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IDA VITALE: CENTO ANNI DI PAROLE PER DIRE SEMPRE IL NUOVO (Note critiche e traduzioni di Yuleisy Cruz LEZCANO)

Cercare e ricercare il non detto, stupire con immagini che diventano concetti, quasi palpabili. È questa la poetica di Ida Vitale: un mito vivente. 

Ida Ofelia Vitale Povigna, squisita intellettuale, insegnante, saggista, traduttrice, poeta e critica letteraria nasce a San Felipe y Santiago de Montevideo (Montevideo), capitale dell’Uruguay, il 2 novembre del 1923. È la più longeva esponente del movimento artistico “Generación del ‘45” di cui fanno parte altri grandi scrittori uruguaiani di origine italiana come Juan Carlos Onetti, Carlos Maggi e Idea Vilariño. Ottiene il prestigioso Premio Cervantes nel 2018 e tanti altri riconoscimenti. 

La poetessa spesso racconta che il suo avvicinamento alla poesia comincia mentre ascolta, affascinata, da piccola, versi insoliti, vaghi, allusivi che non riesce a decifrare. Prima di cogliere il significato, il contenuto, percepisce il gorgogliante indefinito, il mistero che accompagna la parola, ascoltando e leggendo i versi della poesia “Cima” di Gabriela Mistral, Premio Nobel per la letteratura. Questo avvicinamento, questa meraviglia di Ida Vitale nei confronti della sua maestra Mistral, sono ancora vivi. 

Il suo libro Disidencias leves ripercorre, tra incertezze e assenze inevitabili, tutta la sua poetica; la poetessa, nonostante l’esilio nel 1974 per ritornare a Montevideo circa tre decenni dopo, trova dimora nell’inquieta bellezza dei suoi versi.

La voce poetica della Vitale indugia nella natura (nelle piante e negli alberi; nei passeri, negli storni e nei ricci: nel vento, soprattutto nel vento), nella neve e nelle stagioni, negli addii, nelle morti e nei lutti, nelle vicissitudini dell’esperienza umana e nella spinta incessante dell’energia vitale, nella città stagnante e disumanizzante, nel linguaggio e nelle parole. Scrive nell’esistenza della parola.

Dal libro “Oidor andante” (1972): “Decimata, dissanguata, / tagliata in tante parti / come sogni, voglio / però, / questo e non altro modo / di essere viva; / questo e nessun altro modo di morire; / questo sussulto / e non più la solita / dormiveglia. / Come l’ombra di sé stessi / o come un fiammifero violento che arde. / Non c’è altra alternativa, / né più segno identificativo. / Non c’è altra morte. / Non maggiore vita.”

Leggendo questi versi si può facilmente intuire come la poesia possa davvero mantenere viva una lingua, che le sue manifestazioni possono essere varie nel tempo e, soprattutto, che la poesia sa bene come difendere la parola, come far nascere dalle parole, nuove interrogazioni sul mondo e sulle sue forme. Pochi poeti raggiungono davvero questo scopo, tra questi: Ida Vitale, poetessa che è, insieme, classica e moderna dalla poetica che cavalca il drago senza rifiutare il fuoco. Una poetica che cambia continuamente dimora, che decanta e fa grande la lingua spagnola in modo sottile ma incisivo. I suoi accostamenti propongono lo spirito errante delle sue visioni e mettono in evidenza il permanente conflitto tra le parole e il loro significato, caos e ordine che fanno parte dello stesso mare, mare che dà vita a un vasto oceano.

Disidencias leves è una generosa antologia con più di dodici libri di Ida Vitale al suo interno, dal 1949 fino al 2021. Pertanto, all’interno di questa raccolta è possibile cogliere la costanza dei suoi argomenti, ma anche la sua evoluzione, le sue variazioni tematiche e formali nel corso del tempo.

Nelle pagine di questo libro, la prosodia occasionale non prevale sulla chiarezza delle immagini e sull’esposizione di una scena o di un’idea. L’evoluzione poetica è inevitabile. In questo libro si passa dalla visione giovanile alla maturità in cui si indaga tutto ciò che accade, tutto ciò che appare attraverso le parole. I versi poi insistono nell’investigare i momenti originali delle parole e spesso si aprono come a ventaglio in un vento di fede nella missione salvifica della parola.

Le ultime raccolte contenute nel libro mettono in evidenza, insieme al dubbio per i risultati, la malinconia che accompagna i dubbi stessi.

Lo stile della Vitale vanta un ampio spettro di registri. Dall’ordine iniziale si passa alla dispersione simbolica, la quale è anche un modo di occupare casualmente lo spazio e il tempo, come chi diffonde versi, poesie lunghe e brevi, misurate o argomentative, per espandere i limiti di un’esperienza. E poiché in quell’esperienza si mettono in discussione le proprie condizioni di decidibilità, ciò che si diffonde nelle parole è tutta la storia e tutta la vita che hanno originato l’atto creativo. Occorre dire che la maggior parte dell’opera poetica della Vitale non è guidata dalla metrica, ma dall’indagine verbale e dalla ricerca di immagini concrete.

La parola infinito

La parola infinito è infinita,

La parola mistero è misteriosa.

Entrambe sono infinite, misteriose.

Sillaba per sillaba provi a evocarle

senza che una luce annunci il suo dominio,

un’ombra indica a che distanza da loro

sta l’opacità in cui ti muovi.

Vanno ad un certo punto del bagliore e nidificano,

quando le lasci libere nell’aria,

in attesa che un’ala inspiegabile

ti porti fino al suo volo.

È qualcosa di più del suo sapore, il gusto della vita?”

La palabra infinito

La palabra infinito es infinita,

la palabra misterio es misteriosa.

Ambas son infinitas, misteriosas.

Sílaba a sílaba intentas convocarlas

sin que una luz anuncie su dominio,

una sombra señale a qué distancia de ellas

está la opacidad en que te mueves.

Van a algún punto del resplandor y anidan,

cuando las dejas libres en el aire,

esperando que un ala inexplicable

te lleve hasta su vuelo.

¿Es más que su sabor, el gusto de la vida?

Fortuna

Per anni, godere dell’errore

e dell’emendamento,

aver potuto parlare, camminare libera,

non esistere mutilata,

entrare o non entrare nelle chiese,

essere nella notte un essere come nel giorno.

Non essere sposata in un negozio,

misurata nelle capre,

subire il governo dei parenti

o una legale lapidazione.

Non sfilare mai più

e non ammettere parole

che mettono nel sangue

limature di ferro.

Scoprilo per te stessa

un altro essere imprevisto

sul ponte dello sguardo.

Essere umana e donna, né più né meno.

