RIFLESSIONE NORDICA di Trento Vacca

Zygmunt Bauman ci ha detto che viviamo in una società liquida. È il cosiddetto tempo della postmodernità in cui siamo, giustappunto, immersi, come gocce tra miliardi di gocce. Alla nostra memoria è ormai consegnata l’immagine di una società solida, che poteva permettersi di programmare a lungo termine, che aveva riferimenti e categorie di pensiero riconoscibili e riconosciute. Questo tempo ormai non esiste più.

La metafora del sociologo e filosofo polacco sugli stati solido – liquido della società apre molteplici riflessioni… Una su tutte: mentre le cose solide bastano da sole per definirsi – se parliamo di un po’ di pane o un chilo di pane sempre di pane parliamo – per le cose liquide il discorso cambia. Difficilmente, infatti, parliamo genericamente di acqua, più frequentemente invece diciamo di aver bisogno di un bicchiere d’acqua o di una bottiglia d’acqua. Ergo, il liquido ha bisogno che gli sia affiancata una forma per essere definito.

Se per le cose allo stato solido quindi il discorso rimane concentrato sulla sostanza per le cose liquide non basta più la sostanza ma diventa importante, se non predominante, la forma.

Come per gli stati della materia, anche la società di oggi si trova di fronte a questa grande riflessione tra forma e sostanza, tutt’ora del tutto irrisolta. Nella bilancia delle nostre esistenze pesa sempre di più il piatto della forma e si fa sempre più fatica a trovare contrappesi da mettere sul piatto della sostanza. L’equilibrio sembra rotto, la bilancia impazzita, il processo a favore della forma inarrestabile.

E così, se da un lato siamo ancora alle prese con una palese crisi di identità – in perenne disagio e col fiato corto a inseguire un continuo cambiamento che è diventato più una condizione esistenziale che una di passaggio non sappiamo ancora cosa siamo né cosa vogliamo essere – dall’altro bussa alla porta delle nostre coscienze una domanda forte: cosa saremo domani?

Riguardo a questa domanda, chi sembra avere le idee molto chiare è il regista svedese Roy Andersson,  pluripremiato alla Mostra del Cinema di Venezia, Leone d’oro nel 2014 con il film Un piccione seduto su un ramo riflette sull’esistenza”  e Leone d’argento nel 2019 per la migliore regia con il film “Sulla infinitezza”.

I contraddittori tabloit vivants tipici della sua narrazione cinematografica ci presentano un’umanità su cui vale la pena riflettere. Ve ne propongo tre.

Tabloit vivant n.1Incontro con la morte n. 3  da “Un piccione seduto su un ramo riflette sull’esistenza
 

Nell’area ristorante di un traghetto, un uomo, subito dopo aver pagato un sandwich con maionese e gamberetti e una birra viene stroncato da un malore. Il personale di bordo tenta di rianimarlo ma non c’è niente da fare, l’uomo è morto. Tuttavia la preoccupazione dell’addetta al banco è che il pranzo, già pagato dall’uomo, rimanga non consumato. Il capitano che presiede il soccorso concorda e aggiunge: “non si può far pagare due volte lo stesso pranzo”. La signora allora invita qualche volontario a consumare quanto rimasto sul banco. Un uomo anziano, ai tavolini, si alza e dice di accettare volentieri la birra.

Tabloit vivant n.2da “Sull’infinitezza

Un prete è disperato perché ha perso la fede. Per ritrovarla si affida a uno psicologo. Il risultato è rappresentato nella scena.

Tabloit vivant n.3 da “Un piccione seduto su un ramo riflette sull’esistenza

In un pub suburbano di Goteborg fanno improvvisamente irruzione, direttamente dal 18esimo secolo, le truppe di Carlo XII di Svezia in marcia verso la conquista di Mosca. Il re ha bisogno del bagno.

Quella che emerge dalle tre scene presentate, e in genere da tutta la produzione cinematografica di Andersson, è un’umanità arrivata ormai al capolinea, sempre che di umanità si possa ancora parlare. Guardando i colori smorti delle scene, l’atmosfera plumbea degli ambienti e i volti anemici dei protagonisti mi viene in mente una frase di Tiziano Terzani: “il consumismo finirà per consumarci, il consumismo ci consumerà”.  E così in effetti sembra essere andata.

La prima scena ci parla di una mutazione antropologica compiuta: Ecce Homo Consumens! In un mondo in cui l’esistenza è ridotta al sistema binario del vendere e del comprare, la morte di un uomo – che cessa di essere consumatore – ormai non ha alcuna importanza. L’unica cosa a contare ancora, anche di fronte alla morte, è il prodotto da consumare. La priorità? Trovare il prossimo consumatore.

Eppure, in questo mondo che cade a pezzi, tutto sembra ancora funzionare… L’uomo che ha perso la fede continua a fare il prete per professione ubriacandosi con il vino della comunione. Dalle sue mani, i fedeli continueranno a ricevere il corpo e il sangue di Cristo. L’addetta al banco sarà sempre lì a fare il suo lavoro, il traghetto continuerà a trasportare persone e gli avventori ritorneranno nel pub di Goteborg a bere e a giocare alle macchinette.

Ma tutto è ormai solo forma. E l’uomo ridotto a un compito. Spettatore degli eventi senza più nulla da dire sulla scena dell’evoluzione umana.

E qui arriva la magnifica provocazione della scena del pub in cui passato e presente si incontrano in un cortocircuito spazio – temporale. La scialba umanità del XXI secolo, che ha perso l’appuntamento con la storia del proprio tempo, vaga come rifiuto nella linea del tempo, ridotta a inutile comparsa nella Storia che addirittura le passa davanti – la marcia di Carlo XII di Svezia e del proprio esercito durante la campagna di Poltava del 1700.

Ma più che il prete, l’addetta al banco, gli avventori del pub di Goteborg con tutto il loro corredo di banalità ciò che emerge come assoluta protagonista in ogni scena è la mancanza. Mancanza di compassione, mancanza di amore, mancanza di fede, mancanza di valori, mancanza di tutte quelle cose che, quando vere, danno bellezza e gioia alla vita e che rendono una società coesa. Tutte cose, queste, che non sono visibili agli occhi, proprio come i legami molecolari della materia, così piccoli e nascosti nell’infinitesimo eppure così determinanti ai fini della sostanza.

E qui, procedendo con la chimica e con la sociologia, come Baumann ci insegna possiamo arrivare alle conclusioni di questo articolo: a legami forti società solide, a legami deboli società liquide, a legami assenti società verso la disgregazione.

Che dopo la fase liquida l’umanità del post-postmodernismo vada verso la completa vaporizzazione?

Trento Vacca

THE LOBSTER

“L’uomo civile ha barattato una parte della sua possibilità di felicità

per un po’ di sicurezza.”

Sigmund Freud, Il disagio della civiltà, 1930

In un prossimo futuro non sarà più possibile essere single.

Oltre una certa età, infatti, i single verranno prelevati e rinchiusi in lussuosi hotel dove avranno 45 giorni di tempo per trovare la propria anima gemella altrimenti saranno trasformati in animali.

La ricerca del partner non sarà libera – i single, infatti, nella maggior parte dei casi hanno già scelto male e non potrà essere concessa loro ulteriore fiducia – ma dovrà essere fondata su delle affinità, fisiche o caratteriali, concrete e verificabili come ad esempio la condivisione della miopia, avere dei bei capelli, non riuscire a provare alcun sentimento o emozione, avere una bella voce, possedere una laurea in matematica…

La vita di coppia sarà così certificata in un’apposita documentazione che dovrà essere esibita durante i regolari controlli delle forze dell’ordine.

Quella appena descritta non è una sinistra profezia né tantomeno l’incubo che ho fatto ieri notte ma una visione del cineasta Yorgos Lanthimos tradotta nel suo film The Lobster – premio della giuria al festival di Cannes del 2015. Il film si inserisce nel solco delle cosiddette opere “distopiche” tracciato da illustri predecessori come l’ormai conosciutissimo 1984 di George Orwell.

Quando ci si imbatte in questo tipo di opere si rimane sempre un po’ spiazzati. Quello che scatta solitamente nella mente dell’osservatore è un meccanismo di associazione della dimensione distopica con quella fantascientifica e questo accostamento finisce col determinare una naturale distanza tra l’Opera e sé stessi che abbassa automaticamente il trasporto emotivo: “tanto non potrà mai succedere”, pensiamo, e così ci posizioniamo in una rassicurante confort zone da cui tutto ci appare come nient’altro che una strampalata allucinazione dell’autore.

Solitamente avviene questo – solitamente, appunto – ma non nel caso di The Lobster, che risulta invece inaspettatamente disturbante e capace di intaccare la sfera emotiva, instillare dubbi, corrodere le strutture delle nostre sicurezze.

