SE TOLGO IL NODO di ANNA RITA MERICO: SULLE TRACCE DEL DESIDERIO

A.R. Merico, Se tolgo il nodo
Con uno scritto di Antonio Nazzaro
Postfazione di Claudia Mirrione
Musicaos Editore, Neviano (Lecce) novembre, 2023

Ci sono fili, funi, tentacoli a legarci alla Poesia di Anna Rita Merico in Se tolgo il nodo, ma è il verso stesso a chiedere spazio per riuscire a penetrare l’anima; la pagina appare come segnata dalla parola poetica, scolpita su marmo.

Fili e spazi, come ossimori, sono, tra loro, in perfetta simmetria per riuscire ad esprimere il tutto del pensiero, il tutto della parola: Un movimento ralenty–irreale / mi catapulta in uno spazio violaceo turchino (…)  ora nulla più mi lega / il linguaggio è tentacolo filiforme. (CHIRURGIE p. 15)

È Poesia verticale, discesa, viaggio in profondità che reclama una spogliazione, progressiva perdita di parti del corpo: Perdo parte / una millimetrica chirurgia stacca bordo estasiato di pelle (p. 15) e ancora: un filo potente scuce / un movimento di lentezza imprendibile avvolge / nel fondo in cui scendo / trovo l’inaspettato (DENTEDIBESTIA p. 17). E non stupisce che la scena, come in un dramma teatrale, si apra con lo spazio cosmico lì dove, come shuttle, l’io poetante s’eleva cercando di riafferrare brandelli di sé: Così / perdo parte di me / all’inizio vedo la parte / cerco di riabbordarla / con sempre minor forza e intenso dolore la guardo / impellicciata nell’impossibile del gesto / vengo ritagliata in forma nuova. (p. 15). Tali versi, dicono, in apertura, ciò che sarà il viaggio, l’atto unico della nostra Vita: perdita, dolore, forma nuova.

L’inaspettato, in questo scuro labirinto contemporaneo, senza fiamme, certo, come nel gorgo dantesco, ma con rostri ad uncinare la tenera pelle, è il Minotauro di Dürrenmatt[1] che l’autrice pone in ex ergo. S’accovaccia, il Minotauro, avanza, arretra con noi in un gioco di specchi, un’infinita danza: “scaturì un po’ per volta una ritmica danza della creatura con le sue immagini che erano in parte specularmente inverse e in parte, quali immagini d’immagini identiche alla creatura” (p. 7). Esso rappresenta, dunque, l’incompiuto, l’irrisolto, ciò che non siamo stati capaci di accettare, i nodi che non abbiamo saputo sciogliere.

Il Minotauro ricorre anche in Fenomenologia del silenzio[2], corposa raccolta poetica (2004 -2021), di cui Se tolgo il nodo sembra essere gemmazione. Qui la poeta scrive: Al centro del livido umore / il Minotauro ronzante modellava / spargeva le mancanti vocali dell’incompiuto alfabeto.[3] Estremamente affascinante, l’immagine del Minotauro che sparge le vocali mancanti; la scrittura, o meglio, il suo divenire solca il vuoto cercando le parole per enunciarlo affinché in esse tutto abbia corpo, persino il nulla; ma non mi sembra questo il punto. C’è proprio un vuoto, sembra dirci la Merico, che la parola poetica non sa riempire. “La parola è impotente”, afferma Ungaretti (1888 – 1970)[4], ed è quel segreto, quell’ineffabile che possiamo sfiorare con lo spirito, ma che sfugge al corpo della parola, ad esser essenza della Poesia. Eppure, questa ipotesi non mi convince appieno. Credo che ciò che tormenti la Poeta sia l’Altro nell’assenza. Potremmo affermare, dunque, che la parola poetica sia, in Merico, espressione del desiderio; ella scrive: dietro ad ogni parola c’è un pensiero che non stringo ma che mi si mostra tormentandomi / a volte dei raggi mi trafiggono pupille e mani (Per Claudia Ruggeri, p. 59)

Difatti il desiderio, inteso come assenza o anche attesa di qualcosa che si colloca altrove in un luogo mai pienamente identificato, sembra attraversare come filo rosso, l’intera raccolta, o meglio, le parti, i bozzetti, di cui l’opera è composta.  