Fortuna

Por años, disfrutar del error

y de enmienda,

haber podido hablar, caminar libre,

no existir mutilada,

no entrar o sí en iglesias,

ser en la noche un ser como el día.

No ser casada en un negocio,

medida en cabras,

sufrir gobiernos de parientes

o legal lapidación.

No desfilar ya nunca

y no admitir palabras

que pongan en la sangre

limaduras de hierro.

Descubrir por ti misma

otro ser no previsto

en el puente de la mirada.

Ser humano y mujer, ni más ni menos.

**

Yuleisy Cruz Lezcano

Poeti contemporanei Elisabetta STRAGAPEDE

Trilogia minima

 Ecco come stride la vita

sotto un’edicola votiva

dedicata all’Odegitria

una madonna nera

fa offerta di sé.

Ecco come stride la vita

mio padre ed io

su una strada in salita

attraversati senza pudore

da una vecchia canzone d’amore

sospiriamo all’unisono

tra fotogrammi incompiuti

che riaffiorano.

 Ecco come stride la vita

si parte nella notte infinita

noi griffati con l’operatore

loro scalzi col traghettatore.

*

Ci siamo persi

nel punto non suturato

dell’innesto dimenticato.

Il resto è vita

rinata

sulla memoria secca della ferita.

*

L’ombra sull’asfalto

pulcino tenaglia

becca

alle oscillazioni delle nuvole.

Uno due trac

i secondi s’infrangono nella resa.

La campagna

vestita per il contadino

ci penserà un dio

dalle mani di ghiaccio

a denudarla.

*

(Inedita)


Elisabetta Stragapede vive a Ruvo di Puglia e lavora nel campo dell’editoria. Ha fondato l’Associazione culturale In folio, per la quale si occupa dell’organizzazione di eventi, manifestazioni culturali e della realizzazione del format “Passeggiate letterarie”.

Le sue poesie sono presenti in diverse antologie e enciclopedie poetiche. Vincitrice di “Talento da Poeta 2017”, nel 2018 ha pubblicato La misura del tempo, SECOP edizioni.

Nel 2020 ha partecipato all’album Anche se parto domani, Osteria del mandolino, Edizioni musicali Flipper/Cosmica con il testo della canzone Se tornasse primavera. Ha curato per LiberAria Editrice la revisione della traduzione del romanzo Chouquette di Émilie Frèche (2022).

La variabile umana, Liberaria Editrice (2022), è la sua ultima pubblicazione.

Poeti contemporanei Ginevra SANFELICE LILLI

Orientati

pensando a vuoto.

Senza troppi programmi

visite, calendari.

Doveri e compagnie.

Telefono, telecomandi.

Troverai il fondo e lì,

uno specchio.

Roma, 10 luglio 2021

*

Occhi d’oro

e bocca di corallo

avrai tu ora che sei morto

per tua stessa mano.

Eri steso a terra

un giorno di ottobre

senza pudore di morte.

Ti ho scorto

e sono proseguita

fra le strade di casa

impietrita

nel vedere i tuoi folti capelli

chiari, la testa docile sulle pietre.

Roma, 29 ottobre 2020

*

Ci sfioreremo, come trottole

ciascuno con i propri colori

con le nostre scintille

sopite, manifeste. E gireremo

e ci perderemo

nella speranza di ritrovarci

nell’altro, di conquistare

frammenti di noi stessi, lì, e nei ricordi

scaturiti. Trottole dal giro inverso

ruoteremo attorno

alle nostre stesse anime.

Campidoglio, Roma, 22 febbraio 2017

*


Ginevra Lilli

Ginevra Sanfelice Lilli è nata a Roma nel 1972, dove tuttora vive e lavora. Dopo la formazione scolastica in lingua francese, e tre anni di permanenza negli Stati Uniti, ha seguito studi universitari in comunicazione e giornalismo. Si è formata autonomamente sia nella scrittura, fin da bambina, sia nel disegno astratto, cui si è dedicata in seguito. Ginevra Lilli è figlia adottiva di Laura Lilli (Roma 1937-2014) scrittrice, femminista, critico letterario, poeta. Ginevra Lilli ha esposto a Roma e a Milano. Nel 2014 esce la sua prima raccolta di poesie Diario ordinario (edito da Marco Saya Edizioni, Milano), presentata al pubblico in contemporanea con la serie di diciannove lavori, su carta in bianco e nero, con lo stesso titolo. La sua prima raccolta di poesie è stata segnalata al Premio Internazionale di Letteratura Città di Como, 2015. Ancora oggi continua in parallelo la sua ricerca fra segno e parola poetica.

SE TOLGO IL NODO di ANNA RITA MERICO: SULLE TRACCE DEL DESIDERIO

A.R. Merico, Se tolgo il nodo
Con uno scritto di Antonio Nazzaro
Postfazione di Claudia Mirrione
Musicaos Editore, Neviano (Lecce) novembre, 2023

Ci sono fili, funi, tentacoli a legarci alla Poesia di Anna Rita Merico in Se tolgo il nodo, ma è il verso stesso a chiedere spazio per riuscire a penetrare l’anima; la pagina appare come segnata dalla parola poetica, scolpita su marmo.

Fili e spazi, come ossimori, sono, tra loro, in perfetta simmetria per riuscire ad esprimere il tutto del pensiero, il tutto della parola: Un movimento ralenty–irreale / mi catapulta in uno spazio violaceo turchino (…)  ora nulla più mi lega / il linguaggio è tentacolo filiforme. (CHIRURGIE p. 15)

È Poesia verticale, discesa, viaggio in profondità che reclama una spogliazione, progressiva perdita di parti del corpo: Perdo parte / una millimetrica chirurgia stacca bordo estasiato di pelle (p. 15) e ancora: un filo potente scuce / un movimento di lentezza imprendibile avvolge / nel fondo in cui scendo / trovo l’inaspettato (DENTEDIBESTIA p. 17). E non stupisce che la scena, come in un dramma teatrale, si apra con lo spazio cosmico lì dove, come shuttle, l’io poetante s’eleva cercando di riafferrare brandelli di sé: Così / perdo parte di me / all’inizio vedo la parte / cerco di riabbordarla / con sempre minor forza e intenso dolore la guardo / impellicciata nell’impossibile del gesto / vengo ritagliata in forma nuova. (p. 15). Tali versi, dicono, in apertura, ciò che sarà il viaggio, l’atto unico della nostra Vita: perdita, dolore, forma nuova.

L’inaspettato, in questo scuro labirinto contemporaneo, senza fiamme, certo, come nel gorgo dantesco, ma con rostri ad uncinare la tenera pelle, è il Minotauro di Dürrenmatt[1] che l’autrice pone in ex ergo. S’accovaccia, il Minotauro, avanza, arretra con noi in un gioco di specchi, un’infinita danza: “scaturì un po’ per volta una ritmica danza della creatura con le sue immagini che erano in parte specularmente inverse e in parte, quali immagini d’immagini identiche alla creatura” (p. 7). Esso rappresenta, dunque, l’incompiuto, l’irrisolto, ciò che non siamo stati capaci di accettare, i nodi che non abbiamo saputo sciogliere.