E quindi anche se inizialmente lo etichetterete come astruso e bizzarro e tenderete a rilegarlo tra quegli oggetti poco interessanti che non meritano la vostra attenzione – e con esso probabilmente anche questo articolo – sono convinto che vi ritornerà in mente e vi ronzerà nella testa come una fastidiosa zanzara di cui sarà difficile disfarsi.

E questo perché non ci sono asini verdi che volano, zombie che imperversano nella notte o alieni in missione sul pianeta Terra ma uomini e donne, che lavorano, amano, pensano, hanno passioni, legami, paure, desideri e che si muovono all’interno di una società del tutto simile alla nostra. Presi singolarmente, non ci sono quindi elementi estranei o inverosimili, ciò che viene deformato è il senso dello stare insieme in una società che procede secondo direzioni che ci appaiono illogiche ma che il nostro sesto senso, in un certo qual modo, ci prospetta pericolosamente e potenzialmente vicine.

Come dire, la grammatica del vivere quotidiano rimane intatta e in tutto simile alla nostra, ciò che risulta contaminata e corrosa è la semantica: la battuta di caccia – che noi pensiamo come un’azione di uomini armati che vanno per boschi a cacciare animali – nel film acquisisce un significato altro, e cioè andare a caccia dei single ribelli asserragliati nei boschi per prolungare il proprio tempo di permanenza in hotel e avere così maggiori possibilità di trovare l’anima gemella (la cattura di un solitario, infatti, conferisce all’ospite un giorno in più in hotel).

Gli ospiti dell’hotel verso una battuta di caccia ai single ribelli

Ma perché arrivati a un certo punto uno Stato dovrebbe obbligarci a vivere in coppia?

Forse perché da anni le nascite, soprattutto nei Paesi ricchi, sono ormai pericolosamente in calo? Per garantire la sopravvivenza della specie umana? O per ragioni economiche? Si sa che la famiglia è l’unità di consumo standard per eccellenza e che buona parte dei prodotti in commercio sono pensati proprio per le sue esigenze…

Insomma, istillato il dubbio, la mente comincia a lavorare e non si ferma più e questo interrogarsi non fa altro che alimentare la sensazione che questo cattivo (dis) luogo (topia) possa essere in realtà molto più prossimo di quanto ci si possa aspettare. Chi di voi, nel 2019 – nel tempo della scienza e della tecnica – avrebbe mai osato pensare un mondo in ginocchio per un virus? Un simile scenario sarebbe stato sicuramente ricompreso tra quelle visioni distopiche proprie dei film o dei libri e invece sappiamo tutti com’è andata.

Al di là delle ragioni che potrebbero aver portato verso una simile realtà – il regista non le svela mai – il nucleo centrale della provocazione di Lanthimos, e della mia riflessione odierna, sta nella fotografia di una società soffocata dalle regole e imprigionata in una fitta tela di ordine e astrusa razionalità.

Il risultato è un mondo cupo e claustrofobico, fatto di uomini e donne estremamente tristi, che non ridono mai, disincantati e diffidenti, tutti nei confronti di tutti. Consapevoli di non poter dire e fare ciò che realmente pensano e vorrebbero rappresentano il sacrificio che la futura società ha deciso di immolare sull’altare di un nuovo ordine sociale, che tutto vuole progettare, controllare, verificare, persino i sentimenti, persino l’amore.

All’uomo di questo ipotetico futuro non è concessa nemmeno quella parte di felicità barattata a cui faceva riferimento Freud nella sua civiltà in disagio. E questo perché, forse, a furia di barattare felicità con i mille simulacri che la modernizzazione via via ci ha imposto, di quell’iniziale quota di felicità freudiana nulla sarà ormai rimasto.

Ancora vi pongo una domanda: siete sicuri di essere così lontani da uno scenario del genere?

È di qualche anno fa ormai un noto programma televisivo – Matrimonio a prima vista – in cui tre tecnici, una sessuologa, un sociologo e uno psicoterapeuta costruiscono a tavolino delle coppie, dopo aver analizzato i singoli profili dei partecipanti e ricavato dalle loro analisi addirittura, con precisione matematica, la percentuale di affinità e di successo. Le coppie così “artificialmente” create vengono poi fatte sposare senza essersi mai conosciute. Il risultato di questo folle esperimento sociale nascosto dietro al velo di Maya del grande schermo è nella quasi totalità dei casi un completo fallimento ma il tentativo di una decodificazione scientifica dell’amore rimane, è un dato di fatto ed è già in atto da anni.

Ma ritorniamo al film…

Gli istinti, i desideri, le libertà sono ancora possibili ma solo in un’altra vita, quella da animali, a cui saranno destinati i single al termine della propria permanenza in hotel. David – Colin Farrell, il protagonista del film – nel caso non riesca a trovare la sua anima gemella, sceglie una seconda vita da aragosta suscitando lo stupore della direttrice dell’hotel che incuriosita ne chiede le motivazioni. “Perché sotto la sua corazza dura nasconde una deliziosa polpa, può vivere fino a cento anni e ha il sangue blu ed è sempre fertile.” risponde David, lasciando, a dire il vero, l’amaro in bocca per la banalità delle sue affermazioni.

Se fossi stato io il regista avrei fatto rispondere a David:

“Un’aragosta, perché ha il cuore nella testa.”

Sarebbe stato questo l’estremo gesto eroico del protagonista per suggerire che la direzione verso la felicità e un’umanità che sembra ormai persa passa da un uomo in grado di ragionare col cuore.

Perché, piaccia o no, ci sono cose che solo il cuore conosce, segrete e inviolabili, ultime ed eterne colonne d’Ercole al cui cospetto ogni scienza e ogni azzardo umano dovranno riconoscere la propria miseria e inadeguatezza.

Trento Vacca

“I VICERE’” E  “IL GATTOPARDO”: FILIAZIONE?

Lungomare, Bari

Bari ha il fascino diafano della luce in purezza dentro un contesto urbano: come lo sguardo fresco di un adolescente affacciato sulla terrazza verso un orizzonte che, per beffa geografica, è tutto spostato ad oriente. Bari è rivolta al mare, alla prospettiva sconfinata e rovesciata dell’idea sognante. La città è come un riverbero della Puglia intera, del bilico di questa terra sempre sospesa tra mondi che cerca incessantemente e inconsapevolmente (vanamente?) di conciliare: non solo oriente e occidente, ma anche pragmatismo religioso e spiritualità mistica (Don Tonino e san Pio),  chiusura provinciale e apertura cosmopolita (i tanti piccoli borghi visitati da grandi star internazionali),  attaccamento alla tradizione e tentazione di un pensiero nuovo, “meridiano”, come lo concepì ormai quasi trent’anni fa il compianto Franco Cassano. Questa essenza sovra-urbana balena agli occhi dei visitatori specie nei punti di confine della città, cesura e al contempo cucitura tra realtà lontane. Ad esempio il lungomare, dove proprio Franco Cassano amava passeggiare, come racconta il sociologo Franco Chiarello nel suo volume “Franco Cassano. A passeggio sui confini” (Ed. Radici Future 2023). O ancora, la piazza della stazione centrale, dove si toccano provando a congiungersi, provincia e capoluogo e si affiancano i quartieri dei due secoli scorsi, il murattiano razionale e quasi asettico davanti ai binari e il metropolitano caotico e impersonale, alle loro spalle. Quella piazza contiene anche due elementi che per me sono soste fisse ed imprescindibili ogni volta che mi trovo in zona: una edicola molto ben fornita e la stele con il busto di Aldo Moro. Già, Aldo Moro, il martire laico della Prima repubblica, il capro espiatorio sacrificato sull’altare della cattiva coscienza democristiana. A ben vedere, anche nel suo caso si tratta di una personalità profondamente “pugliese”, che ha provato a congiungere due visioni politiche apparentemente inconciliabili attraverso il crinale del “compromesso storico”. Ma non è proprio il caso di scriverne, divagherei troppo e tralignerei rispetto alle tematiche del Blog, che si occupa di letteratura.

Per evitare divagazioni, mi viene in soccorso l’altro mio personale punto di riferimento della piazza, l’edicola ben fornita accanto alla stele di Moro. È lì che un giorno, bighellonando tra spalliere girevoli piene di libri in edizioni datate, incrociai “I vicerè”, rilegatura in brossura economica e tascabile (purché le tasche siano quelle di un pastrano gigante) della Newton narrativa. -Che faccio, comincio a leggerlo senza aver ancora letto “Il gattopardo”?  – mi chiesi. Ora, ripensando a quella domanda, comprendo di aver compiuto inconsapevolmente la scelta giusta, non solo sul piano cronologico. Infatti, aver fatto precedere la lettura de “I vicerè” a quella del “Il gattopardo” mi ha indotto a chiedermi se non vi fosse un rapporto di filiazione tra i due romanzi, così da soppesarli e apprezzarli ancor meglio. Quel giorno (e non solo quello), non seppi dominare la mia curiosità e mi dissi che sì, “Il gattopardo” sarebbe venuto dopo, bisognava prima cimentarsi nella lettura delle 509 pagine del “romanzo terribile”, così definito nell’introduzione di Sergio Campailla.

