viorst La gente e altre seccature, traduzione di Leonardo Guzzo e Marco Sonzogni, Einaudi ed. 2023, pg 14-17