Il Minotauro ricorre anche in Fenomenologia del silenzio[2], corposa raccolta poetica (2004 -2021), di cui Se tolgo il nodo sembra essere gemmazione. Qui la poeta scrive: Al centro del livido umore / il Minotauro ronzante modellava / spargeva le mancanti vocali dell’incompiuto alfabeto.[3] Estremamente affascinante, l’immagine del Minotauro che sparge le vocali mancanti; la scrittura, o meglio, il suo divenire solca il vuoto cercando le parole per enunciarlo affinché in esse tutto abbia corpo, persino il nulla; ma non mi sembra questo il punto. C’è proprio un vuoto, sembra dirci la Merico, che la parola poetica non sa riempire. “La parola è impotente”, afferma Ungaretti (1888 – 1970)[4], ed è quel segreto, quell’ineffabile che possiamo sfiorare con lo spirito, ma che sfugge al corpo della parola, ad esser essenza della Poesia. Eppure, questa ipotesi non mi convince appieno. Credo che ciò che tormenti la Poeta sia l’Altro nell’assenza. Potremmo affermare, dunque, che la parola poetica sia, in Merico, espressione del desiderio; ella scrive: dietro ad ogni parola c’è un pensiero che non stringo ma che mi si mostra tormentandomi / a volte dei raggi mi trafiggono pupille e mani (Per Claudia Ruggeri, p. 59)

Difatti il desiderio, inteso come assenza o anche attesa di qualcosa che si colloca altrove in un luogo mai pienamente identificato, sembra attraversare come filo rosso, l’intera raccolta, o meglio, le parti, i bozzetti, di cui l’opera è composta.  

Il viaggio dell’essere umano inizia nel cosmo: Tutto avviene nel passaggio dal cosmo alle tube (…) ma quando questo passaggio non è stato / semplice regolare lineare e si occlude il sentiero e qualcosa resta nel buio metallico del cosmo (…) e poi accade che nasco ma ho un pezzo fuori (…) senza quel pezzo non posso / non riesco [5] Per me, questi versi, nei quali è rappresentato il trauma della Nascita, non sono soltanto espressione del desiderio, ma provocano l’anima, raschiandola, chiamandola in causa; così la Filosofia si fa incontrovertibile Verità, non solo idee, pensieri, ipotesi, e la Verità, Poesia. Ed il passaggio dalla Verità alla Poesia è Salvezza.

In FAME l’autrice focalizza l’attenzione sul cibo e scrive: Ululo come lupo         piango come agnella / stasera   stasera     stasera / vorrei    vorrei     vorrei  / cenare con te /  aiutami     ho fame stasera; qui l’evidenza del desiderio non è resa soltanto attraverso la reiterazione del condizionale ma anche tramite una maggiore dimensione degli spazi tra le parole.

Per quei cordami che stringono l’autore al lettore ma anche, tra loro, le varie parti dell’opera, il cibo è legato all’amore, dunque, alla figura materna, centrale in SQUAME: allontanati      vorresti divorarmi / ti sento con le tue squame graffiarmi la pelle (…) allontanati / non vedi che ho caldo durante quest’inverno di albe brinose? (p.37)

In SE TOLGO IL NODO, bozzetto che dà il titolo all’intera opera, l’autrice sembra, invece, delineare il fenomeno del ritiro sociale: Cambio pelle forse   però   se togli il nodo quel borbottio dell’anima si ferma / forse    però    se togli il nodo il tuo gemello siamese svanirà / sai? / lui non è reale (p. 35).

Quel “gemello siamese” con il quale si confronta chi vive in solitudine, solo, nella folla del virtuale, senza saper incontrare veramente l’altro, mi riporta, ancora una volta, al Minotauro che, danzando, ci rispecchia. Se la guarigione è nell’Altro, anche il desiderio può cambiare prospettiva. Freud (1856 – 1939) ci ricorda, a questo proposito, che il sogno è l’appagamento di un desiderio in cui sono presenti anche le voci degli altri.

E nel movimento tellurico dei versi, splendida è SUZIONE in cui, ancora una volta, la voce materna giunge da luogo altro, una dimensione tutta onirica. Ma qui la Merico apre la ferita del non amore poiché tratteggia una relazione distruttiva,  forse simbiotica, piuttosto che d’amore autentico, relazione che, infine, si libera, libera, cioè, il desiderio della madre attraverso il dolore: era lei proprio lei / sbucava dal ventre di una notte archetipa /aveva rapito la libertà della sua origine e ci si era ficcata dentro (…) urticata nel suo progetto distruttivo / bramata d’amore / per lei stanotte ho pianto / per lei stanotte ho tentato di bere il succo amaro del suo latte rancido (…) stanotte ho pianto / per lei          per me / succhiando nuova libertà (p. 63).

Come precipizio a strapiombo sul mare, ritroviamo, nitido, il vuoto d’amore ma anche il desiderio come appagamento del corpo; in Fenomenologia del silenzio, più in particolare, in The process of writing, l’autrice scrive: Bocca affamata / dispettosa / tiranna / regina d’archetipo desiderio /      origine spaccata in due[6]

Se la parola diviene corpo, si dimostra impotente, mancante, ombra ineffabile. È lì, sul ciglio del dirupo, pronta a lanciarsi nel vuoto; è, essa stessa, vuoto, non asettico, fine a sé stesso, ma desiderio dell’Altro, poiché siamo protesi verso l’Altro ed il Poeta, nella sua solitudine, lo è strenuamente. Urla, il poeta, nella fragilità della Parola.

Dall’urlo delle viscere una parola muta

come può tanta mancanza d’ordine

trovare filo ed ordito di trama?

una doppia juta di sillabe si tesse

mentre

la parola mostra

ancora

solo

la sua ombra[7]

È il semiologo francese, Roland Barthes (1915 – 1980) ad associare scrittura, corpo e desiderio scrivendo: “Le langage est une peau: je frotte mon langage contre l’autre. C’est comme si j’avais des mots en guise de doigts, ou des doigts au bout de mes mots. Mon langage tremble de désir[8] e ancora: «Savoir que l’on écrit pas pour l’autre, savoir que ces choses que je vais écrire ne me feront jamais aimer de qui j’aime, savoir que l’écriture ne compense rien, ne sublime rien, qu’elle est précisément, ” là où tu n’es pas,” c’est le commencement de l’écriture… »[9]

Mentre Barthes sfrega il linguaggio contro l’Altro per distaccarne scintille, la Merico se ne sente stordita: Mi sono sempre sentita invasa / allagata intollerante alla parola (…) le mie parole si stordiscono facilmente e mi lasciano dolore acuto insopportabile come una scia di lava (FUTURO p. 53). D’altro canto, il tentacolo filiforme con cui la Poeta apre la raccolta, è qualcosa che avviluppa, involge ed inesorabilmente attrae. Ma è lì, nel peso, in quella dolorosa attrattiva di corpo e senso che la Poesia incendia la Parola.   