I viceré” è la saga della nobile famiglia Uzeda di Francalanza, a cavallo di due epoche, la borbonica e la sabauda, lungo quella soglia critica e decisiva della storia risorgimentale che fu l’annessione delle due Sicilie al Regno d’Italia. Vicenda dalle controverse riletture storiografiche fin dagli anni immediatamente successivi ai fatti, quantomeno negli ambienti dell’élite culturale isolana. Periodo di inevitabile transizione, quello post-risorgimentale. I siciliani d’altronde, (in questo affatto diversi da noi pugliesi), mal tollerano l’atmosfera doganale e sospesa di una soglia, di un confine, di un passaggio di stato e di Stati, situazione poco adatta al loro fortissimo senso antropologico di centralità strategica. Tant’è che il romanzo di De Roberto è ricco di un pathos profondo ed inquietante. Tra i numerosi personaggi che lo affollano e le cui storie s’intrecciano, serpeggia una incoerenza di comportamenti dettati da moventi confliggenti, una contraddittoria   nevrosi degli opposti desideri che sfocia in sfoghi verbali, tensioni continue, intemerate improvvise e stravaganti condotte, fino a giungere in qualcuno di loro alla follia, criminale o meno. Quella di De Roberto è una narrazione smisurata, sempre o quasi sopra le righe, sospinta da una sorta di febbrile creatività. Il romanzo è concepito come parte centrale di una trilogia, il ciclo della nobile famiglia Uzeda, nelle cui vene scorre sangue regale spagnolo. De Roberto concepisce e poi costruisce una saga familiare leggibile in molti modi, -vero; ma soprattutto rivelatrice del suo rapporto ambiguo di attrazione-repulsione nei confronti della nobiltà a lui coeva, da lui lambita senza mai sentirvisi integrato. L’autore fa emergere senza filtri la particolare forma di attaccamento al potere di quell’aristocrazia ora scomparsa ma all’epoca viva e vitale. È un potere fatto di latifondi messi a rendita con una mezzadria che sa ancora di vassallaggio medievale. È un potere prevaricante, che usa con disinvoltura i titoli nobiliari come prova di presunta superiorità ontologica e li sbatte in faccia a chi non li possiede affatto o ne ha di minore vaglia per metterlo in soggezione, salvo poi appropriarsi rapacemente dei suoi agi finanziari brigando per un matrimonio conveniente, come quello apparecchiato per Chiara Uzeda, figlia della capostipite Teresa e spinta dalla madre tra le braccia del “marchese” Federico Riolo di Villardita. È un potere che emargina chi non è pronto a sentirne il fascino e l’ebrezza, foss’anche un rampollo di famiglia, come Ferdinando, uno dei quattro figli maschi di Teresa Uzeda “taciturno, timido e mezzo selvaggio per la mala grazia con cui l’aveva trattato la madre” che dopo la lettura del “Robinson Crusoe” donatogli da Don Cono Canalà, “restò sbalordito come da una rivelazione.  Da quel momento la sua selvatichezza s’accrebbe; il suo unico desiderio fu quello di naufragare in un’isola deserta e di provveder da sé al suo sostentamento”. Di fatto, l’isola vagheggiata per il naufragio esistenziale di Ferdinando altro non sarà se non un fondo proprietà di famiglia, dalla terra infima ed improduttiva, chiamato “Le ghiande” perché ricco di querce dei cui frutti son ghiotti i maiali e ciononostante non donato ma affittato al figlio con obbligo di regolare rendita annuale da versare alla madre, impegno impossibile da onorare date le pessime condizioni del terreno e la stravaganza di Ferdinando.

La smania di potere degli Uzeda sa però cambiar pelle e si declina nelle nuove forme imposte dall’unificazione sabauda, pur di resistere alle insidie del tempo e alle sfide della modernità. Ne è un chiaro esempio la figura di Consalvo. Figlio di Giacomo ed unico nipote maschio di Donna Teresa Risà, è il solo esponente di terza generazione della famiglia che possa vantare un albero genealogico in diretta connessione con gli avi spagnoli. Frequenta da ragazzo il monastero di famiglia ma la sua tempra è violenta ed inquieta, ha un’adolescenza turbolenta, ferisce a morte un compagno di bagordi in una rissa, scappa riparando in Piemonte e qui avviene la sua falsa palingenesi moderna e liberale, seguendo le orme dello zio Gaspare, deputato. Torna in Sicilia e diviene egli stesso prima sindaco e poi parlamentare. E nell’epilogo del romanzo, de Roberto ne tratteggia la hybris in poche battute: “Tacque un poco, chiudendo gli occhi: si vedeva già al banco dei ministri, a Montecitorio; poi riprese: – Questo direbbe il Mugnos, redivivo; questo diranno i futuri storici della nostra casa. Gli antichi Uzeda erano commendatori di San Giacomo, ora hanno la commenda della Corona d’Italia – ”.

Dal film: “Il Gattopardo” di Luchino Visconti, 1963

La figura di Consalvo non può non essere accostata a quella di Tancredi Falconeri descritta ne “Il gattopardo” di Tomasi di Lampedusa.  “Homo novus” che annusa il cambiamento nell’aria stantia del vicereame borbonico, Tancredi si fa prima garibaldino, poi sabaudo e grazie alla benevolenza e al sacrificio dello zio Fabrizio, si riscatta dal recente declino nobiliare. Ma lo fa con l’eleganza e la levità di un raro felino (il gattopardo, appunto) e non con la ferocia belluina di uno come Consalvo Uzeda. A ben vedere, però, “Il gattopardo” non è tanto il raccolto di una trasformazione camaleontica come quella di Tancredi, quanto quello di un malinconico declino, quello di suo zio, o “zione”, come amava chiamarlo ironicamente il nipote. È irresistibile il fascino del protagonista, che oggi definiremmo “perdente di successo”, che risponde al nome del Principe Fabrizio di Salina. Figura-chiave dell’intero intreccio, assume tratti semi-divini: “non che fosse grasso, era solo immenso e fortissimo”. La sua bellezza tutta apollinea ed olimpica ed il suo temperamento generoso, franco e non immune da esplosioni d’ira ne fanno una metafora idealizzata a posteriori, della aristocrazia siciliana tardo-ottocentesca di cui l’autore stesso era un rampollo. La forza ed insieme la debolezza de “Il gattopardo”, in fondo sta tutta in questa polarizzazione: da un lato la figura mitologica di Fabrizio Salina, talmente astratta ed iperuranica da essere stata insignita di un riconoscimento dall’accademia di Francia per i suoi studi astronomici; dall’altra, la nobiltà “riciclata” del nipote Tancredi che sposa Angelica, figlia del notabile Don Calogero Sedara. Uomo ricco e potente, Sedara ha cavalcato l’onda delle giube rosse garibaldine, preparando il terreno per la formidabile e repentina presa della Sicilia ad opera dei mille. Tomasi di Lampedusa lo ritrae impegnato da podestà ad orchestrare il rito farlocco del plebiscito e a procurarsi titoli nobiliari che lo rendano degno dei casati Salina e Falconeri. Ma a far gola al futuro genero Tancredi sono piuttosto le migliaia di onze e le numerose terre e proprietà che don Calogero è capace di fornire come dote di sua figlia, la splendida e furba Angelica. Fabrizio Salina comprende che l’unica maniera per garantire all’amato nipote (orfano di padre scialacquatore), un futuro se non glorioso quantomeno roseo, consiste nello spingere Angelica tra le sue braccia. Quindi sacrifica l’immagine di lealtà borbonica che s’era fatto di sé e si convince “obtorto collo” a seguire la corrente, assecondando i nuovi dominanti sabaudi e legando suo nipote ad uno dei maggiorenti del rinnovato sistema di potere. Fabrizio Salina è il personaggio più riuscito dell’intero romanzo ed è talmente ben tratteggiato che, immaginandolo, si ha quasi l’impressione che il connubio aristocrazia-nobiltà possa davvero esistere da qualche parte nel mondo reale, e non solo delle pagine di un romanzo così sapientemente cesellato ed aulico come “Il gattopardo”.