Il viaggio dell’essere umano inizia nel cosmo: Tutto avviene nel passaggio dal cosmo alle tube (…) ma quando questo passaggio non è stato / semplice regolare lineare e si occlude il sentiero e qualcosa resta nel buio metallico del cosmo (…) e poi accade che nasco ma ho un pezzo fuori (…) senza quel pezzo non posso / non riesco [5] Per me, questi versi, nei quali è rappresentato il trauma della Nascita, non sono soltanto espressione del desiderio, ma provocano l’anima, raschiandola, chiamandola in causa; così la Filosofia si fa incontrovertibile Verità, non solo idee, pensieri, ipotesi, e la Verità, Poesia. Ed il passaggio dalla Verità alla Poesia è Salvezza.

In FAME l’autrice focalizza l’attenzione sul cibo e scrive: Ululo come lupo         piango come agnella / stasera   stasera     stasera / vorrei    vorrei     vorrei  / cenare con te /  aiutami     ho fame stasera; qui l’evidenza del desiderio non è resa soltanto attraverso la reiterazione del condizionale ma anche tramite una maggiore dimensione degli spazi tra le parole.

Per quei cordami che stringono l’autore al lettore ma anche, tra loro, le varie parti dell’opera, il cibo è legato all’amore, dunque, alla figura materna, centrale in SQUAME: allontanati      vorresti divorarmi / ti sento con le tue squame graffiarmi la pelle (…) allontanati / non vedi che ho caldo durante quest’inverno di albe brinose? (p.37)

In SE TOLGO IL NODO, bozzetto che dà il titolo all’intera opera, l’autrice sembra, invece, delineare il fenomeno del ritiro sociale: Cambio pelle forse   però   se togli il nodo quel borbottio dell’anima si ferma / forse    però    se togli il nodo il tuo gemello siamese svanirà / sai? / lui non è reale (p. 35).

Quel “gemello siamese” con il quale si confronta chi vive in solitudine, solo, nella folla del virtuale, senza saper incontrare veramente l’altro, mi riporta, ancora una volta, al Minotauro che, danzando, ci rispecchia. Se la guarigione è nell’Altro, anche il desiderio può cambiare prospettiva. Freud (1856 – 1939) ci ricorda, a questo proposito, che il sogno è l’appagamento di un desiderio in cui sono presenti anche le voci degli altri.

E nel movimento tellurico dei versi, splendida è SUZIONE in cui, ancora una volta, la voce materna giunge da luogo altro, una dimensione tutta onirica. Ma qui la Merico apre la ferita del non amore poiché tratteggia una relazione distruttiva,  forse simbiotica, piuttosto che d’amore autentico, relazione che, infine, si libera, libera, cioè, il desiderio della madre attraverso il dolore: era lei proprio lei / sbucava dal ventre di una notte archetipa /aveva rapito la libertà della sua origine e ci si era ficcata dentro (…) urticata nel suo progetto distruttivo / bramata d’amore / per lei stanotte ho pianto / per lei stanotte ho tentato di bere il succo amaro del suo latte rancido (…) stanotte ho pianto / per lei          per me / succhiando nuova libertà (p. 63).

Come precipizio a strapiombo sul mare, ritroviamo, nitido, il vuoto d’amore ma anche il desiderio come appagamento del corpo; in Fenomenologia del silenzio, più in particolare, in The process of writing, l’autrice scrive: Bocca affamata / dispettosa / tiranna / regina d’archetipo desiderio /      origine spaccata in due[6]

Se la parola diviene corpo, si dimostra impotente, mancante, ombra ineffabile. È lì, sul ciglio del dirupo, pronta a lanciarsi nel vuoto; è, essa stessa, vuoto, non asettico, fine a sé stesso, ma desiderio dell’Altro, poiché siamo protesi verso l’Altro ed il Poeta, nella sua solitudine, lo è strenuamente. Urla, il poeta, nella fragilità della Parola.