Giulia Sonnante


Anna Rita Merico Nata a Nola (Na), attualmente vive in Salento. Inizia la propria attività di ricerca all’interno dell’M.C.E. (Movimento Cooperazione Educativa) e, contestualmente, in ambienti legati al pensiero della soggettività femminile a partire da Laurea in Filosofia e tesi su Carla Lonzi. Molte le collaborazioni con I.R.R.E. Puglia e Ministero per sperimentazioni nazionali (Progetto P.O.LI.TE.) ed europee (Progetto Tam-Tam, Spagna-Grecia-Italia) sul tema della didattica della differenza sessuale.

Lunga attività di ricerca su tematiche inerenti la filosofia della differenza sessuale: collaborazioni con dipartimenti universitari attraverso progettazioni europee, pubblicazioni su riviste di settore e testi collettanei, formatrice in corsi presso enti istituzionali ed associazionismo.

Silloge: Era un raggio…entrò da Est (2020, Musicaos ed.). Raccolta: Fenomenologia del silenzio (Musicaos ed. 2022)

Presente su blog e riviste online/cartacee (critica letteraria e poesia).


Note

[1]Friedrich Dürrenmatt, in Romanzi e racconti a cura di Eugenio Bernardi, 1993, Einaudi-Gallimard, Torino, trad. di Umberto Gandini

[2] A. R. Merico, Fenomenologia del Silenzio, poesie (2004 -2021) segnate pietre, in the process of writing, Dall’angolo bucato entra memoria, una parola si bea, al sole, pulsando infinita – Musicaos Editore, Neviano (Lecce) 2022

[3] AR. Merico in ibid p. 77.

[4] Intervista a Giuseppe Ungaretti (1961)

[5] A.R. Merico Se tolgo il nodo p. 59 (in Per Claudia Ruggeri)

[6] A.R. Merico, Fenomenologia del silenzio p. 50

[7] A. R. Merico, Fenomenologia del Silenzio, p. 91

[8] R. Barthes, Fragments d’un discours amoureux (1977)  testo in formato digitale al seguente link : https://www.sas.upenn.edu/~cavitch/pdf-library/Barthes_Discours_amoreux.pdf [Il linguaggio è una pelle : io sfrego il mio linguaggio contro l’altro. È come se avessi delle parole a mo’ di dita, o delle dita sulla punta delle parole. Il mio linguaggio freme di desiderio.]

[9] R. Barthes Fragments d’un discours amoureux (1977) [sapere che non si scrive per l’altro, sapere che le cose che scriverò, non faranno innamorare chi amo, sapere che la scrittura non compensa nulla, non sublima nulla, sapere che essa è proprio là dove tu non sei, è là che ha inizio la scrittura.] traduzione di chi scrive.

Giusy Carminucci recensisce UN BACIO E UN GRAFFIO di VINCENZA DI SCHIENA

proposta al Premio Strega – Poesia – 2024

F

T

La poesia di esordio di Vincenza Di Schiena, insegnante e molto altro, è l’esempio più bello di come possa essere sdoganato il lasciapassare dei pensieri alla grandezza di una donna.

Poeta o Poetessa che dir si voglia, la Nostra, con un lungo trascorso di impegno civile, sociale e culturale nel suo territorio, ci offre una a volte ponderata, a volte istantanea lettura di quella dimensione che le origina esperienza: la vita stessa.

Approcciandosi alla silloge “Un bacio e un graffio “si ha l’immediata percezione che non è semplice né immediato e neppure scontato poter entrare in empatia con la sua poesia.

L’Autrice sembra quasi voler “opporre resistenza” alla relazione e alla conoscenza, scegliendo da chi vuole lasciarsi esplorare.

Una volta trovata la password, però, è un continuo fluire di ritratti, di contesti e di porte che si aprono per il lettore, verso il cuore e la mente della Di Schiena, per svelarne la bellezza.

Questa poesia usa un complesso di strutture linguistiche cariche di una propria forza esistenziale, ed è quella che Vincenza possiede e che le permette di rendere vivi i suoi versi con estrema naturalezza.

Il lessico adoperato lambisce continuamente un linguaggio personale, carico di costruzioni fluide, che si vestono ora di ritmi ora di inedite costruzioni sintattiche. La Di Schiena gioca di strumenti stilistici come l’anafora, l’analogia, la rima.

“Piove.

Tu non ci sei.

Faccio le prove

conto sette, otto, nove.

Ti nascondi non so dove.

Piove.

Giro i tacchi

 Cerco un nuovo amore.

Piove.

Era ora di chiudere il portone”.

L’energia, che questa scrittura poetica possiede, nasce da una combinazione di significati legati all’impegno sociale, con imperativi di affermazione di sé, ma anche di vibrazioni erotiche cariche di tensioni precise o soffuse, il tutto sempre sostenuto- con estrema naturalezza- da una decisa ricerca espressiva.

Tutto questo, mentre dipana le matasse di nuclei tematici umani, straordinariamente umani! Dobbiamo considerare, infatti, che la poesia della Di Schiena offre una chiara interpretazione di sentimenti, partendo proprio da cosa li ha originati.

“(…)

Ho scelto il tormento, il filo spinato

per adorare chi non è nato

dentro di me.”

 Per poi dichiarare a chiare lettere

“ (…)

Assedio e guerra

è l’amore vero.”

L’Autrice prova a dare, attraverso i suoi versi, una definizione di elementi vitali, che, come forze motrici, costruiscono le dimensioni reali dell’essere:

            ⁃L’attesa

“Travolta da un’insensata attesa

asciugo la pioggia di novembre.

La testa a posto, i nervi sciolti

il tuo passo sulle scale

le parole distese sul fianco della tua schiena.”

            ⁃ La forza del potere del guardare degli occhi:

 la forza di uno sguardo che cattura “senza nulla afferrare “.

            ⁃Lo spazio/ abisso tra la percezione e il far proprie situazioni, stralci di vita, opinioni

“(…) nessuna proiezione sarà abbastanza

nell’arco delle ciglia

che tutto catturano (…)”.

E poi… il viversi con un

“cambio pelle

tutte le volte

che striscio di dolore”.