All’opposto, la descrizione dell’aristocrazia ne “I vicerè” sembra il dipanarsi di un bestiario, e la belva più spaventosa di tutte è Don Blasco. Figura talmente eccessiva da risultare grottesca, sorta di Saturno in saio che divora i suoi figli, volendolo accostare al famoso dipinto di Goya. Cognato di donna Teresa Risà, la odia ferocemente poiché alla morte del di lei marito e suo fratello Consalvo VII, nelle mani della vedova Uzeda s’è concentrata tutta la ricchezza della famiglia vicereale, che la donna ha saputo risollevare dalla cattiva gestione del consorte defunto. Ma questo a Don Blasco non importa e non importa per il semplice fatto che quella ricchezza non è più anche sua e pertanto non può esercitarvi l’influenza del suo impetuoso e prepotente carattere. Dirottato fin da giovane, in quanto nobile cadetto, nel monastero dei benedettini dove i monaci facevano “l’arte di Michelasso: mangiare, bere e andare a spasso”, più che al richiamo della fede è incline a quello della carne, sia essa di origine animale o venusiana, da gustare nei lauti banchetti del refettorio monastico o tra le lenzuola di qualche casupola dei borghi vicini, dove il nostro intrattiene rapporti di indole più biblica che evangelica, con prostitute o donne più o meno indigenti, come “la sigaraia”, da cui si vocifera gli sia nato un figlio illegittimo. Alla morte di donna Teresa e all’apertura dei sigilli testamentari, diviene irrefrenabile, torrenziale: sobilla tutti gli eredi a suo dire defraudati, contro il primogenito Giacomo e il prediletto Raimondo, principali beneficiari delle fortune di famiglia. Anche in politica don Blasco non conosce le mezze misure. Alla vigilia dello sbarco in Sicilia, è un borbonico più realista del re e a proposito dei moti del ’48 ringhia: “Ma la colpa più grande credete forse che sia dei sanculotti o di quel ladro di Cavour?”. Poi però, con la nascita del Regno d’Italia, vira repentinamente al liberalismo, non prima di essersi arricchito attraverso la compravendita all’asta dei beni ecclesiastici dopo la soppressione dell’ordine dei benedettini. Un cambiamento solo all’apparenza camaleontico, visto che l’abito monacale è una pura parvenza. Don Blasco resta l’invenzione più ispirata del genio narrativo di De Roberto. La sua parabola (come e più del nipote Consalvo) incarna in modo pratico e volgare quel principio trasformistico che “Il gattopardo” ambientato nello stesso periodo storico ma scritto sessant’anni dopo, fissa nel proverbiale motto “cambiar tutto perché nulla cambi”.  Anche nel caso di don Blasco, è possibile individuare un personaggio in apparenza analogo ma assai più marginale, nella economia narrativa de “Il Gattopardo”, quel padre Pirrone, confessore di Don Fabrizio Salina, decisamente anodino rispetto al vulcanico benedettino, sorta di alter ego conformista di quest’ultimo. Padre Pirrone si accosta al potere per proteggersi ed adoperarlo alla maniera dei gesuiti, cioè in tutte le maniere possibili (Todo modo, direbbe Sciascia) più che bramarlo e seguirne la strada senza scrupoli come fa Don Blasco. Ma il risultato è analogo: sgradevole il primo, disgustoso il secondo.

Ma allora cos’hanno di nobile questi personaggi lontani e stranamente aristocratici, specie quelli de “I vicerè”, così visceralmente attaccati alla “roba”? Stando al dipanarsi dell’intreccio di De Roberto, narrato con stile non più tardo-romantico, non certo verista e non ancora contemporaneo, ma personale, quasi risentito, e con l’irriverenza del cronachista di costume che mette in luce la sostanziale amoralità dei loro comportamenti, di nobile agli Uzeda è rimasto solo il sangue, la schiatta. Ma, come spesso accadeva nell’aristocrazia dell’epoca, la genia loro s’era andata deteriorando in seguito ai frequenti matrimoni tra consanguinei. A simboleggiare questa sorta di disfacimento biologico, la sterilità di Chiara Uzeda, che dopo tante gravidanze isteriche, partorisce un feto morto “pezzo anatomico, il prodotto più fresco della razza dei Vicerè”.  L’atmosfera narrativa da vibratile si fa macabra, simile a racconto dell’orrore alla Poe; l’ironia lascia il posto al sarcasmo. Quello stesso sangue nobile è lo stigma della deficienza, la spiegazione dell’abominio. Qui il gioco di rimandi con il Gattopardo è ancora possibile e ruota intorno ad un passo del romanzo di Tomasi di Lampedusa che allude all’impoverimento genetico dell’aristocrazia, con tono elegante e distaccato, da analisi storico-sociologica, attraverso una notazione intorno all’eccessiva frequenza di matrimoni tra consanguinei propria di quell’epoca,  dettata da  “pigrizia sessuale e … calcoli terrieri”,  così che i salotti buoni avevano finito per riempirsi di “una turba di ragazzine incredibilmente basse, inverosimilmente olivastre, insopportabilmente ciangottanti”. Tutto questo senza lontanamente indulgere in macabre descrizioni di feti nati morti.

Sono dunque così tanti i punti di contatto tra le due opere da rendere davvero plausibile l’ipotesi secondo cui “Il gattopardo” rappresenti una sorta di riscrittura postuma de “I vicerè”: edulcorata, distaccata a depurata dagli eccessi del “romanzo terribile”. In definitiva, con i tanti parallelismi ravvisati nei due romanzi tutto sembra orientato a confermarne il rapporto di filiazione. E si finirebbe per prediligere la maggiore originalità del primo rispetto secondo e successivo, magari enfatizzando la narrazione iperrealista de “I vicerè” rispetto alla elegante e malinconica elegia decadente di Tomasi di Lampedusa. Sarebbe la forza contro la debolezza, la passione contro la nostalgia, la denuncia senza sconti contro la ricostruzione oleografica. Sarebbe il riscatto di un romanzo ingiustamente negletto rispetto al successo editoriale dell’opera venuta dopo e, in qualche misura, debitrice alla prima. Se pensassi questo sarei in buona compagnia, visto che Asor Rosa preferiva “I vicerè”. Ma devo fare i conti con me stesso: ho un debole per Giorgio Bassani. (come non impazzire per l’ultima frase de “Il giardino dei Finzi Contini” e per l’attacco de “Gli occhiali d’oro”?); ebbene, se non fosse stato per Bassani, “Il gattopardo” sarebbe rimasto un dattiloscritto perduto in chissà quale consolle di pregio di una dimora siciliana nobiliare e mai avremmo scoperto ed apprezzato l’ideale di nobile decaduto incarnato da Don Fabrizio principe di Salina. Più che un personaggio, sembra una sorta di concetto, di idea platonica; il suo miglior lascito è una sorta di testamento spirituale, il dialogo con Chevalley. Segretario prefettizio giunto direttamente dal Monferrato, il cavaliere Aimone Chevalley di Monterzuolo ha il compito di convincere don Fabrizio a diventare senatore nel futuro regno d’Italia. Il nostro Salina ringrazia ma declina fermamente l’offerta. E lo fa magistralmente, adducendo argomentazioni che delineano il profilo antropologico di una certa “sicilianità”: “Il sonno, caro Chevalley, il sonno è ciò che i Siciliani vogliono, ed essi odieranno sempre chi li vorrà svegliare”. Denunciando l’incapacità di sviluppare una civiltà propria, Don Fabrizio mette in luce che “sono venticinque secoli almeno che portiamo sulle spalle il peso di magnifiche civiltà eterogenee, tutte venute fuori già complete  perfezionate, nessuna germogliata a noi stessi […] Tutte le manifestazioni siciliane sono manifestazioni oniriche, anche le più violente: la nostra sensualità è desiderio di oblio, le schioppettate e coltellate nostre, desiderio di morte, desiderio di immobilità voluttuosa, cioè ancora di morte, la nostra pigrizia, in nostri sorbetti di scorsonera e cannella”. Nel monologo di Don Fabrizio, di rado interrotto da qualche impacciato interludio di un Chevalley sempre più in soggezione, è custodita una verità profonda, il punto di vista di un autore sul suo popolo, sulla sua gente. Ed in questo sta il valore aggiunto, la zampata felina del gattopardo rispetto a “I Vicerè”. Quando la scrittura è così bella e generosa da offrirti questi doni, non puoi che esser grato a vita all’autore dello scritto.

Mentre penso a queste cose, ritorno con la mente ai luoghi dove tutto è cominciato, alle mie passeggiate sul lungomare di Bari e alle soste all’edicola di piazza Moro. Penso all’aria schiva di quel gigante della politica, allo sguardo limpido e lungo, lunghissimo, di Franco Cassano e temo (sì, temo) che nessun autore nostrano sia ancora riuscito a cogliere l’essenza peculiare di noi pugliesi, a differenza di quanto hanno dimostrato di saper fare di loro stessi gli scrittori siciliani. Sarà forse perché la nostra è un’essenza sottile, inconsistente, un’essenza di confine, limpida ma diafana come la luce di Bari e della Puglia tutta? O sarà perché noi pugliesi, così sottili, così inconsistenti, non siamo ancora riusciti fino in fondo a raccontarci? O sarà per entrambi i motivi, accostati (ancora una volta) come i lembi di un margine?