Dall’urlo delle viscere una parola muta

come può tanta mancanza d’ordine

trovare filo ed ordito di trama?

una doppia juta di sillabe si tesse

mentre

la parola mostra

ancora

solo

la sua ombra[7]

È il semiologo francese, Roland Barthes (1915 – 1980) ad associare scrittura, corpo e desiderio scrivendo: “Le langage est une peau: je frotte mon langage contre l’autre. C’est comme si j’avais des mots en guise de doigts, ou des doigts au bout de mes mots. Mon langage tremble de désir[8] e ancora: «Savoir que l’on écrit pas pour l’autre, savoir que ces choses que je vais écrire ne me feront jamais aimer de qui j’aime, savoir que l’écriture ne compense rien, ne sublime rien, qu’elle est précisément, ” là où tu n’es pas,” c’est le commencement de l’écriture… »[9]

Mentre Barthes sfrega il linguaggio contro l’Altro per distaccarne scintille, la Merico se ne sente stordita: Mi sono sempre sentita invasa / allagata intollerante alla parola (…) le mie parole si stordiscono facilmente e mi lasciano dolore acuto insopportabile come una scia di lava (FUTURO p. 53). D’altro canto, il tentacolo filiforme con cui la Poeta apre la raccolta, è qualcosa che avviluppa, involge ed inesorabilmente attrae. Ma è lì, nel peso, in quella dolorosa attrattiva di corpo e senso che la Poesia incendia la Parola.   

Giulia Sonnante


Anna Rita Merico Nata a Nola (Na), attualmente vive in Salento. Inizia la propria attività di ricerca all’interno dell’M.C.E. (Movimento Cooperazione Educativa) e, contestualmente, in ambienti legati al pensiero della soggettività femminile a partire da Laurea in Filosofia e tesi su Carla Lonzi. Molte le collaborazioni con I.R.R.E. Puglia e Ministero per sperimentazioni nazionali (Progetto P.O.LI.TE.) ed europee (Progetto Tam-Tam, Spagna-Grecia-Italia) sul tema della didattica della differenza sessuale.

Lunga attività di ricerca su tematiche inerenti la filosofia della differenza sessuale: collaborazioni con dipartimenti universitari attraverso progettazioni europee, pubblicazioni su riviste di settore e testi collettanei, formatrice in corsi presso enti istituzionali ed associazionismo.

Silloge: Era un raggio…entrò da Est (2020, Musicaos ed.). Raccolta: Fenomenologia del silenzio (Musicaos ed. 2022)

Presente su blog e riviste online/cartacee (critica letteraria e poesia).


Note

[1]Friedrich Dürrenmatt, in Romanzi e racconti a cura di Eugenio Bernardi, 1993, Einaudi-Gallimard, Torino, trad. di Umberto Gandini

[2] A. R. Merico, Fenomenologia del Silenzio, poesie (2004 -2021) segnate pietre, in the process of writing, Dall’angolo bucato entra memoria, una parola si bea, al sole, pulsando infinita – Musicaos Editore, Neviano (Lecce) 2022

[3] AR. Merico in ibid p. 77.

[4] Intervista a Giuseppe Ungaretti (1961)

[5] A.R. Merico Se tolgo il nodo p. 59 (in Per Claudia Ruggeri)

[6] A.R. Merico, Fenomenologia del silenzio p. 50

[7] A. R. Merico, Fenomenologia del Silenzio, p. 91

[8] R. Barthes, Fragments d’un discours amoureux (1977)  testo in formato digitale al seguente link : https://www.sas.upenn.edu/~cavitch/pdf-library/Barthes_Discours_amoreux.pdf [Il linguaggio è una pelle : io sfrego il mio linguaggio contro l’altro. È come se avessi delle parole a mo’ di dita, o delle dita sulla punta delle parole. Il mio linguaggio freme di desiderio.]

[9] R. Barthes Fragments d’un discours amoureux (1977) [sapere che non si scrive per l’altro, sapere che le cose che scriverò, non faranno innamorare chi amo, sapere che la scrittura non compensa nulla, non sublima nulla, sapere che essa è proprio là dove tu non sei, è là che ha inizio la scrittura.] traduzione di chi scrive.