E in questo contorcersi di essere e di scegliere chi si è, che si impone, con profondità di significato, il tentativo che la poetessa fa nel delimitare chi siamo :

 “Abbiamo almeno due anime

Una per giocare

L’altra per patire

E mille altre stanze da governare.”

Ed è nell’affermazione dell’essere che acquista particolare significato il potere della voce, a cui la Nostra affida, con precise e ricercate aggettivazioni, la propria poliedrica presenza dell’essere nelle relazioni.

Ed è di relazioni che parla, quando definisce “costellazioni fili invisibili, abbracci, canzoni. “

Sono territori emozionali, che si materializzano nell’intreccio dei sentimenti. Ed è nel gioco di un silenzio che costruisce, che si delinea un amore segreto o celato, quando la Poetessa con la delicatezza di una piuma dice

“ Ti amerò in silenzio.

Non busserò

non lo dirò a nessuno.

Ti chiuderò a chiave nel mio cuore

E mi addormenterò. “

Amerà in silenzio, ma cantandone la bellezza ne” lo spazio azzurro che cerchiamo”, partendo da “ una pagina di quaderno vuota”, dove  ” tratti sottili sono le parole”.

La poesia è il nostro pezzo di cielo.

E quello della Di Schiena è un cielo azzurro, perché la sua è una poesia carica di una lingua che è, anche, confronto fra le varie sfaccettature di un amore, spesso ridotto a strumento o selezione,  ma che esprime sempre, con forza e con il giusto flusso di parole, la consapevolezza delle sue sfumature.

 È nella parola la forza indiscussa del suo impegno civile, sociale e culturale, che ora esprime in versi la coscienza responsabile di una persona attenta a costruire, con i mille sé che le appartengono e i tanti cittadini del mondo, un futuro sostenibile, in cui coltivare relazioni, anche di passione vestite

“Bagnami di dolce saliva

Entra nell’erbario

Fai spazio tra l’ortica.

Fusto di liquirizia accomodati

e metti radici.”

Già a partire dal titolo della silloge si individua la tenerezza di un incontro con una creatura che ha molteplici dimensioni di libertà; il contrasto tra i due lessemi, bacio e graffio, riportano ad una richiesta che i bambini sono soliti fare agli adulti di cui si fidano: un piccolo bacio su un graffio, fa credere loro che la ferita possa guarire, che il dolore possa passare. I bambini ci credono, perché si fidano, senza preconcetti, in modo incondizionato di chi li ama e si prende cura di loro.

Già dal titolo della silloge “Un bacio e un graffio”, inizia, quindi, a delinearsi un progetto che è di per se stesso evento e accadimento; in quanto celebra l’esistenza svelata, di protagonisti impigliati nella rete della comunicabilità, ma pur sempre liberi e determinati nei ritmi delle proprie fragilità.

Giusy Carminucci

Poeti contemporanei Rosaria SCIALPI

La commedia del tempo

Veniamo al mondo

Per una decisione altrui,

Un futile errore

Un capriccio umano

Che ci impone di partecipare alla commedia del tempo.

Noi,

Miseri commedianti,

Giullari della corte dei minuti e delle ore,

Allo sbaraglio, senza canovaccio né parte.

**

Periferie urbane

Nel macrocosmo di città depensanti

Di vie inquinate da sporche menzogne

Ricamate da trafficanti di parole

Noi siamo periferie urbane

In decadimento

**

Estranea

Estranea

Mi sono sempre affacciata

Alla finestra della vita

Un marchio a fuoco

Inciso sulla fronte

**


Rosaria Scialpi è nata a Taranto nel 1996. Laureata in Lettere moderne con lode, ha scritto articoli per riviste scientifiche, collaborato con testate giornalistiche del territorio pugliese e cura la comunicazione di un festival letterario.

Nel 2022 l’esordio con la silloge poetica Lembi di verità (L’Erudita, 2022), vincitrice del Premio Saffo Poesia Giovane e del Premio Troccoli Magna Graecia, a cui segue il saggio La trilogia del Nostos (Pellegrini, 2023).

Recentemente è anche stata curatrice del saggio Sulle Sponde della Magna Grecia – Il Novecento

di Spagnoletti, Carrieri, Grisi e gli altri (Passerino Editore, 2023), di cui prossimamente sarà

pubblicata una seconda edizione. Alcuni suoi racconti appaiono in antologie.

Alcuni suoi racconti compaiono in antologie.

Ha collaborato al saggio Alessandro Manzoni. La tradizione in viaggio (parte del Progetto Scientifico Manzoni 150, patrocinato dalla Camera dei Deputati) con il contributo dal titolo Manzoni gotico I Promessi sposi e il romanzo gotico di lingua inglese.

È autrice di un podcast incentrato sulle versioni meno note dei miti classici dal titolo Mitopedia: il mito come non te l’hanno raccontato, spin-off della pagina Instagram omonima.

Miriam Bruni su TER(R)APEUTICA di LUCA CHENDI

Ho letto questa raccolta poetica dall’inizio alla fine, e poi dalla fine all’inizio. Già alla seconda lettura certi tratti del libro si sono fatti più visibili. L’operazione seguente è stata una ricerca delle parole ricorrenti. Questo perché lo stile di Chendi è piuttosto ermetico, e sarebbe troppo aleatorio commentarlo e discorrere sui significati, senza prima averne soppesato la struttura fisica, il significante.

Il termine più ripetuto è TEMPO, seguito da DOLORE, VITA, STAGIONI.

“Il tempo lo sfoglio a cenere persa”, scrive l’autore già nelle prime pagine…; “sopra il tempo è stagione ostile/ lascia solo deserto sulla pelle” (p.51): attrazione dei poeti per antonomasia, il Tempo qui ritorna davvero in modo martellante. Come se l’io lirico fosse costantemente alle prese con la domanda a se stesso: “Cosa sto vivendo, qui, ora?…”

Nonostante la giovane età, Luca dà mostra di uno sguardo sul mondo già piuttosto maturo e personale, e utilizza il linguaggio in modalità che sono al contempo espressionistiche e musicali.

A livello di contenuti, si confronta con l’esperienza del lutto: la attraversa con coraggio e raggiunge un sentire nuovo, che gli fa dire, verso la fine: “È questa quiete il rimanere/ nel bene, in pochi istanti lunghi/ come anni impressi nella resina.” (p.86). La strofa precedente era stata rivelatoria del cammino fatto: “Solo così saremo nell’estate/ e in tutte le altre stagioni/ che abbiamo perso. / Solo così chiamarsi qui/ non sarà più come/ sparare addosso ai morti.”