Gianpiero Berardi

Tempo vs Luogo

Luogo e tempo sono due coordinate irriducibili dell’esistenza, della cultura e quindi di ogni forma d’arte.

Ma perché rischiare una riflessione su tali variabili costituenti dell’agire umano su cui poeti, scrittori e artisti di ogni tempo hanno elevato imponenti cattedrali di pensiero?

Fondamentalmente per due motivi.

Il primo perché il tempo, questo nostro tempo, sempre più asintotico verso il futuro (passato e presente sembrano non avere più peso), tempo del metaverso, dell’intelligenza artificiale e delle città intelligenti, sta mettendo sempre più in discussione il concetto di luogo e quindi di spazio. È oltremodo evidente una spasmodica tensione collettiva sulla questione temporale a detrimento di quella spaziale a cui si finisce per attribuire il più delle volte un significato arcaico, statico, anacronistico, superato.

Il secondo motivo è conseguenza del primo. La virtualità a cui sembrano destinate ineluttabilmente le nostre vite non sopporta la fisicità dei luoghi, costruiti con la concretezza di rapporti umani e relazioni reali.

E così questo nostro tempo che parla solo di futuro pensa di poter fare tutto da solo e di sconvolgere la meccanica dell’esistenza, costruisce i nuovi spazi a propria immagine e somiglianza, nella quarta dimensione, accattivanti e inconsistenti, effimeri e illusori come la sua natura. E arriva fino a trasfigurare i luoghi esistenti riducendoli a meri spazi di flussi, ambienti senz’anima in cui passano vite asincrone – si passa solo col corpo mentre col telefonino attaccato agli occhi si sta chattando con qualcuno. Siamo sempre costantemente altrove rispetto al nostro corpo!   

Così l’imprinting contemporaneo del non luogo che ha corroso le nostre città – inizialmente concentrato su aeroporti, stazioni, centri commerciali – si espande a macchia d’olio contaminando ogni spazio e privandolo gradualmente delle sue componenti fondamentali: relazioni, identità, storia, memoria.

Si badi bene, il senso dell’incipit di quest’articolo non attiene alla questione verghiana della “fiumana del progresso” – chi scrive è anche un ingegnere e sa cosa è scienza e cosa è progresso – ciò di cui voglio parlare è molto più profondo. Si tratta di un vero e proprio salto antropologico verso un’esistenza antifisica e antimaterica ormai alle porte, di un cupo avvento di una nuova socialità costruita nella solitudine.

Ma sarà la caduta di Satana e dei suoi cicisbei! Il tempo dovrà ritornare al suo rango e riconoscere al luogo quanto gli appartiene.

Eh sì perché noi siamo le nostre cose, i luoghi della nostra vita, la nostra casa, siamo i profumi che abbiamo sentito e le strade che abbiamo camminato, i libri che abbiamo letto, il cibo che abbiamo mangiamo e le mani che abbiamo stretto. Perché noi siamo corpo, corpo e anima, materia che esperisce e sublima nella mente ma il flusso ascende, dal basso verso l’alto, viene dal corpo, è dalla fisica che si arriva al soffio della vita. Ma è sia il corpo che la mente ad aver bisogno di spazio e di luogo, anzi lo esigono. È questa la meccanica dell’esistenza che non si può sconvolgere. È questa l’àncora che terrà al sicuro la barca nel suo porto durante la tempesta.

E allora voglio dedicare questa riflessione proprio al luogo, sempre indagando nell’arte e nelle narrazioni che hanno saputo cogliere la sua essenza, la sua natura pedagogica, la grammatica e la semantica dei suoi elementi che sono in grado di segnare e plasmare l’uomo, anche se in questo rapporto osmotico sarà sempre lecito chiedersi: sono le persone che fanno i luoghi o sono i luoghi che fanno le persone?

Pensate a un lago, su cui sono sparse piccole case colorate, una sorta di insolita pensione galleggiante. La sua custode Hee-jin è l’unica a poterle raggiungere grazie a una barca. È lei che rifornisce gli ospiti di tutto il necessario. Nella pensione passa un’intera umanità, dal semplice pescatore all’assassino in fuga che è andato lì per togliersi la vita e con cui Hee-jin vivrà un rapporto di amore e dolore.

Ma concentriamoci sul luogo: è questa “L’isola” narrata nel film del regista sudcoreano Kim Ki-Duk.

(fotografia del film Seom, L’Isola, del regista Kim Ki-Duk)

“La pensione galleggiante è un luogo liminare, ai confini della civiltà urbanizzata… e le sue casette sono postazioni di un’atomizzazione di una società strappata alla sua fermezza e alle sue leggi”

(Enrico Ghezzi in eccentriche visioni)

Le reti e le connessioni tecnologiche che costituiscono la nuova morfologia sociale delle nostre società vengono qui distrutte cosicché ogni nodo, ogni legame viene tranciato (ogni ospite è confinato nella sua casetta e dipende da Hee-jin).

È in questo equilibrio precario – l’acqua muove continuamente le casette ricombinando l’ordine secondo nuove prospettive reciproche – che emerge l’unica comunicazione possibile, quella dell’osservazione dell’altro, in quella che Enrico Ghezzi chiama una sorta di ipnosi reciproca che mette al centro, di nuovo, l’elemento umano e l’essenzialità della condivisione.

L’isola da luogo di isolamento diviene quindi unico luogo possibile in cui le solitudini si comunicano.

Nel 1996 è un altro luogo, la Mongolia, a trasformare la vita di un uomo, un musicista, uno scrittore: Giovanni Lindo Ferretti.

Dal punk rock dei CCCP e poi dei CSI che lo porta all’apice del successo approda a una dimensione spirituale inattesa che lo porterà al ritiro dalle scene musicali e a una vita semplice nel borgo di Cerreto Alpi, paese della sua infanzia.

È la Mongolia più ancestrale, con le sue prospettive sconfinate in cui si disperdono le tipiche tende rotonde in feltro – gher – dei suoi abitanti (circa un milione, un terzo della popolazione totale mongola, vive ancora di nomadismo) il suo silenzio, la sua durezza a fare da condensatore di movimenti interni, intimisti, della memoria, a innescare un cambiamento, tabula rasa da cui ripartire (il viaggio ha infatti generato l’album Tabula Rasa Elettrificata dei CSI).

In Mongolia è come se avessi rivissuto la mia infanzia: la natura incontaminata mi ricordava i ritmi lenti e naturali di Cerreto Alpi, una sorta di tardo Medioevo in cui i valori erano scanditi dalla famiglia, dalla comunità, dagli animali… È stata un’esperienza molto forte: mi sono sentito come una creatura, immerso in un’appena avvenuta creazione, al cospetto di un creatore di cui mi ero dimenticato”.

dirà Ferretti.

È così esatta la percezione della forza degli opposti, in Mongolia, così definitiva, da causare spiazzamento in noi che abitiamo il mondo delle mediazioni.

Luce che è soltanto luce,

tenebra che è profondamente tenebra,

e non c’è niente che la possa scalfire.

Il Sole; o la Luna. Con le medesime ragioni…

La mancanza delle sovrastrutture lascia sgombra una terra che non è abituata ai sinonimi,

ai bizantinismi,

dove ogni parola, ogni uomo o animale, vale e pretende per il suo carattere unico e non sostituibile.”

Dal libro “In Mongolia in retromarcia” scritto da Massimo Zamboni, amico chitarrista e compagno di viaggio di Giovanni Lindo Ferretti.

Trento Vacca

PASOLINI EDUCATORE

2 – LO SCRITTORE

Avevamo lasciato Pier Paolo alla scuola media Francesco Petrarca di Ciampino (tra gli alunni, Vincenzo Cerami), nel 1953: in quell’anno rassegnò le dimissioni, né più avrebbe insegnato.

Aveva trovato lavoro nel cinema: la sceneggiatura, in collaborazione con Bassani, di un film per Mario Soldati. Ma soprattutto aveva conosciuto Livio Garzanti, cui Bertolucci aveva fatto leggere un capitolo di Ragazzi di vita apparso in rivista.

Garzanti aveva voluto conoscere l’autore e gli aveva chiesto quanto guadagnasse: «27.000 lire al mese», fu la risposta, il suo stipendio di professore. «Posso offrirgliene anche il doppio – disse Garzanti – perché lei finisca il romanzo che ha cominciato a scrivere».

Aveva chiuso con l’insegnamento Pasolini, ma il pedagogo dentro di lui, dentro non sarebbe rimasto.