In queste pagine ci ritroviamo dinanzi alla sempre vera consapevolezza della fugacità degli istanti, e della necessità quindi di un certo stoicismo, ma siamo anche portati a guardare ai nostri interrogativi esistenziali – spesso ammaccati dal “vuoto” –  , interrogativi che nel nostro autore si aprono piano piano verso la contemplazione delle misure cangianti di ogni cosa: “tutto è dilatato tutto cerca il suo colore.” (p.80)

Per questo Chendi mette in gioco sé stesso, la memoria, e il cuore: per capire qual è il colore del suo destino, e scoprire se – o che –Ci protegge dall’alto un altro cielo/ come la cornice antica di una tela/ che resiste ai colori della sera/ e di fronte espande intero il mare.” (p.83)

Da ciascuna delle tre sezioni della raccolta ho scelto un testo. Un testo che ho trovato particolarmente esemplificativo per la tematica affrontata o stilisticamente riuscito.

Nel primo sono messi in scena, rappresentati, la struggente nostalgia per la perdita del padre e la fatica emotiva di reggere questa assenza.

Temo il tempo dell’attesa

le pareti spogliate dalle foto. Temo

il lamento in moto delle ore.

Sarà un secondo o forse l’infinito

questo dove si dilata

il futuro delle dita.

Niente riempie il vuoto

tutto scorre nei silenzi

ma io vorrei sentire il tuo rumore

vorrei che mi parlassi

per ore – almeno un’altra volta –

della schiuma del mare

come quando sotto il sole

sentivo la passione farsi marea.

Innaffiare -così- la sabbia

è un gioco fuori stagione

il ricordo è come un fiore

piantato nel deserto.

(p.27)

Nel secondo vi è già un sole che fa capolino tra le nuvole, ed è il sole di una corrispondenza emotiva che aiuta a ritrovare visioni – anche se solo interiori.

Sono barbarie le troppe precauzioni

si resta per ore a guardare.

È la natura che ci concede il luogo

ma non sappiamo come abitarla.

E così siamo capiti nella ferita

in questo tendere all’incontro

dell’amore puro. Ti giuro

è indecifrabile ma lasci

visioni private nel cuore.

(p.64)

Il terzo si chiude su una splendida dichiarazione naturalistico-esistenziale: l’io di questo racconto in tre tempi, ha ormai accolto la ricorsività dei contrari, dei colori, delle stagioni.

È pronto a riconoscersi figlio della terra, addirittura più vicino al mondo vegetale che a quello animale. In vari passaggi del libro infatti, il correre avanti o indietro, il cercare la folla o l’agitarsi per stare a galla, vengono de-scritti come inutili e forse patetici tentativi di stare in vita, essere in vita.

Se siamo

siamo in uno schiocco di dita

in quello spazio incerto

che si fa ospizio

e ci divide

che dice il millimetro

di distanze tra di noi.

Ora non ha senso la corsa

il tempo batte

il tempo del panico. È settembre:

la vita imprimeva – anche lei

sugli alberi – colori caldi

di realtà. Guardarli ora è

ritrovarci nell’attimo che torna,

siamo anche noi i figli della terra.

(p.87)

                                                                                                              MB, febbraio 2024

‘L’usignolo bagnò di luce le labbra del giorno’: Anna Rita Merico su LA SLEGATURA DI MAURA BALDINI

Nel gelo mattutino

acqua velenosa.

Così comincia

il rebus della speranza

che arranca

e sviene

sulla tomba di Dio.

La poesia scorre tra le righe del pensiero e le pieghe del corpo. Trasforma ciò che vede e ne tocca l’ancestrale. Cosa diviene poesia se un momento di vita s’assopisce attendendo svolta in un dove sconosciuto? Un risveglio si trasforma in orologio del tempo che segna attesa e speranza. Un passo incerto dentro un immobile di intenti. Il tempo che rolla aria gelida come fosse trapano e rovello, vuoto e veleno, sospensione e attenzione al diamantino di un gelo aurorale che non prende forma. Dannata quest’alba, evoca fantasmi e getti molli di acque scure.

L’usignolo bagnò di luce

le labbra del giorno.

Al grido di una gola acerba

si defilò sacrificando il canto.

Certezza non crebbe allora

nella musica che il cielo svelava,

e l’occhio della luna giustiziò

l’assassinio scambiato per amore.

Ma poi s’alza tutto, il giorno. E la speranza cuce una fredda certezza. E il tempo continua ad andare. Passi che chiedono giustizia. E’ giorno impilato nel margine di una vita che tesse qualcosa di sgraziato. Inganno svela  inganno. Di menzogna mi ero nutrita ma il giorno svela, con luce bagnata, quel dentro che mi ero negata. E l’orologio continua ticchettio di giornata che scende.

Nella luce sta

la coazione del dolore

e la speranza

che un verbo si levi

dal lago.

E la giornata continua scorre di grano in grano. Ore coatte e attese disattese. Qualcosa piega affanno e volontà. Dalle sponde di questo lago che guardo alle spalle, attendo…

Ho un osso obliquo impiantato nel ventre

e un fiore carnivoro che mi divora.

Mi dicono che fuori è il nemico,

ma fuori c’è il cielo

che svezza albe come perle,

e ci sono alabastri

che raccolgono notti per suonarle ai viandanti.

Di questo vento d’essere non posso cogliere il male

E non posso guardare fuori

col tormento che ho dentro

col bruciare delle stelle fra le mani

e l’inganno dell’acqua

che mi ha dato i natali

e con loro l’abisso.

L’acqua torna nel tempo che lento fiocca. S’avvicinano notti e si cuciono intenti. Al calare sento passi di viandanti che mi suonano come corde e mi risuonano come improbabili presenze. Ormai lo stellato drappeggia questo primitivo orologio. Torno al plancton di un inizio mai innocente. Sfioro la bocca di un taglio incistato nelle memorie di cellule slegate. E guardo queste minuzie le vedo tutte impazzite, minuscole, gelide, taglienti: soglie d’abisso sventrato. Si risvegliano antiche divorazioni, bollore di ancestrali, gorgoglio d’incontrollabile mistero. E’ un dentro che mi avvolge lasciandomi fuori, muta e immobile, a sentire.

Notte per assaporare

una fratellanza

un nodo scorsoio

di braccia e palpebre,

sonnambuli varchiamo

lo stesso sogno,

e stare muti, sigillati,

ad accarezzare la bestia,

ed esserne felici, ingenui,

con occhi sbiancati,

marchiati da un’infanzia comune

una rinascita.

E, nel giro delle lancette fatte tempo, s’agglutina la notte. Scompaiono le lancinanti delle solitudini. Compaiono i corpi di abitanti, quelli che hanno vagato nel niente del nonriposo.  Come trasparenti ombre ricordano e calpestano i suoli d’antichi inferi. Sanno di Ade, sanno di Bocche spalancate in accessi, sanno di Budelli in cui fuoco e ghiaccio s’alternano e lambiscono. E questa giornata nata e giunta a notte ha il sapore dell’infinito. Ha la rasposità dell’inattraversabile. Ha la forma del dolore che, fondo, plasma. E’ stata una visione. Procediamo in frotta, imbacuccati in anime fatte corpo, a piedi scalzi mentre azzanniamo rinascite.