Furono anni di intenso lavoro: per limitarci alla produzione narrativa e poetica, i romanzi Ragazzi di vita (1955) e Una vita violenta (1959), e i poemetti Le ceneri di Gramsci (1957) e La religione del mio tempo (1961).

Di brevi cenni sull’universo parla Gramsci, che non li amava e ne metteva in guardia il lettore. Accoltone il monito, concentriamo l’attenzione su un’opera sola.

La scuola, istituzione educativa per eccellenza, compare fin dalle prime pagine di Una vita violenta: ma al protagonista Tommaso Puzzilli, ragazzo di borgata, «quello che gli interessava era filare il maestro».

Fallito il tentativo di approccio, le giornate trascorrono fra partite di calcio e divergenti itinerari: ora s’incammina verso la scuola, ora procede in direzione «della sala del Partito Comunista, dove la domenica ballavano».

Si va così delineando la mappa delle istituzioni – scuola, sezione di partito, più avanti la parrocchia – che formano la costellazione pedagogica dell’immaginario pasoliniano.

Anche la militanza politica si affaccerà nel percorso educativo di Tommaso. Il quale dapprima frequenta giovani missini; passa poi alla lotta di classe; pare infine approdare a un confuso anarchismo dai contorni qualunquisti: «Chi glielo faceva fare d’essere destro, sinistro, questo e quello: era libero cittadino, anarchico della morte, e basta».

Prima delle ulteriori svolte politiche – di là da venire nella narrazione –, il protagonista si barcamena fra uomini e donne da marciapiede, furti e notti brave. Non costretto adesso da alcuno schema del vivere sociale, egli non accetta altra educazione se non quella che gli viene consegnata dal rapporto diretto con l’esistenza, fuori da ogni mediazione istituzionale.

Ma la “vita violenta” è a una svolta: un giorno accoltella il capo di una banda di balordi, viene condannato a due anni. E così anche il carcere – la cui funzione, almeno sulla carta, è rieducativa – entra a pieno titolo nella mappa delle istituzioni pedagogiche.

Tornato in libertà, Tommaso va ad abitare nell’appartamento che l’Ina Case ha assegnato al padre, permettendogli di lasciare la baracca sulla scarpata dell’Aniene dove, fino allora, avevano vissuto.

Nel nuovo quartiere erano state alloggiate famiglie piccolo borghesi e  «quelli che avevano abitato nei tuguri e nelle casette, a cui il comune di tanto in tanto assegnava qualche casa, e che era tutta gente morta di fame o della mala».

Tommaso, che mira a identificarsi con la prima tipologia sociale, intraprende il cammino della rispettabilità, del decoro, dell’integrazione. Si presenta in chiesa e domanda al prete quali siano le formalità per sposare la fidanzata Irene, al contempo preannunciandogli l’iscrizione alle strutture ricreative della chiesa stessa; a Irene parla di fidanzamento ufficiale e di matrimonio e, riflettendo con lei sul tenore di vita della piccola borghesia dell’Ina Case, l’attribuisce al loro essere democristiani. Medita così di divenirlo anch’egli (entrambi, anzi).

Ma la libido pedagogica di Pasolini – l’espressione è di Enzo Golino – non è ancor paga.

Tommaso si sottopone alla visita di leva, gli viene diagnosticata una forma di tubercolosi e prescritto il ricovero in ospedale (altra istituzione pedagogica che va ad affiancarsi a quelle finora incontrate; del resto l’alternativa, in caso di buona salute, sarebbe stata la caserma, struttura formativa per eccellenza anch’essa).

In ospedale avviene l’ultima svolta politica, la presa di coscienza definitiva: si schiera con gli infermieri in sciopero rifiutando come sostituti i militari e, una volta dimesso, si iscrive al Pci.

Va così delineandosi il modello evolutivo pensato per lui da Pasolini, modello che ne farà un eroe positivo, il sigillo pedagogico di una “vita violenta”.

L’Aniene straripa, inonda la campagna circostante: chi vive nelle baracche, dove un tempo anche lui aveva abitato, rischia di affogare. Tommaso cerca invano di mobilitare gli amici; poi fa strada – a piedi, sotto il diluvio – a un mezzo dei pompieri che non riusciva a raggiungere il luogo; salva una donna; sistema gli alluvionati nella sede del partito. Il culmine di tutto ciò non poteva che essere il sacrificio, il martirio, affrontati in nome della classe cui Tommaso appartiene: e difatti morirà stroncato dalla tubercolosi, riacutizzatasi e aggravatasi dopo la notte dell’alluvione.

Osserva Moravia che il percorso di Tommaso Puzzilli – così a lungo oscillante tra istanze e opzioni di segno opposto – sfocia in un comunismo non marxista, «ma populista e romantico […] fondamentalmente sentimentale, nel senso di esistenziale, creaturale, irrazionale».

Vero. Ma si può serenamente aggiungere – o premettere – che Una vita violenta pecca di sovrabbondanza didascalica e, soluzioni linguistiche a parte, non sembra un’opera perfettamente riuscita.

Il miglior Pasolini, del resto, è nella sua poesia. Restituiamo la parola a Moravia, che durante l’orazione funebre così si espresse:

«Abbiamo perso prima di tutto un poeta. E poeti non ce ne sono tanti nel mondo, ne nascono tre o quattro soltanto in un secolo. Quando sarà finito questo secolo, Pasolini sarà tra i pochissimi che conteranno come poeta.»

Ma la trascrizione non rende il pathos di quelle parole, la partecipazione emotiva di chi le pronunciò e di chi le ascoltò, quasi cinquant’anni fa.

Ascoltiamole o riascoltiamole allora anche noi, ormai posteri.

Alfredo Dell’Era

Alberto Moravia, nel giorno delle esequie di Pier Paolo Pasolini

PASOLINI EDUCATORE

1 – L’INSEGNANTE

Scoprii Pasolini al liceo, negli anni della collaborazione al «Corriere della Sera» (1973-75), ed ebbi modo di leggere – per così dire in presa diretta – articoli come La scomparsa delle lucciole e Cos’è questo golpe? Io so. Se etimologicamente insegnare sta per “lasciare un segno”, posso dire allora di aver avuto Pasolini tra i miei insegnanti.

Affermazione, questa, che credo non gli sarebbe spiaciuta, data la forte impronta educativa che ne contrassegnò l’intera esistenza: direttamente (fu professore per una decina d’anni) e come scrittore (valga, scrittore, quale sineddoche della sua sfrenatamente multipla attività intellettuale e artistica).

Che Pasolini sia stato insegnante è aspetto poco noto; e tuttavia fondante, ché in lui, scrive Enzo Siciliano, «era fortissima la tensione idealistica del maestro, modulo sublimato d’una pulsione omoerotica».

Si forma quale educatore a Versuta dove, nel 1944, era sfollato con la madre dalla vicina Casarsa (aveva dunque ventidue anni): ai ragazzi che non potevano raggiungere Udine o Pordenone a causa dei bombardamenti, offriva la possibilità di non interrompere gli studi.

Poi la scuola media statale di Valvasone, in cui proseguono gli esperimenti di pedagogia attiva e di commistione tra scuola e vita. Commistione che gli faceva eccedere l’orario scolastico: Pasolini allenava la squadra di calcio; disegnava cartelloni; inventava favole come quella del mostro triforme Userum, che permetteva di imparare le desinenze della seconda declinazione: us, er, um.

E coltivava il giardino della scuola, come ricorda Andrea Zanzotto:

Attivizzare persino l’intirizzita grammatichetta latina, far diventare rose vere il rosa-rosae, così ingenuo, di quelle grammatiche. Pasolini faceva il giardinetto nel cortile della scuola e insegnava i nomi latini delle piante […] Era quella che si diceva una vocazione pedagogica, che si faceva forte dell’inquieta genialità del giovane professore […] Segnalando ai colleghi – ricorda ancora Zanzotto – gli esperimenti di Pasolini, il preside […] lo definiva «maestro mirabile», e così sempre lo definiva ricordandolo in seguito.

Ma l’epilogo era alle porte. A seguito dei fatti di Ramuscello (Pasolini si apparta con tre ragazzi e «si crea un accordo, un’intesa», scrive Enzo Siciliano), viene sospeso dall’insegnamento. «Nell’inverno del ‘49 […] fuggii con mia madre a Roma, come in un romanzo», e queste son parole sue.

Fino al 1953 insegnerà in una scuola media privata a Ciampino, periferia estrema.

Agli alunni Pasolini faceva raccogliere canzoni e filastrocche che i genitori si erano portati sulle labbra dalle terre di origine: un deciso e generoso tentativo di riscattare, di risarcire lo spietato inurbamento cui le vicende belliche avevano costretto quella gente.