La Slegatura di Maura Baldini è un Diario il cui sismografo registra ogni gamma emotiva legata all’incedere di una situazione limite che dal corpo invade l’intero essere. Il tema della luce indica a tratti la speranza, a tratti la gioia di bearsi nella speranza, talaltra il mondo che torna. Nulla di più attento al tema del dolore tratteggiato con linee di delicate incursione negli esiti di ricaduta sul pensiero e nel corpo. Una poesia in cui ogni sguardo è decentrato e tutto è guardato dalla soglia di una distanza che è prossimità al mondo e, al contempo, distacco da esso. Il dolore del corpo dinanzi cui si è impotenti, slega dal mondo e lega ad altre connessioni. Lega alla sfera del profondo, sfera nella quale il sentire diviene crepaccio del percepire, regressione ad un sé che si sente mite e si ritrova muto pronto ad uscire dall’ombra.

Anna Rita Merico


Tutti i testi sono tratti da

Maura Baldini, La Slegatura ed. Il Convivio 2022

LOUISE GLÜCK E LA LUCE D’INVERNO di Mariatina Alò

“…the adventure that writing is, each poem a journey into unknown territory

Era inverno, quando ho scoperto Louise Glück, e mi trovavo in un momento della vita in cui certe domande si accampano sulla testa come grossi uccelli nel loro nido.  Scrivere una buona poesia non deve essere mai stato facile, ma quando la incontri, la poesia vera, quelle parole ti si attaccano addosso, come se t’appartenessero da sempre. Avevo da poco cominciato a dedicarmi alle poete americane, quando ho scoperto Louise Glück, ho trovato incredibile questa vicinanza di sentire con i suoi scritti, questo calarsi nella sua parola e ritrovarsi, andare in un territorio straniero e sentirsi a casa propria.

Ho letto Averno, una silloge ispirata al lago Averno, nei pressi di Napoli, che, nella mitologia greco-romana, rappresenta la porta dell’Ade; qui la vita e la morte si incontrano, sotto il cielo d’inverno in cui non vi sono più uccelli a volare ed ogni cosa è fredda e scura. Averno è la narrazione del passaggio, dall’autunno all’inverno, dalla vita alla non vita, che non è propriamente morte, ma una dimensione di mezzo in cui sotto la terra le creature giacciono in attesa della rinascita. Così la Glück, richiama il mito di Persefone, figlia di Demetra e Zeus, guardiana della porta degli Inferi. Nella prima versione della poesia Persefone l’errante, la figlia che viene al mondo, diventa donna, entra nella terra, liberandosi dalla sua prigionia di figlia:

Lei sa che la terra

è affare di madri, questo almeno 

è certo. Sa anche che

lei non è più ciò che si dice

una ragazza. Per quanto riguarda

la carcerazione, lei crede

che è stata prigioniera da quando è stata figlia.”

Nella seconda versione di Persefone l’errante, la Glück rievoca la dimensione di madre, figura ricorrente in Averno, qui è il lutto di Demetra a colpire, il lutto della separazione della madre dal corpo della figlia, alla nascita, ed il lutto nel momento in cui la figlia muore al mondo dei vivi. Persefone, la donna che sulla terra viene a mancare, ma continua ad errare sotto la terra, mentre sua madre la cerca tra i vivi, Persefone la figlia che muore alla madre, che da lei si separa per divenire altro.

Abbiamo qui

una madre ed un enigma: questo

corrisponde precisamente all’esperienza

della madre quando

guarda in faccia alla bambina. Pensa:

ricordo quando non esistevi. La bambina

è perplessa: più tardi, l’opinione della bambina è

che è sempre esistita, proprio come

sua madre è sempre esistita

nella sua forma attuale.”

Nella sua autobiografia, la Glück racconta di essere stata introdotta alla lettura dei miti greci, da suo padre, il quale raccontava alle due sorelle anche la storia di Giovanna d’Arco, eliminando, però, la parte in cui la santa veniva messa al rogo. I suoi genitori hanno sempre spinto le due figlie a scrivere ed inventare storie, che il padre puntualmente trascriveva su grandi fogli; c’era, nella sua famiglia, la percezione che ogni forma d’arte fosse una nobile chiamata. Louise crebbe in due famiglie matriarcali, composte da un gran numero di donne, e benché il mondo non lo riconoscesse, nella sua famiglia vi era una consapevolezza: che il potere femminile fosse illimitato. Nonostante la vita l’abbia messa dinanzi a grandi prove, ha sofferto di anoressia in adolescenza e le fu diagnosticata l’epilessia; come dichiara nella sua autobiografia, la Glück ha attraversato un lungo periodo in analisi, percorso durato sette anni, che, dice, furono anni che cambiarono il corso della sua vita, rendendola vivibile.  “They made my life possible, really.

C’è, nei suoi versi, tutta la drammaticità dell’essere madre, figlia, donna, narrata con aspra precisione e amara consapevolezza, in un gioco evocativo che supera il tempo e riporta il lettore alla coscienza, pura e disillusa, della propria dimensione del vivere.

Ho imparato molto da lei, ho imparato che uscire dall’inverno si può, ma quelle ferite non si possono ricucire, perché ogni cosa in natura ha la sua precisa funzione e noi uomini non possiamo sottrarci a questo, tuttavia, cerchiamo appigli che ci permettano di esistere, di stare al mondo:

Posso testimoniare che quando il sole tramonta in inverno è

incomparabilmente bello e il ricordo di esso

dura a lungo. Penso questo vuol dire

non c’era notte.

La notte era nella mia testa.”

La Glück ci insegna che la poesia è una via d’uscita, un corridoio tra la vita e la morte, la luce e la non luce, con la consapevolezza che quello che viviamo, ci segna, ci ferisce, ma, allo stesso tempo, ci consente di crescere, di avanzare verso la nostra piena realizzazione di esseri umani.

Mariatina Alò

RECENSIONE: Averno (Louise Glück) - La lettrice controcorrente

Louise Glück è nata a New York nel 1943. Vincitrice del premio Pulitzer con L’iris selvatico (The Wild Iris, 1993), ha convinto i critici per lo stile controllato ed elegante con cui assorbe lunghe sequenze narrative di tratto confessionale che ricordano la poesia di R. Lowell, S. Plath e A. Sexton. In Meadowlands (1997) rievoca figure mitiche come Ulisse e Penelope. Nel 2020 vince il Nobel per la letteratura per la sua incofondibile voce poetica che con austera bellezza rende l’esistenza individuale esperienza universale. Nel 2020 per il Saggiatore vengono pubblicati: Averno e L’Iris Selvatico. A queste segue Ararat (2021).Muore a Cambridge, nel Massachusetts, il 13 ottobre 2023.

Louise Glück, L’iris selvatico, traduzione M. Bacigalupo, Il Saggiatore

Louise Glück, Averno, traduzione M. Bacigalupo, Il Saggiatore

https://www.nobelprize.org/prizes/literature/2020/gluck/biographical/

EUGENIO FLORIT: IL POETA DELLE TRE PATRIE – Note critiche e traduzioni di Yuleisy Cruz Lezcano –

Eugenio Florit y Sánchez de Fuentes (1903 Madrid -1999 Miami) è stato uno dei poeti più eccellenti della tradizione lirica cubana e della lingua spagnola, fu anche saggista e professore universitario.

Al momento della morte di Eugenio Florit spesso per riferirsi a questo poeta si è usata la frase “poeta delle tre patrie”, nonostante Florit sempre difese le sue radici e avesse ribadito sempre la sua condizione di “cubano”, dicendo che lui non era spagnolo, non era statunitense ma che la sua patria era una sola: Cuba. Questo poeta nacque in Spagna e morì negli Stati Uniti, paese del quale prese la cittadinanza. Dopo il 1959, data della rivoluzione cubana, il poeta non mise più piede a Cuba, di conseguenza lì la sua sublime poetica fu poco conosciuta. Il suo sguardo ideologico non abbracciava il cambiamento politico di quel momento.

L’Opera di Eugenio Florit

La sua opera è molto legata alla cultura e alle tradizioni insulari cubane. Lui valorizzò la decima cubana come brano per esprimere alti valori poetici e sviluppare ancora di più la corrente della “poesia pura”, inserendo elementi di un’altra corrente che comporta come aspetto principale l’impiego del tono colloquiale.

La tendenza intimista di questo poeta non racchiude la sua poesia a un mondo interiore, ma plasmando i suoi versi con una forma adeguata, con termini ricercati ed esatti offre un’armonia generale, piena oltre che di elementi simbolici, anche di musicalità, che conserva l’accento classico, con l’uso della metrica tradizionale ispanica.

Sonetto

Conoscerete che son stato vivo

da un’ombra che sarà sulla mia fronte.

Solo sulla mia fronte l’inquietudine presente

ch’è oggi in me, del dolore imprigionato.

Bianco il volto, senz’ardore lascivo,

privo del sonno che s’impiglia alla mente.

Ormai su me, silenzioso eternamente,

la rosa di carta e il verde ulivo.

Qual sonno senza sogni angosciosi,

l’anima aperta a tremule carezze,

immobili le mani sopra il cuore.

Come è lontana la voce dell’amore.

Con che gusto avvicino la bocca alle delizie

di tutti gli oceani sereni.

Soneto

Habréis de conocer que estuve vivo
por una sombra que tendrá mi frente.
Sólo en mi frente la inquietud presente
que hoy guardo en mí, de mi dolor cautivo.

Blanca la faz, sin el ardor lascivo,
sin el sueño prendiéndose a la mente.
Ya sobre mí, callado eternamente,
la rosa de papel y el verde olivo.

Qué sueño sin ensueños torcedores,
abierta el alma a trémulas caricias
y sobre el corazón fijas las manos.

Qué lejana la voz de los amores.
Con qué sabor la boca a las delicias
de todos los serenos océanos.

Nella raccolta “Tropico” Florit tocca l’apice della decima creola, e raggiunge una universalità come poche volte sono riusciti i cultori del genere.

Sospiro di opposta vita

arriva per cammino ignoto

già con l’anelito rotto

e la speranza partita

Se la sabbia chiara, invaghita

fosse tomba! Già lamento

invoca fallito intento

di termine. Deviazione

rifiuta fredda espropriazione

trasformata in onde dal vento.

Suspiro de opuesta vida

llega por camino ignoto

ya con el anhelo roto

y la esperanza partida.

¡Si arena clara, encendida

fuese tumba! Ya lamento,

clama fracasado intento

de término. Su desvío

rechaza despojo frío

vuelto en ondas por el viento.

Florit ha un modo di scrivere le decime, simile a quello di Luis Cernuda e in qualche modo a Jorge Guillén, e si trova nel ritmo lirico della generazione del ’27 spagnola. Non come momento solo identitario, ma come culto che esce dal riferimento nazionale. Questo dimostra che la poesia cubana ha dei legami stretti con quella spagnola e ispano-americana, che ha dei punti di contatto che vanno oltre il vocabolario e i lessicali comuni. Comunque nonostante i solidi contatti di ritorno con le grandezze liriche di Spagna, la poetica di Florit porta un caudale della tradizione cubana in poesia, che le concede una nota distintiva, originale e un’identità, oltre che universalità.

La sua opera, come quella di Balzac, è dotata di autonomia, raggiunge uno status che non è quello a cui necessariamente aspirava l’autore, ma quello trovato dai lettori a seconda i propri contesti e realtà sociale.

Per molto che io cerchi di spiegare la poesia di questo poeta, le mie parole la spiegherebbero meno, di quello che salta all’occhio a un lettore che si avvicini ai suoi versi in lingua spagnola.

Quale forza si dissangua in ogni colomba

evase al ferro innamorato della gola,

quando sono fisse nell’aria con le ali dell’agonia

agitando il mondo blu pieno di polvere dei villani?

[…]

Eri quel minuto per tutta la morte

nel navigare in oceani profondi di silenzio

con un lungo cammino di pupille addormentate

e uno stormo di colombe attaccate ai tuoi sogni.

¿Qué fuerza se desangra en casa una de las palomas

evadidas del hierro enamorado de su garganta,

cuando están fijas en el aire con las alas de agonía

agitando el mundo azul lleno del polvo de Los vilanos?

[…]

Tú fuiste aquel minuto para toda la muerte

a navegar en hondos océanos de silencio

con un largo camino de pupilas dormidas

y un bando de palomas prendido a tus ensueños.

Le colombe sembrano rigide nella prima strofa (colombe di ferro) mentre nella seconda, sembra che volino. Agisce il miracolo del linguaggio dell”io” che parla a un “tu”, e tutto funziona attorno a quel dialogo, a differenza delle immagini e le metafore costruite in funzione della bellezza. Questa poesia appartiene all’arte poetica della parola che cerca la bellezza, è una poesia che porta idee, ma non sono le idee le parti fondamentali di essa. Infatti la poetica di Florit è anche mistero della comunicazione e non comunicazione nel senso stretto del termine.

YCL