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Sgomenta, lo so, quell’1 che segna un titolo già di suo non particolarmente brioso, sgomenta quell’1 che oscilla tra promessa e minaccia.

Ma permette di non abusare della pazienza dei lettori, se mai ce ne fossero. Ai quali s’è cercato di proporre un primo “spicchio” della paideia pasoliniana senza farne un torrone indigeribile, come direbbe qualcuno di mia conoscenza.

Ma se in vece fossimo riusciti ad annoiarvi, credete che non s’è fatto apposta. E questo lo diceva Don Lisander.

Alfredo Dell’Era

Donne SENZA uomini

(tre opere per capire l’Iran)

Immagine tratta da Persepolis”

L’arte arriva prima, c’è poco da fare.

In questi giorni tutto il mondo parla dell’eroica lotta per la libertà portata avanti con fierezza e coraggio dalle donne iraniane ma quello che accade oggi è la pentola che scoppia dopo un aumento costante di pressione. Il fischio per le condizioni limite raggiunte si sentiva da tempo echeggiare anche nei salotti buoni d’occidente attraverso l’arte, il cinema in particolare.

Mi fai il piacere di alzarti, andare in cucina e preparare da mangiare? E se scopro che sei uscita quando torno ti spezzo le gambe”

Dal dialogo tra Munis e il fratello

“Quando una moglie non riesce più a soddisfare suo marito quest’ultimo ha il pieno diritto di prendere un’altra moglie”

Dal dialogo tra Fakhiri e suo marito

Le frasi citate sono tratte dal film “Donne senza uomini” della raffinata regista iraniana Shirin Neshat premiato al festival di Venezia con il Leone d’argento nel 2009 e tratto dall’omonimo romanzo di Shahrnush Parsipur scritto agli inizi degli anni 80 con il titolo originale Zanan-e Bedun-e Mardan.

In una Tehran agitata dai tumulti interni del 1950 quattro donne si muovono alla ricerca della libertà. Ma più che un muoversi è un tentativo disperato di divincolarsi dalle catene imposte da fratelli, mariti, clienti… dagli uomini.

Munis è una ragazza dalla forte coscienza politica, vorrebbe prendere parte alle agitazioni popolari – è in atto infatti un colpo di Stato per ribaltare il governo democratico di Mossadegh -ma il fratello le impone un assoluto isolamento, Faezeh sogna di sposare l’uomo che ama, Fakhiri trova il coraggio di lasciare il marito per ritornare a vivere e a sognare, Zarin è una prostituta usata dagli uomini che sembra subire con rassegnazione – assolutamente folgorante è la scena in cui quest’ultima va in un bagno turco e comincia a strofinarsi il corpo con uno straccio fino a raschiarsi e scorticarsi la pelle nel disperato tentativo di lavare via l’onta dell’ennesimo stupro subìto.

Fakhiri comprerà un giardino in cui si ritroveranno tutte, ognuna attraverso un percorso singolare, come affluenti di un fiume che cercano il mare fino a trovarlo. In questo caso il mare è un giardino, archetipo della cultura persiana, luogo di bellezza e di pace, quella a cui sembrano essere chiamate le quattro donne, senza gli uomini. È questo un luogo onirico e immaginifico, un nuovo Eden in cui più che ritrovare la libertà le donne trovano finalmente riposo, lontano da chi le può nuocere e offendere ripetutamente, una sorta di ritorno al grembo materno.

Ma gli uomini arriveranno anche lì e così i sogni saranno infranti, compreso quello di uno avere uno Stato democratico. Munis si suiciderà gettandosi dal terrazzo. Il suo volo lento, ad occhi aperti, è un preludio amaro all’unica libertà possibile, quella dopo la morte: “… sai che l’unico modo, l’unico modo per liberarsi del dolore è liberarsi del mondo? La morte non è complicata, immaginarla è complicato.”

L’affresco struggente di questo film sulla società iraniana ci consegna una realtà evidentemente dicotomica. Da una parte ci sono le donne – la presenza femminile è sempre salvifica, portatrice di speranza – dall’altra ci sono gli uomini, ottusamente violenti e costantemente proiettati al mantenimento del loro potere sociale.

Nella babele della narrazione occidentale che cerca faticosamente di spiegare cause e conseguenze delle contraddizioni di questo Paese l’azione di apparente semplificazione della regista iraniana alla dicotomia dei sessi risulta invece straordinariamente dirimente. Perché è una riduzione che non perde ma concentra, proprio come fanno le sapienti mani di uno chef in cucina per la preparazione di alcune salse.

Due anni prima, nel 2007, era stata Marjane Satrapi con l’irriverente film di animazione “Persepolis” a svelare al mondo le enormi contraddizioni di Teheran meritando il premio della giuria al festival di Cannes.

Il film autobiografico narra in modo comico e tragico allo stesso tempo – la matrice fumettistica dell’opera si rivela ideale per questo tipo di narrazione – la vita di una bambina e ragazza qualunque nell’Iran della rivoluzione, a cavallo del ventennio tra il 1970 e il 1990, dalla caduta dello Scià di Persia – che aveva secolarizzato il Paese e concesso alle donne di vestirsi come desideravano – alla nascita della Repubblica Islamica.

Con l’avvento dei pasdaran – capostipiti dell’odierna polizia morale – inizia il periodo delle restrizioni delle libertà e quindi anche dell’imposizione dell’hijab, il tradizionale velo islamico. E ai genitori di Marjane non resta altro che mandare la figlia a studiare a Vienna.

Immagine tratta da “Persepolis”

Inizia così una toccante storia di emigrazione forzata di una ragazza che ama la sua Terra, la sua cultura, la sua famiglia, costretta a un doloroso sradicamento utile tuttavia alla costruzione di un futuro migliore, di speranza e di libertà.

Al suo ritorno a Tehran, nonostante l’hijab indossato, viene fermata per strada da una pattuglia di pasdaran mentre va di corsa. Marjane è subito pronta a giustificare il motivo del suo incedere veloce – dice di essere in ritardo per una lezione che inizia fra 5 minuti. Si sentirà replicare dalla polizia

“Si, ma non deve correre così! Vede, quando lei corre, il suo di dietro fa dei movimenti come dire…”

Al che risponderà impavida  

“E voi evitate di guardarmi il culo!”

Dal dialogo tra Marjane e i pasdaran in Persepolis

È oltremodo evidente come simili finestre possano essere aperte sull’Iran da artisti in esilio – Shirin Neshat vive a New York mentre Marjane Satrapi vive a Parigi. Chi l’ha fatto dall’interno è passato inevitabilmente dalla reclusione, è successo in passato a Shahrnush Parsipur con il suo romanzo Donne senza uomini, succede oggi a Jafar Panahi, orso d’oro a Berlino nel 2015 con l’originale e coraggioso film Taxi Tehran.

Le narrazioni di questi artisti possono considerarsi a buon diritto profetiche degli attuali nefasti accadimenti per i quali, fra qualche tempo, si spera non si possa dire

Non resta altro alle famiglie delle vittime… Nomi di strade!”

Dalle parole della madre di Marjane sugli scontri di Tehran in Persepolis

Trento Vacca

Dipendenza e consapevolezza di sé

Il Ratto di Proserpina: gruppo scultoreo realizzato da Gian Lorenzo Bernini, 1621-22

Una ponderata puntualizzazione sulle strategie di consapevolezza e di indipendenza del proprio sé suggerite da Wayne W. Dyer nel suo saggio” Le vostre zone erronee”; riflessione dedicata a tutte le persone oggetto di discriminazione di genere e, in particolare, alle vittime di femminicidio e di bullismo.

Inizio il mio dire con una contaminazione artistica che facilmente associo a questo tema: Il ratto di Proserpina di Gian Lorenzo Bernini, dove la morbidezza del marmo contrasta con una forma di violenza, che è figlia della dipendenza dal senso del possesso dell’altro e dall’impossibilità a divincolarsene.

Proserpina era figlia di Cerere. Fu rapita da Plutone, mentre raccoglieva fiori sulle rive del lago Pergusa a Enna e, con la forza, trascinata sulla sua biga negli Inferi. Lì fu posseduta da Plutone, di cui divenne, senza possibilità di scelta, la sposa. Schiavo della sua bramosia, pur se invitato dal padre Giove a liberarla (in seguito al comportamento della di lei mamma Cerere), Plutone costrinse con uno stratagemma Proserpina a sentirsi “legata” a lui e a diventare regina degli Inferi. In questo mito domina il senso di dipendenza di Plutone dal suo sentirsi onnipotente: basta guardare l’espressione beffarda del suo volto, mentre possiede la giovane donna. Ma ciò che più mi colpisce sono le lacrime sul volto di Proserpina: segno dell’impotenza di chi si vede costretto a dipendere da un prepotente dominatore. Dyer ci aiuta ad analizzare queste modalità di vita e ci offre strumenti per affrontare e superare la dipendenza da un amore morboso, violento, assolutista.

Wayne W. Dyer è sociologo e psicoterapeuta assai noto in America. Con “Le vostre zone erronee” offre un’ottima “Guida all’indipendenza dello spirito”, come dichiara egli stesso nel sottotitolo.

Essere felici è una faccenda assai complessa e complicata. Eppure, questo saggio di Dyer delinea un modo gradevole di raggiungere questo stato di grazia.

Partendo da “zone erronee”, da comportamenti o atteggiamenti che nuocciono al benessere individuale, diventando molto spesso autodistruttivi, Dyer studia il sistema di meccanismi psicologici eretti da ciascuno di noi, per sostenere lo “status quo” e , aiutando a capire perché ci lasciamo intrappolare da atti e costruzioni relazionali che distruggono la nostra felicità, suggerisce alcune strategie utili.

Innanzitutto, l’Autore delinea l’essenziale ed indispensabile punto di partenza: la responsabilità verso se stessi e il desiderio consapevole di essere tutto ciò che si decide di essere, in un dato momento. Tutto questo, considerando che la propria vita va esaminata alla luce delle scelte fatte o non fatte e, ci dice a chiare lettere “Tu sei la somma delle tue scelte”.

“Tutta la teoria dell’universo si rivolge immancabilmente a un unico individuo – ossia a te”

Questo agile manuale è un invito a liberarsi dalle dipendenze a cui ciascuno di noi ha legato la propria vita: -il circolo vizioso dell’” io sono fatto così” – il senso di colpa – il passato – la trappola delle ragioni e dei torti – la trasgressione a tutti i costi… e tante altre forme di dipendenza psicologica che ci vincolano anche fisicamente in gabbie sociali di non- crescita.

C’è un film, che ben rappresenta quanto ho appena espresso: L’attimo fuggente, in cui “uno strepitoso Robin Williams interpreta il professor Keating, insegnante brillante e anticonformista, di grande umanità, che in un collegio severo e ossequiosamente tradizionale cerca di insegnare ai ragazzi a ragionare con la loro testa, a non credere negli stereotipi, e a cogliere l’attimo e la profondità di ogni secondo della loro esistenza, perché la vita è breve e ogni momento va vissuto fino alla fine https://www.youtube.com/watch?v=f7ZvROmGrKE

Dichiarare l’indipendenza, vivere il presente, cogliere l’attimo, sentire e sviluppare l’hic et nunc ci permette di assaporare la fiducia in un tempo e in uno spazio che danno spessore ad una persona padrona del proprio sé.

Mi viene facile contaminare il mio dire con un’altra forma d’arte assai profonda ed affine al pensiero del Dyer: la musica, attraverso la canzone di Baglioni: La vita è adesso https://www.youtube.com/watch?v=c780J3LlulI . In essa il cantautore romano ripetutamente ricorda “SEI TU”, quasi a voler gridare l’importanza dell’autodeterminazione, sottesa ad ogni percorso di vita che insegna a crescere.

“Sei tu che hai un vento nuovo tra le braccia (…)

Ed in qualunque sera ti troverai

Non ti buttare via

E non lasciare andare un giorno Per ritrovar te stesso

Perché la vita è adesso È adesso

È adesso”.

Giusy Carminucci

Sull’incomunicabilità

(un film, un quadro, un libro)

Hopper, Excursion into Philosophy 1959

“Le parole anche se scritte fanno bene…

una donna le aspetta, le aspetta sempre”

Dal dialogo tra Carmen (Ines Sastre) e Silvano (Kim Rossi Stuart)

Nel corto “Cronaca di un amore mai esistito” nel film “Al di là delle nuvole” di Michelangelo Antonioni 

Sembrerebbe un ossimoro parlare di incomunicabilità nell’era della comunicazione eppure ne siamo profondamente pervasi, più di quanto pensiamo.

Proprio come Carmen e Silvano, che si scoprono potenziali amanti ma incapaci di trasformare questo potenziale in realtà (lei parla, lui parla ma nessuno dei due sa ascoltare o rispondere all’altro), siamo anime erranti in un mondo che non ci comprende, incapaci di comunicare e di accogliere comunicazione.

E non è certo aumentando il flusso di informazioni (smartphone, social network, internet, mass media) che la parola altrui riuscirà a fecondarci.

Mediando dalla fisica siamo corpi colpiti da radiazione con un coefficiente di riflessione nettamente maggiore rispetto a quello di assorbimento.

Vorremmo comunicare il nostro trasporto per un film, per un libro, per un gruppo musicale. Vorremmo che il nostro partner ci capisse veramente, fino in fondo. E invece di trovare condivisione troviamo un atteggiamento speculare al nostro. E così ognuno ha il suo libro, il suo brano musicale, rimane custode del proprio mondo, perso in una dimensione hopperiana, solo eppure in mezzo a tanti, ospite estraneo ad una festa. Fulminante è il caso di Justine, sposa capace di sentirsi estranea al suo matrimonio, nel discusso film Melancholia di Lars Von Trier.

Hopper, Excursion into Philosophy 1959

Potrebbe essere considerata la radice dell’eterna insoddisfazione che da sempre muove l’uomo, l’incomunicabilità, di sicuro è causa o concausa del mistero della vita e l’arte, tutta, se n’è accorta da tempo costruendosi proprio sulla consapevolezza di non poter essere significante assoluto, lasciandosi volutamente indefinita fino ad essere, in taluni casi, caleidoscopio imprevedibile anche per l’autore stesso.

Gli esempi sono copiosi e risulterebbero troppo ingombranti per lo spazio di questa riflessione. Mi limito a citare per maggiore vicinanza culturale Van Gogh, Kirchner, Magritte, Hopper nella pittura, Antonioni con la trilogia dell’incomunicabilità (L’avventura, La notte, L’eclissi), tutta la produzione del compianto regista sud coreano Kim ki Duk, Lars von Trier, Steve Mcqueen nel controverso Shame nella cinematografia, Pirandello e Paul Bowles nella letteratura.

Proprio quest’ultimo nel romanzo cult The Sheltering Sky meglio noto in Italia con il titolo Il tè nel deserto cerca di dipanare la matassa dell’incomunicabilità attraverso la storia di una crisi di coppia, quella tra Port e Kit. I due coniugi, ormai estranei, partono verso l’Africa più ostile con la speranza di ritrovarsi. È un tentativo disperato di diluire la loro estraneità in una più grande come quella che può imporre l’Africa più arcaica a due americani a ridosso del secondo dopoguerra.

In realtà chi spera è solo Kit, Port è invece consapevole dell’irreversibilità del problema infatti appena sbarcati afferma

“Noi non siamo turisti, siamo viaggiatori…

Il turista è uno che appena arriva pensa di tornare a casa…

mentre il viaggiatore può non tornare affatto.”

Morirà di febbre tifoidea tra le braccia della moglie.

Tuttavia il ritrovarsi estranei tra gli estranei dà modo ai due di assaporare, sia pure a sprazzi, momenti di rara intensità amorosa ormai perduta. I due, durante una passeggiata in bici in un paesaggio lunare, fanno l’amore in mezzo al nulla con la stessa intensità di due adolescenti. Come a dire che prendendo consapevolezza della propria condizione e operando una sorta di tabula rasa del rapporto, paradossalmente, si ha una nuova opportunità, per ricominciare, per innamorarsi di nuovo. Ma è solo un’illusione

“Non siamo mai riusciti a immergerci nella vita fino in fondo. Ci teniamo aggrappati all’esterno delle cose… come se avessimo paura di cadere.”

Dialogo tra Port e Kit

Ed è proprio questo il nocciolo d’inerzia della questione, rimaniamo capitani di barche in mezzo al mare, ognuno con la propria rotta, inconsapevoli della bellezza che si nasconde nei fondali e quand’anche abbiamo lo slancio di andare a vedere cosa si nasconde tra le acque l’unica cosa che ci è concesso di vedere è il riflesso distorto del nostro volto.

E questo, in fondo, considerata la finitezza delle nostre vite, è un vero peccato o se vogliamo è solo una parte del grande mistero della vita 

“Poiché non sappiamo quando moriremo, si è portati a credere che la vita sia un pozzo inesauribile; però tutto accade solo un certo numero di volte, un numero minimo di volte. Quante volte vi ricorderete di un certo pomeriggio della vostra infanzia, un pomeriggio che è così profondamente parte di voi che senza neanche riuscireste a concepire la vostra vita – forse altre quattro o cinque volte, forse nemmeno. Quante altre volte guarderete levarsi la luna – forse venti – eppure tutto sembra senza limite.”

Paul Bowles nel romanzo The Sheltering Sky

Trento Vacca